Etica coranica e etica evangelica: confronto con la morale islamica, di Maurice Borrmans

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /09 /2014 - 12:35 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito, dal sito dell’ATISM - Associazione teologica per lo studio della morale - la relazione tenuto da Maurice Borrmans, l’8/9/2009 nel corso del Seminario di studi su La teologia morale e il dialogo inter-religioso tenutosi a Mazara del Vallo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (2/11/2014)

La coscienza cristiana, nella sua riflessione sui problemi etici di oggi, dispone di tutta una tradizione diversificata di elaborazioni filosofiche e teologiche, le quali hanno trovato nella Bibbia e nell’insegnamento di Gesù i principi fondanti di una dottrina che possiamo qualificare di “evangelica”. I manuali di morale fondamentale e di morale applicata non sono mai mancati ai «moralisti» cristiani, il che permette loro di trovare risposte anch’esse evangeliche ai problemi della modernità, che siano di tipo bioetico oppure economico.

Nei suoi confronti, la coscienza musulmana non è sprovvista di un patrimonio originale, anche se diverso e talvolta contrastante. Conviene però di tener conto del carattere analogico di molti vocaboli che vi si ritrovano: basta pensare al testo del Corano ed agli adagi della Sunna, i quali sono alla base di tutta una elaborazione multisecolare in materia etica. Ma c’è davvero una «morale islamica»? Alcuni la riducono al Diritto ed al Culto, altri la confondono con la Legge chiamata Sharî‘a, e non a torto. Il fatto sta che la morale dei musulmani appare come una «forza efficiente orientata verso il bene» che garantisce al credente una serenità dell’anima di fronte al suo Creatore, il quale lo guida, lo giudicherà e lo retribuirà. Occorre quindi, per prima, considerare come la «morale islamica» si è costituita nel corso dei secoli. Si potrà, in seguito, delineare, tra i musulmani, delle prospettive differenziate dove un confronto con l’etica evangelica permetterà di intravedere le possibilità di un dialogo approfondito in materia di valori e poi di una collaborazione efficace nel servizio del bene comune.

La morale islamica comune[1]

Un riformista musulmano di Aleppo (Siria), ‘Abd al-Rahmân al-Kawâkibî (1849-1902)[2], sognava, alla fine del XIX secolo, nel suo libro Umm al-qurâ (La città-madre), la redazione di un manuale in cui il musulmano troverebbe tutta «una regola di vita» per quanto riguarda gli atti del culto, la vita individuale, familiare e sociale, il comportamento culturale, economico e politico, dove tutti i suoi atti sarebbero classificati come obbligatori, raccomandati, indifferenti/permessi, rimproverati o proibiti/vietati, tutto essendo riferito ai versetti del Corano oppure ai detti di Maometto. Tale sogno sembrava riassumere tutta la lunga storia della «morale islamica»: infatti quest’ultima, per essere valutata con equità, deve essere considerata nelle varie tappe della sua elaborazione storica prima di pervenire alla struttura attuale che tutti riconoscono ad essa.

L’islam, quando nasce all’alba del VII secolo, non viene dal niente: l’Arabia aveva le sue consuetudini e le sue popolazioni, pagane oppure giudaizzate o cristianizzate, vivevano dei valori che non erano senza valenza etica. C’era una «morale araba» oppure una «tradizione» (sunna) anteislamica, le cui virtù erano l’onore personale, il coraggio individuale, la solidarietà tribale, l’ospitalità generosa, la ricerca della giustizia, ecc. Bisogna riconoscere che il Corano stesso ne ha assunto la parte migliore, pur dando loro un carattere di comandamenti divini e sottomettendole ormai a dei criteri superiori, anche se quel periodo venne denunciato, più tardi, come quello dell’Ignoranza pagana (Jâhiliyya).

I 114 capitoli (sûre) del Corano, così come sono stati trasmessi oralmente da Maometto ai suoi discepoli e poi messi per iscritto, in forma definitiva, come affermano i musulmani, al tempo di ‘Uthmân, genero di Maometto e terzo califfo (regnò dal 644 al 656), propongono una morale di tipo veterotestamentario, tant’è vero che vi si ritrova, pressapoco, il Decalogo del Sinai nella sûrat al-isrâ’(17, 22-39)[3].

Occorre forse distinguervi due periodi e considerare, come lo fa lo storico egiziano Ahmad Amîn (1886-1954) nel suo libro Fajr al-Islâm (L’alba dell’islam), un insegnamento meccano (pochi versetti giuridici ma contenenti i principi della religione e della morale) ed un insegnamento medinese (con più di 200 versetti giuridici e tante direttive etiche)? E tutto sembra riassunto da questo celebre versetto: «La pietà non consiste nel volger la faccia verso l’oriente o verso l’occidente, bensì la vera pietà è quella di chi crede in Dio, e nell’ultimo Giorno, e negli Angeli, e nel Libro, e nei Profeti, e dà dei suoi averi, nonostante il suo amore per loro, ai parenti e agli orfani e ai poveri e ai viandanti e ai mendicanti e per riscattare i prigionieri, di chi compie la Preghiera e paga la Dècima, chi mantiene le proprie promesse quando le ha fatte, di chi nei dolori e nelle avversità è paziente e nei dì di strettura; questi sono i sinceri, questi sono i timorati di Dio!» (2,177).

