Passeranno con gli anfibi sulle nostre certezze, di Costanza Miriano
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Riprendiamo dal blog dei Cinque Passi un articolo di Costanza Miriano pubblicato il 10/12/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Adolescenti e giovani nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (14/12/2014)
Sono una mamma di un adolescente, un preadolescente e due bambine, e grazie alla mia rispettabile esperienza ho una forte, incrollabile, solida certezza: ho totalizzato fino a oggi almeno sedicimilasessanta errori educativi. E questo nella migliore delle ipotesi, cioè nell’auspicabile caso di avere sbagliato una sola volta al giorno con ciascuno dei figli. Nella realtà potrebbero essere molti di più ma preferirei non indagare.
Nonostante conosca i limiti con cui mi occupo dei figli (dopo le ansie dei primi tempi ho eletto a mio stile un’allegra trascuratezza), mi aggiro nel mondo con incoscienza. È che io so che non sono io, né lo è mio marito, il garante della riuscita della nostra prole. Il loro Padre è un altro, ed è in cielo anche la loro vera Madre. Noi siamo supplenti, con un incarico a t.d. e pure abbastanza limitato nel tempo.
Io credo infatti che non ci sia una vera e propria tecnica educativa, pur avendo comprato a chili manuali sull’educazione delle più varie ispirazioni (e a posteriori posso dire che alcuni erano non solo inutili, ma anche decisamente dannosi, ma purtroppo non ho un caminetto), se quello che si deve insegnare è la vita. Anzi, mi viene persino il dubbio che non si possa proprio insegnare nulla di veramente fondamentale, a parte allacciarsi le scarpe possibilmente del piede annesso alla scarpa, usare forchetta e coltello senza cavare occhi a fratelli, non buttare tostapane attaccati alla spina dentro vasche da bagno piene d’acqua e sorelle. Oltre, è chiaro, alla regola base della vita (mai scarpe blu con vestito marrone).
Io penso che i figli abbiano soprattutto diritto e bisogno di due cose.
Prima di tutto vogliono essere amati. Non è scontato. Amare davvero non è facile. Vuol dire prima di tutto accettare ognuno dei figli per come è. Spettinato, puzzolente, precisino, caotico, grasso, scheletrico, antipatico, pesante o bellissimo, simpaticissimo, dolce e servizievole. Il figlio perfetto non esiste, e se è molto ordinato magari non è creativo, è simpatico ma distratto, è obbediente ma duro e giustizialista, è allegro ma capriccioso. A volte è tutte le cose insieme. A volte sa fare e dire sempre la cosa che ci fa saltare i nervi (nessuno ci conosce come loro), a volte lo vorremmo più simile a noi e riconosciamo invece in lui i difetti dell’altro genitore per i quali facciamo più fatica. Altre volte lo vorremmo diverso da noi, e ci dispiace che ci somigli nei nostri difetti, in quelli che meno vorremmo avere. Insomma, anche se persino “noi che siamo cattivi sappiamo dare cose buone ai nostri figli”, darle sempre, queste cose buone, non è affatto facile. Anche con i figli, nel caso dell’amore più istintivo e quasi animale – soprattutto per le madri – la capacità di amare davvero, con il cuore libero, capace di accogliere e di lasciare liberi, di non proiettare attese e rivendicazioni, questo amore bello, forte e pulito, questo viene solo da Dio. Solo a lui possiamo chiedere che ci insegni a guardare ai nostri figli.
Soprattutto durante gli anni dell’adolescenza, quando dovranno necessariamente andare a sperimentare la loro Babilonia, a ribellarsi, a fare le loro cavolate, a vedere se davvero quello in cui credono i loro genitori è roba buona e solida. Dovranno salire con gli anfibi sopra le nostre certezze per vedere se sono di cartongesso o di marmo, prendere a calci l’albero sotto il quale da piccoli li abbiamo portati a riposare, per vedere se è marcio dentro. In quei momenti: no panic. È tutto previsto. Passerà. Basta che reggiamo noi, e se abbiamo seminato torneranno. Arriverà un momento in cui faranno qualcosa anche se gliela abbiamo consigliata noi. Allora saranno adulti.
L’importante è che il padre rimanga a casa quando il figliol prodigo va a sperperare i suoi averi, e non si unisca alla compagnia, non vada col figlio a prostitute, rimanga a custodia della casa e non la faccia andare in malora. È il momento in cui il ragazzo se ne va con la carovana, è capitato a Maria e Giuseppe, capiterà anche a noi di stare a cercarlo per tre giorni. Aspettare in panchina, non scendere in campo, pregare per la sua felicità nella libertà, quella cosa che persino Dio ha più cara della nostra stessa salvezza.
Magari ci sono dei momenti in cui ci provoca per vedere fino a che punto possiamo volergli bene, e ancora una volta l’unica cosa da fare è alzare lo sguardo a Dio e vedere come ci ama lui. Tanto, tantissimo, anche quando facciamo delle schifezze.
La seconda cosa di cui hanno bisogno i figli è la bellezza. Sapere che la vita è una cosa bella, che vale la pena viverla nonostante tutto, sempre. Vedere in noi questa certezza, respirarla nella nostra contentezza, convincersene nella nostra fiducia.
La nostra certezza ancora una volta non può che fondarsi in Dio, perché senza di lui ho qualche dubbio sul fatto che la vita sempre valga la pena. Alla fine, dunque, quello che serve per essere buoni genitori, soprattutto nella tempesta dell’adolescenza, è quello che serve a essere santi. Esattamente lo stesso equipaggiamento. E quindi se ci preoccupiamo della nostra conversione educheremo senza nessuno sforzo aggiuntivo i nostri figli. Se vedranno che sappiamo perdere qualcosa a cui teniamo per un fratello, se vedranno che non facciamo i furbi ma anzi rischiamo pure di passare per scemi perché ci facciamo difendere dal Padre, che preghiamo seriamente, che crediamo davvero ai sacramenti, se respireranno il sacro, potranno fare tutte le esperienze che vorranno, ma torneranno a casa. Non torneranno per imparare da noi, ma da quello dal quale impariamo anche noi.