L'Avvento, quella fragilità che sfama. L’avvento antico, l’Avvento nuovo di Cristo. Oltre la soglia che ci separava, di Alessandro D'Avenia
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Riprendiamo da Avvenire dell’8/12/2014 un testo di Alessandro D'Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (14/12/2014)
Venne Gesù, a porte chiuse... e disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!».
L’arte in Grecia nasce dal desiderio di toccare gli dei. I Greci intuiscono che gli dei non possono che avere forma umana, perché nulla che influisca sull’uomo può esser meno di un uomo, anche se non ne condivide la mortalità. L’arte si slancia oltre la fallibilità umana per costruire lo spazio in cui santo e profano dialoghino, umano e divino entrino in relazione.
L’arte arcaica scolpisce le prime statue di dei, leviga i templi in cui il dio sotto forma di statua è confinato nella stanza inaccessibile, e cerca di dare all’uomo la possibilità di contattare gli dei. Scultura e architettura sono il desiderio di confinare il divino nel territorio dell’umano, il santo nello spazio e nel tempo profani, quasi costringere dio a farsi uomo.
Ma santo è etimologicamente ciò che è "separato" e deve essere tenuto "separato" dal profano vivere, per questo l’uomo crea soglie di accesso alla dimensione ulteriore, fuori dal fallibile, dall’impuro, dal sangue, dal sudore, dalla fatica, dal lavoro, dal quotidiano. Le statue di dei con la loro bellezza "di un altro mondo" sono il desiderio di pietra che l’altro mondo si occupi di questo, un vero e proprio "doppio", presenza surrogata del divino nelle strade degli uomini. La bellezza si addensa attorno al culto di questi luoghi e immagini-soglia, in cui il dio si rende tangibile a dita profane. L’arte invoca come d’avvento il dio perché si avvicini e sollevi l’uomo dal quotidiano profano mortale, in una tensione che ribadisce il limite dell’umano nel concepire il divino: nel momento in cui cerca di toccarlo il divino si sottrae, la soglia costruita è invalicabile, la separazione resta insuperabile.
Lo dimostrano corpi perfetti, che gli antichi scultori levigano, strappandoli a ferite e imperfezioni dei mortali. La bellezza è la strategia umana per raggiungere il divino e costringerlo a sostare con noi, o quanto meno dargli un volto cui rivolgersi per placarlo: solo bellezza e sacrifici lo ammansiscono. Eppure proprio nel renderlo tangibile, mentre si alimenta la speranza di una vicinanza, si acuisce il dolore di una alterità totale al sudore quotidiano. Il profano viene ricacciato nel suo angolo, non è un dio con noi. Qualcosa di simile accade, nella cultura di massa, con "le divine" in copertina, modificate da scultori del photoshop (i programmi di correzione fotografica), che rimandano a prodotti santificanti, surrogati sacramentali non solo tangibili ma acquistabili, in luoghi che sostituiscono il tempio domenicale.
Dio ascolta ieri come oggi l’invocazione umana e si fa gradualmente presente, fino a scavalcare i segni e i sogni umani, diventando tenera carne di bambino. La stessa sostanza degli uomini, le stesse tappe della vita (bambino, adolescente, adulto), lo stesso sudore, lo stesso lavorare, lo stesso camminare, lo stesso morire. Il profano non viene ricacciato in un angolo, ma pienamente assunto e trasformato e per questo reso abitabile come luogo del sacro e del santo, senza esserne separato. Se Dio nella sua umanità ha fatto il falegname per trenta anni, la nostra umanità può essere pienamente divina nel quotidiano lavoro. La garanzia sono proprio quei segni "mortali" che non spariscono nel corpo glorioso del risorto e che il Tommaso che c’è in noi deve verificare.
Segni che Caravaggio dipinge con realismo evangelico (ci scandalizza forse per questo?). Non è un dio che nasconde i segni del quotidiano con i suoi fallimenti, ferite, cadute. Non è un dio scolpito nella perfezione sognata dell’arte, ma è la reale gloria di un corpo umano, fatto carne tessuta nel grembo di una donna e straziata dalla croce. Dal Natale in poi abbiamo l’alibi perfetto per non essere accusati di noia, stanchezza, fallibilità, ferite, perché la soglia non è più fuori dal tempo e dallo spazio, nella perfezione irraggiungibile, ma è riscattata qui, adesso, nel corpo, nella fatica, nel lavoro quotidiano, nella misura in cui lasciamo abitare dal divino la statua che siamo, fino a che la pietra diventi carne del divino per via di grazia.
Terra, profano, corpo, lavoro sono tutte dimensioni del santo, da quando il santo si è fatto terra, profano, corpo, lavoro. Se non ci riesce di viverlo è perché, come Tommaso, non abbiamo ancora creduto nel Natale di allora, e in quello eucaristico di ogni giorno, non più irraggiungibile cibo degli dei, ma tangibile pane quotidiano.