Certo si sa benissimo che il Corano non presenta un’auto-rivelazione di Dio, ma la rivelazione della Sua volontà nei confronti delle sue creature, e quindi dei suoi comandamenti nelle relazioni dell’uomo con Dio, con gli altri e con se stesso. Ed è proprio quello che spiega lo shaykh M.A. Draz dell’Università d’al-Azhar del Cairo nella sua tesi di dottorato in Sorbona (Parigi), intitolata La morale du Coran. Conviene ascoltarlo nel precisare i campi di intervento di tale morale:

«Per la morale individuale, il Corano ordina l’istruzione, soprattutto etica, lo sforzo morale, la purità, la rettitudine, la castità, la decenza e la continenza dello sguardo, la dominazione degli istinti, l’astensione periodica del cibo e del sesso, il controllo dell’ira, la sincerità, la dolcezza e la modestia, il riguardo nei giudizi, l’astensione nel dubbio, la costanza e la sopportazione, la conformità ai buon esempi, lo stare nella via di mezzo, le buone azioni, l’emulazione, la purezza dell’intento. Egli proibisce il suicidio, la mutilazione e l’alterazione del proprio corpo, la menzogna, l’ipocrisia, l’avarizia, la prodigalità, l’ostentazione, l’orgoglio, la vanteria e la vanità, l’eccesso di superbia, la gelosia e la cupidigia, il libertinaggio, l’uso del vino e delle cose impure e di quanto è stato acquistato illecitamente. Egli permette l’uso moderato di tutte le cose.

Per la morale familiare, il Corano stabilisce i doveri nei riguardi degli ascendenti e discendenti: beneficenza, umiltà, obbedienza ai genitori, rispetto della vita del fanciulli e la loro educazione morale. Quanto ai doveri dei coniugi, egli precisa come il matrimonio viene costituito: alleanze proibite, alleanze autorizzate, consenso, contraddote, condizioni per la poligamia; come esso viene vissuto: serenità interiore, sopravvivenza della specie, diritti reciproci, pace coniugale anche in caso di antipatia, arbitraggio; come esso viene sciolto: divorzio, periodo di attesa, alloggio e procedimenti a favore di una riconciliazione, altro matrimonio, divorzio definitivo nel caso del terzo ripudio, risarcimento per la divorziata senza mantenimento. Le regole della distribuzione dei lasciti del defunto, in caso di successione, vi sono proposti nei loro dettagli.

Per la morale sociale, il Corano proibisce l’omicidio, il furto, l’inganno, l’usura, ogni spogliazione, lo sfruttamento dei beni degli orfani, l’infedeltà ai propri impegni, la dissimulazione, l’ingiuria, lo scherno, la diffamazione, la malignità e la calunnia. Esso ordina di legalizzare le transazioni per evitare ogni alea, di dare testimonianze giuste, di stabilire la pace tra i contendenti, di agire con benevolenza, soprattutto verso gli orfani, di emancipare gli schiavi oppure, almeno, di facilitare il loro accesso alla libertà, di incoraggiare al bene e di dissuadere dal fare il male, di esercitare la carità specialmente tramite l’elemosina. La generosità viene raccomandata ed il tesoreggiare rimproverato. In breve un codice di ‘buone maniere’ è proposto per le relazioni sociali.

La morale dello Stato chiede al suo Capo di consultare il popolo, di realizzare la giustizia, di mantenere l’ordine, di salvaguardare il bene comune e di lasciare alle comunità locali la loro libertà religiosa. Il popolo deve essere disciplinato, obbediente, unito, evitando perturbazione e vandalismo, ed anche ogni tipo di connivenza ed alleanza con il nemico. La dottrina della salvezza deve essere predicata senza costrizione né provocazione. In caso di ostilità, occorre non prendere l’iniziativa delle armi né combattere durante i mesi sacri. Due casi di guerre legittime sono accettati: non temervi la morte e non perseguire il nemico che si arrende, ma temere le furbizie degli infedeli. La fratellanza umana viene proposta come l’ideale.

Nei suoi doveri verso Dio, il credente deve obbedire incondizionatamente, meditare le parole e le opere di Dio, riconoscere i Suoi favori, fidarsi di Lui, non disperare della Sua grazia, adempiere i voti e le promesse a Lui fatti, proclamarLo santo e glorificarLo. Un culto quotidiano deve essere compiuto nei Suoi confronti, come bisogna visitare il Suo santuario della Mecca. Non si deve mai smettere di invocarLo e di tornare da Lui».

Questo riassunto dell’etica coranica dallo shaykh Draz specifica perfettamente quanto sarà elaborato più tardi a nome delle altre fonti della morale islamica. Infatti il «bell’esempio» espresso dai «detti e fatti» di Maometto costituisce il secondo fondamento di questa morale, benché i suoi ahâdîth si rivelano talvolta contradditori tra di loro, proponendo nello stesso tempo una «via di comodo» nell’interpretare le esigenze del Corano e una «via di sorpasso» a favore di virtù ascetiche, oppure mistiche. Il fatto sta che tutte le raccolte classiche di questi hâdîth, a somiglianza delle due classiche, quella d’al-Bukhârî (morto nel 870) e di Muslim (morto nel 865), vedono questi «detti e fatti» distribuiti a seconda dei capitoli della Legge (Sharî‘a), tali quali sono stati spiegati dallo shaykh Draz. Essi vengono quindi a conferma oppure a commento dei comandamenti coranici e ne precisano il contenuto in forma prevalentemente giuridica. Bisogna però far osservare che vi sono dei «detti» che hanno un sapore quasi evangelico, come i seguenti: «Dio ha creato Adamo a sua immagine», «Gli atti non valgono che per le loro intenzioni», «Sii in questo mondo come uno straniero di passaggio», «Opera per la vita terrena come se tu dovessi vivervi sempre ed opera per l’aldilà come se tu dovessi morire domani», «Nessuno di voi diventa davvero credente se non desidera per il suo fratello ciò che desidera per se stesso», «Disprezza le cose di questo mondo e Dio ti amerà; disprezza ciò che possiedono gli uomini ed essi ti ameranno», «Chiunque si abbassa davanti a Dio, Egli lo eleva e chiunque si eleva davanti a Dio, Egli lo abbassa», «Più forte delle montagne, del ferro, del fuoco, dell’acqua e del vento, è il figlio di Adamo, perché egli fa l’elemosina con la mano destra e lo nasconde alla sua mano sinistra». Certo si tratta di perle di spiritualità in mezzo a tanti «detti» che corroborano, di solito, i comandamenti del Corano nei vari settori considerati dallo shaykh Draz, ma non sono senza importanza.

