L’imperatore e il suo cavallo, di Antonio Paolucci [La statua equestre di Marco Aurelio]
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Riprendiamo da Luoghi dell’infinito di Avvenire di luglio/agosto 2014, pp. 70-71, un articolo di Antonio Paolucci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/11/2014)
La Roma imperiale era gremita di statue di bronzo; immagini di imperatori, di generali, di dei. Lo stesso accadeva, sia pur in proporzioni infinitamente minori, nelle capitali dell'ecumene romanizzato, in Britannia come in Africa, in Spagna come in Siria.
Di queste opere poche sono sopravvissute. Più della damnatio memoriaedi imperatori deposti e uccisi (Nerone, Caligola, Domiziano), più delle invasioni barbariche e della iconoclastia cristiana dei primi secoli, ha decretato la loro fine la fame di metalli che ha attraversato il Medioevo.
Il bronzo era un materiale prezioso. Le grandi statue venivano fuse per ricavarne strumenti di lavoro, armi, arredi sacri e profani. Il Marco Aurelio che oggi sta in copia al centro della romana Piazza del Campidoglio e in originale all'interno dei Musei Capitolini avrebbe subito la sorte dei tanti perduti capolavori se, per un errore provvidenziale, i romani dell'alto Medioevo non avessero riconosciuto in quel cavaliere in bronzo dorato l'immagine di Costantino, l'imperatore cristiano.
Fu così che la statua, modellata probabilmente nel 176 d.C. per celebrare la vittoria di Marco Aurelio su Marcomanni e Sarmati e collocata in origine presso i Rostri, nel cuore dei Fori, finì in San Giovanni in Laterano, madre di tutte le chiese e sede del vescovo di Roma. Il caballus Costantini diventò una delle mirabilia Urbis insieme a Colosseo, Pantheon e Piramide Cestia.
I pellegrini che da ogni parte d'Europa venivano a Roma per pregare sulla tomba di Pietro, quando entravano nel recinto sacro del Laterano incontravano il Marco Aurelio ribattezzato Costantino, statua equistris inaurata(così è definita nei documenti) che stava a significare la continuità e la sacralità di Roma eterna, ora trionfante sugli idoli pagani nel segno di Cristo e sotto il potere del papa.
In età umanistica, il bibliotecario apostolico Bartolomeo Platina, lo stesso che figura nel celebre affresco di Melozzo da Forlì nella Pinacoteca Vaticana, certificò la vera identità del cavaliere di bronzo. Non di Costantino si trattava ma di Marco Aurelio, l'imperatore filosofo. Ciò non diminuì la fama della statua. Il colpo di genio lo ebbe papa Paolo III Farnese quando nel 1538 decise di trasferire la scultura sul colle capitolino affidandone a Michelangelo la sistemazione urbanistica. Il Buonarroti disegnò la mirabile aureola del litostrato pavimentale e diede alla scultura la collocazione che conosciamo. Marco Aurelio volta le spalle al Colosseo insanguinato e guarda verso la cupola di San Pietro. Il suo incedere trionfale muove verso la tomba del Principe degli Apostoli.
Il messaggio che Paolo III affidò all'allestimento di Michelangelo appare ancora oggi di straordinaria efficacia simbolica. Le virtù di Seneca e di Plutarco rappresentate da Marco Aurelio sono diventate virtù cristiane. La storia si è fatta santa. L’imperium di Roma trasfigura nell'imperium sine fine della Chiesa romano-cattolica. Bisogna riconoscere che papa Farnese e Michelangelo insieme hanno realizzato in Piazza del Campidoglio una operazione geniale di altissimo significato religioso e politico.
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