Il cellulare in cattedra, il prof altrove… , di Giorgio Israel
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Riprendiamo da Il Mattino del 4/11/2014 un articolo di Giorgio Israel. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel.
Il Centro culturale Gli scritti (9/11/2014)
È difficile negare la verità contenuta nel detto poco raffinato secondo cui “il pesce inizia a puzzare dalla testa”. Diversi anni fa, quando la diffusione dei cellulari non era universale come adesso, nelle riunioni di una certa importanza ogni partecipante teneva il telefono acceso ma silenziato, in modo da tenersi costantemente informato di ogni chiamata.
Fino a che si trattava di persone con funzioni dirigenti amministrative o politiche, manager di un certo livello, primari ospedalieri, ecc. – insomma persone che erano suscettibili di ricevere chiamate tanto importanti quanto urgenti – la cosa si poteva ancora capire.
Ma poi l’usanza è dilagata. Anche in un dibattito culturale, nella presentazione di un libro, in riunioni di importanza non così vitale, i partecipanti usano sedersi al tavolo ponendo di fronte a sé qualche foglio di carta, una penna e uno o anche due cellulari accesi e silenziati in modo da rimanere costantemente “wired” (connessi) in ogni istante della manifestazione.
Gettano un occhio all’apparecchio del vicino, magari per compiacersi di possedere il modello più avanzato e poi tengono sotto controllo il piccolo schermo attenti alla minima vibrazione, alle chiamate e ai messaggi in arrivo. Spesso digitano una risposta, magari soltanto per dire che non possono rispondere, in non pochi casi si alzano con gesti compulsivi per appartarsi a rispondere, anche se sta parlando uno degli interlocutori – una maleducazione che un tempo veniva evitata anche sopportando per qualche tempo una necessità corporale, mentre il cellulare appare dotato di per sé di una necessità di ordine superiore che schiaccia tutto il resto.
Inutile dire che un simile comportamento ne induce uno analogo non solo da parte degli interlocutori, ma anche da parte del pubblico che non vede perché mai dovrebbe spegnere il proprio apparecchio e non tenere sott’occhio lo schermo, visto che lo fa chi ha un ruolo centrale nell’incontro.
Abbiamo parlato di una caduta di livello nei rapporti, di autentica maleducazione, ma questo è soltanto l’aspetto esteriore. C’è qualcosa di più profondo che richiederebbe un’analisi psicologica e antropologica. A noi sembra che indichi che l’apparecchio induce – consapevolmente o meno, non importa – lo stato d’animo di chi, in fin dei conti, considera quel che sta accadendo – il suo intervento, quello degli altri, l’attenzione del pubblico, la propria attenzione – come secondario, o almeno potenzialmente secondario rispetto a quel che può accadere “altrove”.
Non è solo il timore di non poter essere informati di qualche evento: è minima la probabilità che proprio in quelle due ore accada qualcosa di grave o di talmente importante per persone che non hanno responsabilità tali da richiedere un loro intervento immediato. No. Si tratta del timore di perdere il controllo di quel che accade “fuori”, con l’esito di mettere in secondo piano quel che si sta facendo, l’evento non virtuale ma reale, fisico, concreto, cui si sta partecipando.
Gli esiti sono due. Il primo è personale. Ci si mette in una situazione simile a quella di chi si droga: si considera il mondo in cui si vive come una realtà insoddisfacente, da cui si è pronti a fuggire in attesa di qualcosa “di più”, “di meglio”, di più importante e gratificante. La dipendenza non produce effetti fisici immediati, ma quelli psicologici non sono meno devastanti.
Poi c’è l’esito collettivo: per effetto di “mimesis” tutti sono indotti a considerare più importante la propria connessione “esterna”. E perché mai non dovrebbero farlo davanti a una persona il cui sguardo si porta continuamente sul piccolo schermo e che finisce con l’incespicare nel parlare, con l’esporre i concetti in modo frammentario e sgangherato, oppure si alza e si assenta mentre parla un altro? Il risultato è un consesso di persone la cui attenzione primaria è “altrove” e in cui è svilito, se non dissolto del tutto, il fine dell’incontro, e cioè creare un rapporto umano sostenuto dalla fisicità dell’eloquio, dalla presenza materiale attiva e attenta.
Ora, tutte le testimonianze dicono che questa prassi sta dilagando anche nel sistema dell’istruzione. Se fino a qualche tempo fa dirigenti scolastici o insegnanti rigorosi erano intransigenti rispetto all’ingresso dei cellulari in classe, sembra che anche questo muro sia cadendo a pezzi.
Cresce il numero degli insegnanti – universitari o delle scuole di ogni ordine e grado – che entrano in classe, depongono il cellulare sulla cattedra, acceso e silenziato, ogni tanto danno un’occhiata allo schermo e sono attratti da una vibrazione che segnala una chiamata o l’arrivo di un messaggio. Il parlare s’incespica, la lezione si frammenta e talora, a mo’ di giustificazione si borbotta: «Ma guarda per quale sciocchezza mi disturbano!». Ma allora perché non spegnere a priori, magari soltanto per quei tre quarti d’ora di lezione?
Inutile dire che, scendendo dalla testa sempre più in giù, gli studenti si sentano perfettamente legittimati a tenere acceso il loro cellulare, magari sotto il banco, comunque in posizione da poterlo tenere sotto controllo. Così anche qui l’aggregato (la classe) si sgretola, i legami diventano evanescenti: ognuno si proietta verso l’esterno, verso qualcosa che “conta di più“ (almeno potenzialmente) dello stare insieme e con l’insegnante.
Poi magari, nel pomeriggio, in modo non più fisico ma virtuale, si ricostituisce un tessuto di relazioni in cui si fanno insieme i compiti con il cellulare alla mano. Ma l’insegnante non c’è più, la lezione non c’è più, il rapporto è virtuale. Il rapporto diretto in cui attraverso la parola e il confronto dovrebbe scoccare l’interesse e la comprensione è svilito, perché ne è lacerato il tessuto di fisicità.
In un libro recente, Massimo Recalcati ha indicato ne “L’ora di lezione” l’unica via per salvare un’istruzione in sfacelo, l’unico momento in cui può scoccare quella scintilla magica tra maestro e allievo capace di generare la passione per la conoscenza intesa come un processo aperto, fatto di continue domande e di questioni irrisolte, l’unico momento in cui il bambino o il ragazzo può conoscere e avvalersi della “potenza generativa” della scuola.
Ma come potrà mai l’ora di lezione assolvere tale funzione se il maestro, invece di pensare esclusivamente a trovare entro sé stesso l’energia e il desiderio di creare quella scintilla generativa, frammenta la sua presenza nel rapporto con un “fuori” e invita, neanche tanto implicitamente, i suoi allievi a fare altrettanto, a proiettare “fuori” la loro attenzione primaria? Come potrebbe una scintilla suscitare una fiamma su un tessuto completamente lacerato?
Per questo, chiediamo agli insegnanti – tra cui tanti continuano a manifestare una dedizione che resta l’unico fronte di resistenza al crollo totale dell’istruzione – di spegnere i cellulari e di farli spegnere ai loro allievi. Forse non solo i giovani inizieranno a sentire che anche a scuola ci si può appassionare a qualcosa, ma anche la “testa” inizierà a capire la miseria del suo cattivo esempio.