Tale chiarifica a partire delle due fonti principali, il Corano e la Sunna, fu poi rielaborata e precisata attraverso il lavoro d’interpretazione dei fondatori delle quattro scuole etico-giuridiche, Abû Hanîfa (morto nel 767), Mâlik (morto nel 795), al-Shâfi‘î (morto nel 820) e Ibn Hanbal (morto nel 855), i quali utilizzarono per le loro sistematizzazioni, teoretiche e pratiche, la loro opinione personale (ra’y) ed il ragionamento per analogia (qiyâs), dando la preferenza a dei principi di diritto che caratterizzarono le loro scuole: per gli Hanafiti, è il valore dell’atto in se stesso che conta (istihsân) e per i Mâlikî, la sua corrispondenza al bene comune (istislâh), mentre i Shâfi‘iti danno valore alla soluzione antecedente (istishâb). La morale islamica si è così ben presto presentata come una morale della Legge (Sharî‘a) tant’è vero che si rivela difficile, nell’islam, distinguere tra morale e diritto. Non è a caso che si è parlato di «nomocratia» per il regime che struttura la società musulmana, poiché l’islam vi si è rivelato essere soprattutto una «praxis». Non mancano i manuali che ne hanno sistemato le regole, come il Trattato (Risâla) d’Ibn Abî Zayd al-Qayrawânî (morto nel 996) per la scuola canonica mâlikita. Alla «morale fondamentale» in prospettiva cristiana corrispondono allora nell’islam i «fondamenti del diritto» (usûl al-fiqh). E poi si sono moltiplicati i libri che ne fanno applicazione in tutti i campi della vita e ne spiegano le motivazioni permanenti.

Come lo riassumeva, nel 1969, un libro di sintesi della Tunisia moderna e cosiddetta liberale, il cui titolo recitava al-Ijtihâd wa-l-tajdîd fî l-tashrî‘ al-islâmî (Lo sforzo d’interpretazione e di rinnovamento nell’opera legislativa musulmana), «la Sharî‘a regge tutti i settori dell’attività umana: il credo (fede in Dio, negli Angeli, nei Libri, nei Profeti, nell’Escatologia, nella Predestinazione), il culto (preghiera, digiuno, elemosina, pellegrinaggio), la vita economica (lavoro, contratti, proprietà, denaro), il potere (del governo, dei giudici, delle assemblee), la difesa dello Stato (ordine pubblico, codice penale, relazioni internazionali, guerre, jihâd), la promozione del bene di tutti (a nome del comandamento coranico: ordinare il bene e proibire il male)»[4]. Ed è proprio così che i manuali attuali d’insegnamento dell’islam nei vari paesi arabi presentano agli scolari la morale islamica tale quale lo Stato moderno la vorrebbe vedere vissuta. Tutti hanno bisogno di sapere come vengono collocati gli atti umani nella scala delle qualifiche (hukm) etico-giuridiche di questa Sharî‘a, perché ne dipende la loro retribuzione da Dio (in bene, nel paradiso/giardino, o in male, nell’inferno/fuoco): sono obbligatori, raccomandati, indifferenti/permessi, biasimevoli o proibiti? Molti pensano allora che si tratta di una morale della Legge la cui osservanza è collegata alla ricompensa oppure al castigo.

Però nella sua lunga storia, la morale islamica si è poi vista arricchita dalle regole dei «buon costumi» (âdâb), espressione della «saggezza delle nazioni», soprattutto dell’Iran e dell’India. Non sono quindi mancati i manuali a favore delle cosiddette perfette «public relations». Basta ricordare, a titolo d’esempio, le due opere del musulmano iraniano, Ibn al-Muqaffa‘ (morto nel 759), il suo al-Adab al-saghîr (Adab Minore) ed il suo al-Adab al-kabîr (Adab Maggiore). Al tempo dello splendore di Bagdad si moltiplicarono quei libri destinati alla «conoscenza necessaria dei buon costumi per gli impiegati dello Stato e le persone civili». Ibn Qutayba (morto nel 889) ha dato con il suo Kitâb ‘uyûn al-akhbâr il primo vademecum illustrativo dell’etica islamica, mentre le Raccolte di proverbi e gli Specchi dei principi aggiungevano al dominio della Sharî‘a una raffinatezza superiore che la rendeva capace di promuovere un vero umanesimo negli strati dell’alta società dell’epoca. Per di più una morale filosofica di origine ellenistica si era introdotta tramite le traduzioni dei capolavori della falsafa greca al tempo del califfo al-Ma’mûn (regnò dal 813 al 833) ed appoggiata sia dai teologi mu‘taziliti sia da quei filosofi che si chiamano al-Kindî (morto nel 873), al-Fârâbî (873-950) ed Avicenna (980-1037). Miskawayh (morto nel 1030) apparve come il maestro di questa nuova scienza dei costumi con il suo Tahdhîb al-akhlâq (Disciplina delle disposizioni naturali), mentre Ibn Hazm (morto nel 1064) dava ai musulmani d’al-Andalus ispanica il suo Kitâb al-akhlâq wa-l-siyar (vera Epistola morale) dove venivano elencate le virtù del vero credente. Alla stessa epoca, Mâwardî (morto nel 1058), pur sforzandosi di regolare l’esercizio del potere politico con il suo al-Ahkâm al-sultâniyya (Gli Statuti governativi), regalava a tutti un Kitâb al-dunyâ wa-l-dîn che si rivelava essere un perfetto Trattato di morale religiosa e profana. Non sono quindi mancate ai musulmani, nel corso dell’Alto Medio Evo, le vie etiche che andavano al di là della semplice osservazione scrupolosa della Sharî‘a.

