Riflettendo su gender e filosofia a scuola. Blog dei redattori de Gli scritti (novembre 2014)
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1/ Un progetto di educazione all’affettività/sessualità nelle scuole dinanzi alla questione del gender e della differenza sessuale (di L.d.Q.)
Mi è capitato di dialogare con una responsabile di un progetto per l’educazione all’affettività/sessualità nelle scuole statali.
Il progetto si ispira all’idea di “rispetto”. Il maschio deve avere rispetto della femmina, come degli altri maschi, come degli omosessuali. Lo stesso la femmina. E nessuna di queste cose è facile, perché nell’adolescenza i maschi si chiudono in gruppo ed hanno pregiudizi sulle femmine - anche se poi si innamorano - e viceversa. Allo stesso modo i ragazzi vivono/creano come un cliché del maschio e, ad esempio, uno debole, ma non omosessuale, può essere fatto oggetto di presa in giro, fino ad episodi di bullismo.
D’altro canto - prosegue - questo non vuol dire indifferentismo. Perché il rifiutarsi di parlare di maschile e femminile implica esattamente non affrontare quelle dinamiche che si creano in classe e nella vita e che sono quelle su cui i ragazzi attendono una parola.
Con sapienza spiega che la linea scelta, allora, è stata quella di utilizzare il termine “minoranze” per indicare i ragazzi con tendenze omosessuali o transessuali.
Il progetto non si limita - e non potrebbe, spiega - trattare solo la loro situazione, proprio perché altrimenti trascurerebbe gli elementi educativi di cui necessita la maggioranza. Si tratta allora sia di lavorare sul rispetto dell’omosessualità, sia sul rispetto del maschio e della femmina.
La via scelta, quindi, vuole evitare sia la fluidità per la quale scomparirebbe l’attenzione al maschile ed al femminile, sia la rigidezza, per la quale non ci sarebbe altro che il maschile ed il femminile.
Vuole sottolineare che ci sono componenti che provengono dal sesso biologico, sia componenti che derivano dall’educazione, sia componenti che non è facile collocare.
Ma certamente, se tutto fosse fluido, scomparirebbe il rispetto della donna - spiega. È evidente, ad esempio, che solo la donna partorisce e che sarebbe falsa una legislazione che, in nome di una pretesa fluidità ed uguaglianza, non difendesse la condizione lavorativa della donna quando porta un figlio nel grembo e quando lo deve accudire nei primi mesi dopo il parto.
Sarebbe miope, allo stesso modo, trascurare il ciclo, che invece caratterizza il corpo della donna e che dipende a sua volta dagli ormoni e dal cervello.
Se è vero che non tutte le donne posseggono quelle caratteristiche che si attribuiscono loro e non tutti i maschi posseggono analogamente altre caratteristiche, è altrettanto vero che la maggior parte delle donne le posseggono e la maggior parte degli uomini posseggono tali caratteristiche.
A scuola si tratta allora di aiutare i ragazzi e le ragazze sia ad avere rispetto per chi ha tendenze omosessuali o transessuali, sia ad aver rispetto i maschi delle femmine e le femmine dei maschi.
Sollevare tutti i problemi ridimensiona alcune questioni che sono reali, ma sono solo un aspetto “minoritario” dell’educazione all’affettività ed alla sessualità.
Racconta anche che è importante e bello aiutare i ragazzi a comprendere che la sessualità agìta condizionerà con la sua memoria quella matura. Ad esempio, racconta di un giovane sposo che aveva detto alla moglie che ogni volta che faceva l’amore con lei le tornavano in mente le altre donne con cui l’aveva fatto e che, senza volerlo, confrontava i modi amorosi di lei con le precedenti. E questo era una sofferenza enorme per lei. Ma avviene lo stesso per la controparte maschile.
2/ L’insegnamento della filosofia nelle scuole: alcune questioni di base, di A.L.
L’assurdità del modo abituale di insegnare filosofia è che la si riduce a storia della filosofia, limitandosi a contestualizzare storicamente i diversi pensieri. Certo, la contestualizzazione storica deve essere fatta, ma la filosofia è altro: bisogna giungere alle domande esistenziali che essa pone. E la reazione dei ragazzi a questo è sorprendente: dinanzi ad un professore che li aiuta a pensare essi divengono interessatissimi.
Il modello che predomina è presentare la scienza (fisica, ecc. ) come qualcosa che possiede verità definitive e la filosofa come una carrellata di opinioni assolutamente discutibili, quasi che per avere ragione bastasse venire dopo un altro, cioè arrivare per ultimo.
Basterebbe trasformare l’insegnamento delle scienze in storia della scienza e la storia della filosofia in filosofia per accorgersi che non è così. Eppure questo sembra oggi un must: filosofia è storia della filosofia e scienze non è storia delle scienze e dei suoi paradigmi che si modificano nei secoli, ma semplicemente scienza.
Se la scuola non aiuta a comprendere l’esistenza, allora si trasforma in qualcosa di autoreferenziale. Allora si studia solo per prendere un voto. Oppure si studia per trovare più facilmente un lavoro. È frustrante e demotivante quando la scuola diventa fine a se stessa e non vive in tensione con la vita. La scuola vive per ciò che viene al di fuori e dopo di lei, ma questo al di fuori e dopo non è il lavoro e non deve esserlo.