Parallelamente il monde islamico aveva conosciuto il nascere ed il diffondersi di tutto un movimento di credenti desiderosi di interiorizzare il loro culto e la loro morale: si tratta della ricca e variegata storia del sufismo che vide i profeti dell’ascesi e della mistica proporre al mondo musulmano un superamento del suo giuridismo per esaltare un «avvicinamento» spirituale di Dio, sfociando talvolta su esperienze esistenzialmente superiori a quelle della comune religiosità. Basta pensare ai più conosciuti tra di loro, a Hasan al-Basrî (642-728), il «mistico nella città», a Râbi‘a al-‘Adawiyya (713-801), la «poetessa del puro amore», a al-Muhâsibî (781-857), il «maestro dell’esame di coscienza», a al-Junaid (morto nel 910), il «prudente direttore spirituale», a Bistâmî (morto nel 874), l’«araldo dell’unicità assoluta», a al-Hallâj (858-922), il testimone dell’«unione d’amore attraverso la passione dolorosa», e a tanti altri che vennero più tardi come lo spagnolo Ibn ‘Arabî (1165-1240), l’egiziano Ibn al-Fârid (1181-1235) e gli iraniani Suhrawardî (1151-1191) e Jalâl al-dîn Rûmî (1207-1273). E sulle loro orme, quelle degli innamorati di Dio, nell’«unione di testimonianza» o nell’«unione di esistenza» con Lui, sono nate le famose confraternite (al-turuq) le quali, imitando i loro santi fondatori, insegnarono al popolo delle città e delle campagne un «islam del cuore» dalle «virtù bibliche» a somiglianza del modello tramandato da questi araldi della mistica musulmana (al-tasawwuf).

Ed è proprio il merito del grande Abû Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111)[5] di aver proposto ai suoi correligionari una “via media” che armonizzava le esigenze della Legge, le virtù della saggezza e le richieste della spiritualità, evitando così il giuridismo degli uni e l’oltranzismo degli altri. La sua «somma teologica morale» chiamata Ravvivamento delle scienze della religione (Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn) rappresenta l’apice di quanto l’etica islamica può immaginare e proporre fino ad oggi come ideale morale ai musulmani. I titoli dei suoi 40 capitoli sono dei più eloquenti. Ecco quelli della Prima Parte, Gli atti del culto (al-‘ibâdât): la scienza, i fondamenti della fede, i misteri della purità, i misteri della preghiera, i misteri del digiuno, i misteri del pellegrinaggio, la buona recitazione del Corano, la menzione del Nome di Dio e l’ordine delle orazioni di giorno e notte. La Seconda Parte tratta dei Costumi sociali (al-‘âdât) da disciplinare: le buone maniere della tavola, il matrimonio, l’acquisto lecito dei beni, il lecito e l’illecito, i buoni legami sociali, l’uso della vita ritirata, il buon uso dei viaggi, l’ascolto lodevole della musica, l’obbligo di ordinare il bene e di proibire il male, l’esempio dei profeti. Con la Terza Parte, si parla di domare I motivi di perdizione (al-muhlikât): le meraviglie del cuore, la mortificazione delle malattie dell’anima, quella dei due appetiti (cibo e sesso), quella della lingua, il biasimo dell’odio e della gelosia, quello del mondo, quello dell’amore delle ricchezze, quello dell’ipocrisia, quello della vana gloria, quello dell’illusione seduttrice. Ed è la Quarta Parte che introduce ai Mezzi di salvezza (al-munjiyât): il pentimento, la pazienza ed il ringraziamento, il timore e la speranza, la povertà e l’ascesi, l’abbandono al Dio unico, l’amore e la soddisfazione di Dio, l’intenzione sincera, il controllo della coscienza, la meditazione, il considerare la morte e l’aldilà.

Oggi, dopo otto secoli di fedeltà o di stabilità, la morale islamica risente di tutte queste tappe della sua storia. Quindi appare difficile formulare un giudizio unitario nei suoi confronti perché, come lo riconosceva a Palermo, molti anni fa, l’attuale presidente dell’Accademia tunisina delle Scienze e Belli Arti, il Prof. ‘Abd al-Wahhâb Buhdîba, ci sono tre islam (e per ciò tre morali): quello della Legge, quello della Saggezza e quello della Mistica. Il mondo islamico non è dunque monolitico ed i musulmani partecipano, ognuno a modo suo, all’uno o all’altro di questi tre islam. Occorre prenderne atto e considerare che l’attuale atteggiamento etico dell’islam moderno si ispira a queste tre correnti nel suo rispondere alle sfide etiche della modernità e delle sue tecnologie: le sue istituzioni internazionali ne armonizzano i principi e le applicazioni, e le sue espressioni nazionali vi fanno delle scelte più o meno innovatrici pur rimanendo fedeli al patrimonio etico dell’islam classico[6]. Il confronto che si può allora tentare nei riguardi dell’etica evangelica deve tener conto di quest’insieme di considerazioni relativizzanti. Chi esalta la Legge coranica si ritrova vicino agli ebrei di stretta osservanza, chi preferisce la Saggezza filosofica va d’accordo con la morale dell’Illuminismo razionalizzante dei laici occidentali, chi sceglie la Mistica raggiunge a sua insaputa i cristiani di tutte le denominazioni nella loro ricerca di una perfezione che sia anche «santità». Ma di solito, davanti alle esigenze della sua Legge, il credente musulmano intende stare al sicuro e passare, come lo propone il Corano, dalla sua «anima che spinge al male» (ammâra bi-l-sû’) (12,53) a quella che gli è spiritualmente «biasimatrice» (lawwâma) (75,2) per ritrovarla finalmente «rasserenata» (mutma’inna) (89,27)[7]. Donde l’importanza, nelle società musulmane, dei «direttori» o «consiglieri» in materia di morale e di diritto, quei muftî che sono sollecitati di dare le loro fatwâ, vere «direttive» in materia etica, anche se talvolta quest’ultime si rivelano contradittorie a causa della grande diversità delle scuole e delle interpretazioni. Perciò, ogni paese ha i suoi muftî ufficiali accanto a coloro che si autoproclamano tali, ed i musulmani immigrati in Occidente[8] dispongono di un Consiglio Europeo della Fatwâ che ha sede a Dublino, in Irlanda[9].

In confronto con l’etica evangelica

Questo confronto suppone che un primo approccio comparatistico dell’islam e del cristianesimo, per quanto riguarda il credo, il culto, la morale, l’antropologia e la teologia, sia presente alle analisi oppure alle ipotesi da formulare in proposito. Anzitutto si deve ricordare la grande differenza che separa le due religioni, dato che per i musulmani il Corano rivela la volontà di Dio su di loro in vista di un’obbedienza perfetta, lasciandoli alla loro pura condizione naturale di creature, e che per i cristiani Dio si autorivela in Gesù Cristo per collegarli tutti a Lui come figli adottivi, rendendoli partecipi della sua vita divina. Lo diceva Louis Massignon alla sua amica, la Sig.ra R. Charles-Barzel[10], in questo modo: «Nella storia dell’umanità, abbiamo tre periodi religiosi: 1) lo stato di natura, ferito dal peccato di Adamo, corrispondendo all’epoca patriarcale; 2) lo stato legale, che comincia con il Decalogo del Sinai; 3) lo stato evangelico, che comincia con Cristo e alla Pentecoste. È assurdo discutere con un ebreo osservante, come se fosse arrivato allo stato evangelico; egli è ancora nella Legge del timore. Allo stesso modo, è assurdo discutere con un musulmano come se fosse arrivato sia allo stato legale sia allo stato evangelico […]. L’Islam è ancora allo stato patriarcale, al tempo di Abramo […], molto primitivo, dove la coscienza morale, mirabilmente illuminata dall’obbedienza a Dio, primo servito, e sotto la proibizione dell’idolatria, è ancora crepuscolare sulla poligamia, il concubinato, il ratto e le astuzie di guerra[11].

In tale prospettiva, si può capire che la morale islamica si riferisca particolarmente all’Antico Testamento: si rivela essere la morale dei patriarchi e poi del Decalogo, benché non esista un’alleanza nel senso stretto della parola, sia abramitica sia mosaica, ma piuttosto un «patto quasi ontologico» tra Adamo, a nome della sua discendenza, ed il suo Creatore e Giudice[12]. È anche vero che i dieci comandamenti del Sinai costituiscano oramai una piattaforma comune per tutti i monoteisti, musulmani, ebrei e cristiani. Tutto sommato, questa “carta dei valori” fondamentali partecipa dei «cinque scopi della Sharî‘a» (i maqâsid) che sono stati messi in evidenza dagli autori dei «fondamenti del Diritto (Fiqh)»: si tratta di salvaguardare la religione (al-dîn), la persona (al-nafs), l’intelligenza (al-‘aql), la discendenza (al-nasab) ed i beni di questo mondo (almâl). Vi si possano ritrovare, infatti, i valori essenziali che stanno alla base del «diritto naturale» sul quale concordano le filosofie e le teologie le più ragionevoli. Un dialogo tra rappresentanti di quest’ultime e tra i difensori della Sharî‘a è quindi auspicabile per riscoprirvi insieme i possibili principi fondanti di una antropologia religiosa personalistica che vede nell’uomo «il vicario» o «il califfo» (khalîfa) di Dio secondo l’islam, oppure «l’immagine» e «la somiglianza» di Dio secondo gli ebrei, la quale è chiamata ad esserne «il figlio divinizzato per adozione» secondo i cristiani. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 sembra così essere un programma etico comune a tutti, anche se la morale islamica vi mantiene una doppia discriminazione tra maschi e femmine e tra musulmani e non musulmani (essendo scomparsa quella, coranica e classica, tra esseri liberi e esseri schiavi)[13]. Uno studio approfondito è da portare avanti per vedere come gli Stati moderni ne propongono l’ideale presso le nuove generazioni tramite l’istituzione scolastica ed i mezzi di comunicazione sociale[14].