No, la scuola serve per capire la vita, per crescere esistenzialmente.
Qui si situa una corretta comprensione della proposta delle “competenze” - diversa dalla visione di chi ne fa un assoluto. Per acquisire delle competenze bisogna misurarsi con i classici e con i grandi problemi della scienza, della filosofia, ecc, ecc. Se non si individuano i passaggi nodali della cultura e della vita, le competenze non matureranno mai. È assolutamente scorretta una visione della scuola che contrapponga competenze a conoscenze: piuttosto le competenze maturano solo a contatto con determinate conoscenze e le conoscenze ben determinate debbono diventare competenze.
Calvino spiegava che i classici sono questi testi che non finiscono mai di dirti qualcosa. Sono quei testi dei quali ogni tanto dici: “Lo sto rileggendo”, anche se non fosse vero. Sai che vale la pena rileggere quei libri.
Senza classici non si danno né scuola, né competenze. Acquista competenze chi si misura con i classici. Ma i classici debbono essere letti non in maniera filologica, bensì con uno sguardo alla vita, alla “competenza” di vivere.
Qui la filosofia è decisiva. Fra l’altro è una delle pochissime materie che è ancora solamente orale. Forse riuscirà a sfuggire al precipitare nei test, cosa che segnerebbe la sua fine come disciplina educativa. Ielli-Querci hanno scritto un vero libro di filosofia per gli alunni e non solo un libro di storia della filosofia.
Diversi autori hanno cominciato a scrivere di filosofia per bambini, consapevoli che essa, se debitamente trattata, è adattissima per loro. Si pensi a Lipman e Gopnik.
Merita rileggere su questa questione quanto l’allora cardinale J. Ratzinger disse: (intervento L'Enciclica Fides et ratio ed il rapporto fra fede e ragione nell'incontro su “Fede e ricerca di Dio” tenuto il 17 novembre 1998 nella Basilica Lateranense):
«Permettetemi di cominciare con una citazione presa dalle “Lettere di Berlicche” del noto scrittore e filosofo inglese C.S. Lewis. Si tratta di un piccolo libro pubblicato per la prima volta nel 1942, che mette in luce i problemi ed i pericoli dell'uomo moderno in modo spiritoso ed ironico sotto la forma di immaginarie lettere di un diavolo di grado più elevato, che ad un principiante nell'opera di seduzione dell'uomo trasmette istruzioni, su come egli debba comportarsi. Il piccolo diavolo aveva espresso preoccupazioni al suo superiore per il fatto che proprio persone particolarmente intelligenti leggessero i libri della sapienza degli antichi ed in tal modo avrebbero potuto mettersi sulle tracce della verità. Berlicche lo tranquillizza ricordandogli che l'approccio storico, al quale fortunatamente gli studiosi del mondo occidentale sono stati convinti dagli spiriti infernali, significa appunto questo, “che l'unico problema, che con sicurezza non si porrà mai, è quello della verità di ciò che si è letto; ci si interrogherà invece su influssi e dipendenze, sullo sviluppo dello scrittore interessato, sulla storia degli effetti della sua opera e così via”. Josef Pieper, che nel suo trattato sull'interpretazione ha ripreso questo brano di C.S. Lewis, ricorda al riguardo che le edizioni, ad esempio di Platone o di Dante, stampate nei paesi dominati dal comunismo facevano precedere sistematicamente alle opere stampate un'introduzione, che aveva l'intenzione di comunicare al lettore una comprensione “storica” e cosi escludere la questione della verità. Una scientificità esercitata in tal modo diviene un'immunizzazione nei confronti della verità. La domanda se e quanto ciò che l'autore esprime sia vero, sarebbe una domanda non scientifica; condurrebbe anzi fuori dall'ambito del documentabile e del dimostrabile, facendo ricadere nell'ingenuità del mondo pre-critico. In tal modo viene neutralizzata anche la lettura della Bibbia: possiamo spiegare quando e in quali condizioni una frase ha avuto origine e l'abbiamo così incasellata nell'ambito storico, che ultimamente non ci riguarda. Dietro questa forma di “interpretazione storica” sta una filosofia, un atteggiamento di fondo nei confronti della realtà, che ci dice: non ha senso interrogarsi su ciò che è; possiamo solo domandarci che cosa possiamo fare con le cose. Non è in questione la verità, ma la prassi, il dominio delle cose a nostra utilità. Nei confronti di una simile apparentemente illuminante limitazione del pensiero umano sorge naturalmente l'interrogativo: che cosa veramente ci è utile? e per quale fine ci è utile? per quale scopo noi stessi esistiamo? A chi osserva con attenzione si manifesta in questo atteggiamento moderno contemporaneamente una falsa umiltà ed una falsa presunzione: la falsa umiltà, che non riconosce all'uomo la capacità di verità, e la falsa presunzione, con la quale egli si colloca al di sopra delle cose, al di sopra della verità stessa, in quanto eleva a fine di tutto il suo pensiero l'ampliamento del suo potere, il dominio sulle cose».