Chi segue da vicino l’evoluzione contemporanea del diritto della famiglia o dello statuto personale nei paesi musulmani[15] deve riconoscere che questi ultimi stanno raggiungendo posizioni quasi comuni a quelle della morale evangelica, le quali vengono spesso espresse dalle legislazioni dei paesi occidentali. Infatti le loro leggi hanno cancellato o almeno limitato il «permesso poligamico» (fino a quattro co-spose), il potere maschile del «ripudio unilaterale», l’autorità paterna di «costrizione matrimoniale» della figlia, senza parlare delle riforme introdotte nelle norme giuridiche che reggono la vita coniugale. La famiglia viene proclamata «cellula basilare» della vita sociale ed il matrimonio riconosciuto come il modo unico di crearne l’entità giuridica. Anche se l’etica islamica si rivela molto liberale in materia di «morale sessuale», autorizzando tutti i mezzi di controllo delle nascita, essa promuove e difende, come l’etica evangelica, la vita di ogni individuo dall’inizio alla fine del suo essere esistenziale: niente aborto (tranne quello terapeutico), benché una certa tolleranza venga ammessa da alcuni musulmani fino alla fine del quarto mese di gravidanza, niente sterilizzazione, niente mutilazione, niente eutanasia. In materia di bioetica, musulmani e cristiani possono unire le loro voci a quelle degli ebrei in tanti settori della ricerca tecnologica, anche se i primi, a causa della prevalenza giuridica del loro approccio dei problemi, senza un’analisi antropologica adeguata, tollerano la fecondazione artificiale in vitro ed altri interventi di tipo meccanico[16]. Tutti rifiutano, in via di principio, l’omosessualità, maschile o femminile, nonostante alcune pratiche in materia. Il che ha permesso, in alcuni casi, ai rappresentanti delle tre religioni monoteistiche di affermare una comune visione dei valori della famiglia di fronte alle legislazioni permissive di alcuni stati, come è successo a Lione due anni fa.

In fin dei conti, se l’etica islamica si rivela così vicina a quella della Bibbia e ne assume gli insegnamenti veterotestamentari, bisogna riconoscere che talvolta essa offre all’iniziativa dei musulmani la possibilità di raggiungere alcune delle posizioni del Vangelo. Ad esempio, se la legge del taglione viene da essa ricondotta alle esigenze della giustizia per garantire la salvaguardia della vita di tutti, il Corano suggerisce che si potrebbe sostituirla con un perdono o un condono, come lo richiede il Vangelo. Non c’è quindi da stupirsi se di recente la Lettera dei 138 firmata da altrettanti rappresentanti dell’islam, raggruppati dall’Accademia reale di ‘Ammân, ed indirizzata a tutti i capi delle comunità cristiane del mondo, abbia affermato che «il vero monoteismo consiste nell’amor di Dio e nell’amor del prossimo», interpretando così il testo coranico alla luce dell’insegnamento biblico e cristico del «doppio comandamento dell’amore». Tutte queste manifestazioni della morale musulmana oggi, nella grande diversità delle sue scuole e delle sue correnti, testimoniano una possibile convergenza etica tra tutti i credenti monoteisti per un comune atteggiamento etico davanti alle sfide di una tecnologia moderna che non rispetta più i parametri di un sano umanesimo collettivo. Rimarrà però specifico della morale evangelica la raccomandazione di Gesù, affidata ai suoi discepoli, di «amare i propri nemici», da una parte, e di «amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amato». Questa originalità del cristianesimo è ancora capace di condurre alcuni musulmani (basta pensare all’itinerario del libanese Afîf Osseïrâne[17]) ad ascoltare l’invito di Gesù Cristo e poi ad abbracciare il cristianesimo, scoprendo che quest’ultimo offre nella sua spiritualità i mezzi superiori per attuare nella vita dei singoli e delle società tale ideale etico di riconciliazione internazionale e di santificazione universale.

Conclusione

Al termine di questa troppo breve presentazione della morale islamica e di questo confronto tra essa e l’etica evangelica[18], bisogna riconoscere tra di loro una parentela biblica che permette ai musulmani ed ai cristiani, insieme agli ebrei, di avviare un primo dialogo sui valori che condividono a nome della loro comune condizione di creature (morale naturale) e poi di interlocutori di Dio (i dieci comandamenti), ed è molto, tutto sommato! Inoltre la storia insegna che l’etica coranica ha conosciuto tanti sviluppi diversificati che hanno generato in essa scuole e correnti a seconda dei grandi intellettuali o spirituali che l’hanno arricchita con apporti di saggezza o di filosofia, donde le tante espressioni dell’etica islamica, da quella giuridica a quella mistica, passando da quella sapienziale. Ed è per questo che i recenti colloqui di dialogo islamo-cristiano, nelle varie capitali del mondo mediterraneo, hanno potuto scambiare tante cose nel campo della morale comune e dei Diritti dell’Uomo: dignità divina dell’uomo, rispetto integrale del creato, sollecitudine solidale per l’ambiente, solidarietà con i disabili, equa distribuzione delle ricchezze, attenzione scrupolosa alle esigenze della bioetica, relazioni rispettose tra religione e Stato, ecc. Se alcuni pensano che sia impossibile un dialogo teologico tra cristiani e musulmani (ma si potrebbe avere davanti al mistero della creazione stessa!), la storia recente ha dimostrato che un dialogo dei valori è possibile, anzi si rivela necessario per aiutare gli uni e gli altri a testimoniare il carattere trascendentale della persona umana e del suo destino d’eternità[19]. Accanto al dialogo della vita, vissuto da tanti credenti ogni giorno, ed al dialogo dei servizi sociali dove tutti gareggiano nelle opere di bene[20], questo dialogo a livello etico permette ai cristiani ed ai musulmani di riavvicinarsi reciprocamente, dato che nello spiegarsi nell’uso dei vocaboli e dei metodi, essi imparano a ridurre l’equivocità che si nasconde nell’analogia dei loro linguaggi ed a far crescere pian piano la comunanza di pareri e valori. È questa l’esperienza che alcuni hanno fatto a Roma al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica quando, venuti dal Pakistan, dall’India e dal Bangladesh come dai paesi del Mediterraneo, musulmani e cristiani hanno potuto scambiare tante cose, in inglese, sulla santità (holiness), i suoi modelli e le sue manifestazioni[21].

Di fatto, molti musulmani non sono insensibili al fascino del «Discorso sulla montagna» ed al suo «Messaggio delle Beatitudini»: inoltre essi vi trovano nel suo insegnamento sulla preghiera, l’elemosina ed il digiuno quanto è stato trasmesso loro dai migliori testimoni della loro tradizione spirituale. Si sa benissimo che, da entrambe le parti, come da parte degli ebrei, ci sono tante cose da poter condividere sul mistero di Dio, sul dono della Parola, sul ruolo dei Profeti, sulla presenza della Comunità, sui segreti della Preghiera e sulle vie della Santità. Il dialogo dei valori ne può essere la propedeutica più proficua, dato che educa le coscienze, purifica le memorie, esalta le anime e riavvicina tra di loro i cuori dei credenti.

Note al testo

[1] Per uno studio più approfondito, si veda Borrmans M., «Morale islamique et monde moderne», pp. 54-105, in Islam, Civilisation et Religion, Paris, Fayard, 1965, 258 p., «Fondements de l’éthique dans Islam», in Fondements de l’éthique chrétienne, publ. de l’Académie Internationale des Sciences Religieuses, Namur, Artel, 1995, pp. 177-197, e «Coran et Sunna en Islam, ‘sources fondamentales’», in Christianisme, Judaïsme et Islam (fidélité e touverture), sous la direction de Mgr Joseph Doré, Paris, Cerf, 1998, pp. 85-101.

[2] Cf. sub voce, in Encyclopédie de l’Islam, 2ème éd., vol. IV, 1978, pp. 806-807 (S.G. Haim-Kedourie).

[3] “Non aggiungere a Dio altri dèi, sì che non debba startene un dì coperto d’ignominia negletto. – Il tuo Signore ha decretato che non adoriate altri che Lui, e che trattiate bene i vostri genitori. Se uno di essi, o ambedue, raggiungono presso di te la vecchiaia, non dir loro: ‘Uff!’, non li rimproverare, ma dì loro parole di dolcezza […]. Non legarti avaramente la mano al collo, ma non aprirla tutta quanta, sì da ridurti a sederti biasimato e di tutto privato […]. E non uccidete i figli vostri per tema di cader nella miseria: Noi siamo che li provvediamo, e voi, badate! Ché l’ucciderli è peccato grande. – E non accostatevi alla fornicazione: è una turpitudine e una ben triste via ! – E non uccidete alcuno (ché Dio l’ha proibito) senza giusto motivo: quanto a chi è ucciso ingiustamente, Noi diamo al suo curatore potestà di vendicarlo ; ma questi non ecceda nella vendetta, ché penserà Dio ad aiutarlo. – E non v’accostate alle sostanze dell’orfano altro che nel modo migliore, finché egli non giunga alla maggiore età, e rispettate i patti, perché dei patti vi sarà chiesto conto […]. E questo è una parte dei Comandamenti di Saggezza che il tuo Signore ha rivelato».

[4] È significativa l’assenza dello «statuto personale» di quest’elenco, e cioè del «diritto della famiglia», il quale viene considerato dal governo tunisino come di competenza giuridica nazionale: la Majalla del 1956 ha abrogato il permesso poligamico, il ripudio unilaterale ed anche alcune norme sharâ’itiche. Si veda Borrmans M., Statut personnel et famille au Maghreb de 1940 à nos jours, Paris-La Haye, Mouton, 1977, 708 p.

[5] Tutto viene detto della sua vita e delle sue opere in introduzione alla traduzione commentata del libro n. 36 dell’Ihyâ’, L’Amore di Dio, a cura di Carla Fabrizi, Bologna, EMI, 2004, 254 p.

[6] Si veda Borrmans M., «Droit musulman et législations nationales» (pp. 15-36), in Les courants internes à l’islam, a cura di Michel Younès, Lyon, Profac-CECR, 2009, 119 p.

[7] È l’ideale ultimo che prevede il Corano: «E tu, o anima rasserenata, - ritorna al tuo Signore, piacente e piaciuta – ed entra fra i Miei servi, - entra nel Mio Paradiso» (89,27-30).

[8] Si veda in proposito il numero speciale di Ad Gentes, Bologna, EMI, 2005/2, intitolato Cristiani e Musulmani in Europa con tutta la sua bibliografia, da completare con il numero 2007/2, intitolato Cristiani e Musulmani nel mondo.

[9] Lo shaykh Yûsuf al-Qaradâwî (egiziano residente a Dûha, Qatar, e legato al canale televisivo al-Jazîra) è il presidente di questo Consiglio, la cui struttura viene presentata dalla prima Raccolta di 43 fatwâ. Una seconda Raccolta, anch’essa pubblicata in arabo, raccoglie 37 fatwâ. Queste fatwâ sono state tradotte sia in inglese (da Shakir Nasif Al-Ubaydi e Anas Osama Altikriti) sia in francese (al-Tawhîd, Lyon) ed analizzate dai membri del Centro di Studio delle Culture e delle Religioni (CECR) dell’Università Cattolica di Lyon: una pubblicazione è in preparazione. Il suddetto Consiglio Europeo della Fatwâ, creatosi nel 1997, si riunisce ogni anno in una capitale europea e pubblica una rivista in arabo, inglese e francese, al-Majalla l-‘ilmiyya li-l-Majlis al-Ûrubbî li-l-iftâ’ wa-l-buhuth, con tante fatwâ che dimostrano uno sforzo di adattamento alle realtà occidentali.

[10] La quale ha citato questa lettera di L. Massignon nel suo libro intitolato Ô Vierge puissante, Paris, La Colombe, 1958. Per saperne di più su L. Massignon, si veda Cristiani e Musulmani, Quattro precursori di un dialogo possibile: Massignon, Abd el-Jalil, Gardet, Anawati, Roma, Urbaniana University Press, 2008, 174 p.

[11] Egli diceva nella stessa lettera: «Dovete ricordare che i musulmani non hanno ancora ricevuto da Dio tutte le grazie, private o sacramentali, di cui i cristiani detengono il temibile/terribile privilegio. Temibile/terribile per essi, se ne fanno un cattivo uso disprezzando i musulmani ai quali Dio non le ha donate […]. Il fatto che Maometto lo [l’islam] ha predicato seicento anni dopo la Pentecoste, e che il Corano cita Mosè e Gesù, figlio di Maria, non impedisce l’islam di essere allo stato patriarcale».

[12] Come viene detto nel Corano: «E quando il tuo Signore trasse dai lombi dei figli d’Adamo tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro se stessi: ‘Non sono Io, chiese, il Vostro Signore?’ Ed essi risposero: ‘Sì, l’attestiamo!’» (7,172).

[13] Si veda Borrmans M., «I Diritti dell’Uomo e le istituzioni islamiche», in Studi Arabi e Islamici in memoria di Matilde Gagliardi, Milano, Ed. ISMEO, 1995, pp. 15-41, «Convergenze e divergenze tra la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e le recenti Dichiarazioni dei Diritti dell’Uomo nell’Islam», in Rivista Internazionale dei Diritti dell’Uomo, Milano, Anno XII, gennaio-aprile 1999, pp. 44-60, «Ipotesi di convergenze sui Diritti dell’Uomo nel Mediterraneo», in Per una convergenza mediterranea sui Diritti dell’Uomo, vol. III: Orientamenti critici e ricostruttivi, a cura di P. Ungari e M. Modica, Roma, LUISS, Euroma, 2000, pp. 85-99, e «Human Rights and their Saveguard in Islam and Europe», in Europe and Islam: Evaluations and Perspectives at the Dawn of the Third Millennium, ed. by Mahmoud Salem Elsheikh, Florence, University Press, 2002, pp 185-222. E poi sarebbe da consultare il numero speciale di Islamochristiana, Roma, PISAI, 9 (1983), intitolato Droits de l’Homme/Human Rights, di S.A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Les Musulmans face aux Droits de l’Homme (religion, droit et politique: études et documents), Bochum, Dr. Dieter Winkler, 1994, 610 p. e di Daniele Anselmo, Shari‘a e diritti umani, Palermo, G. Giappichelli Ed., 2006, 309 p.

[14] Si veda Charfi Mohamed, Islam et liberté (Le malentendu historique), Paris, Albin Michel, 1998, 273 p.

[15] Si veda Aluffi Beck-Peccoz Roberta, La modernizzazione del diritto di famiglia nei paesi arabi, Milano, Dott. A. Giuffrè editore, 1990, 226 p.

[16] Si veda in proposito di Borrmans M., «Islam et contraception», in Lateranum, Roma, Anno XLIV, 1978, n. 1, pp. 243-255, e «Fécondation artificielle et éthique musulmane», in Lateranum, Roma, Anno LIII, 1987, n. 1, pp. 88-103.

[17] Si veda di Jacques Keryell, Afîf Osseïrane (1919-1988), Un chemin de vie, Paris, Cerf, 2009, 154 p.

[18] In tale prospettiva, conviene riferirsi a Borrmans M., «Un ‘Vangelo’ fruibile da tutti i musulmani», in Ad Gentes, Bologna, EMI, 2005/2, pp. 225-242.

[19] Si veda in proposito di Borrmans M., Orientamenti per un dialogo tra cristiani e musulmani, Roma, Pontificia Unçiversità Urbaniana, 1991, 201 p. e Islam e cristianesimo: le vie del dialogo, Milano, Ed. Paoline, 1993, 240 p., e poi tutte le pubblicazioni del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ed il suo Bollettino dal titolo significativo Pro Dialogo.

[20] Si può consultare in proposito, edito dalla Caritas Italiana, Cristiani e Musulmani, Esperienze di Dialogo e di Fraternità (La rete Caritas in territori a maggioranza islamica), Bologna, EDB, 2007, 108 p.

[21] Si veda in proposito Islamochristiana, Roma, PISAI, 11 (1985), Holiness in Islam and Christianity, pp. 1-98, con le relazioni di Ziaul Hasan Faruqi, “The Concept of Holiness in Islam” (pp. 7-27), di John Carroll Futrell, “The Concept of Christian Holiness” (pp. 29-36), di Suzanne Le Gal, “Models of Holiness for Christians” (pp. 37-50), di K. A. Nizami, “Models of Holiness for Muslims” (pp. 51-67), di Jean-Marie Gaudeul, “A Christian Critique of Islamic Holiness” (pp. 69-90) e di Mahmoud Ayoub, “A Muslim Appreciation of Christian Holiness” (pp. 91-98).