Il primato della parola in pastorale. Le indicazioni della Dei Verbum, di Guido Benzi
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Riprendiamo dalla rivista Servizio della Parola, 46 (2014), n. 460, settembre 2014, pp. 9-19, un articolo scritto da Guido Benzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2014)
Padre Umberto Betti, teologo al concilio Vaticano II, il 18 novembre 1965 scrisse nel suo Diario che con la promulgazione della Dei Verbum (DV)«sembrava finito il Concilio, nel senso che ne riceveva una complessa connotazione che lo qualificherà per sempre»[1]. Ci prepariamo a festeggiare, nel 2015, i cinquant'anni di questa Costituzione dogmatica sulla Rivelazione: la Scrittura, la sua interpretazione e la sua presenza nella vita della Chiesa sono argomento soprattutto del VI e ultimo capitolo.
Sarebbe assai riduttivo, però, considerare tale capitolo solo come un'appendice pastorale, al contrario esso mostra come tutta la Costituzione - senza minimamente perdere il suo valore dogmatico - abbia una chiara dimensione pastorale. Possiamo così ripercorrere, in questo contributo, alcune linee teologiche della DV,per mostrare questa intenzionalità pastorale magnificamente compendiata nel capitolo VI.
1. Un evento di comunione ed amicizia: Gesù al centro della rivelazione
È giudizio unanime dei commentatori che la DV rifletta tutta l'impostazione cristocentrica del concilio stesso[2]. Al centro della nostra fede c'è una vita, c'è una persona e la sua vicenda di amore e di dono della vita per la salvezza. Questa vicenda mantiene insieme i caratteri della rivelazione,in quanto è vita vissuta ed attestata nei racconti evangelici, e del mistero,inteso come intreccio di una esistenza e di una volontà che si offrono a servizio della nostra salvezza.
Affermare la centralità della persona di Gesù Cristo nella rivelazione di Dio, attestata nelle Scritture, significa affermare questa vita, questo cuore pulsante di Dio che si dona all'uomo. Molti cristiani, oggi, intuiscono questa verità, ma con difficoltà ne sanno rilevare le tracce all'interno della loro lettura delle pagine bibliche.
A più riprese la DV ritorna su questa centralità di Cristo. Al n. 2 si mettono infatti in evidenza due distinti caratteri della rivelazione di Dio: la comunione tra Dio e gli uomini, attraverso il Cristo, e la storicità della rivelazione stessa:
«Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo hanno accesso al Padre e son resi partecipi della divina natura. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione» (DV 2).
Gesù Cristo è qui chiamato «il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione». Egli è il mediatore in quanto è l'inviato del Padre, la cui venuta è preparata da tutto l'Antico Testamento, ed è la pienezza in quanto Dio totalmente e gratuitamente si rivela in lui. C'è una centralità, per così dire, storica di Gesù che raccoglie, unifica e trasforma quanto predisposto dal disegno di Dio nell'antica alleanza (aspetto diacronico),ma in Gesù c'è anche una centralità generativa (aspetto sincronico),in quanto l'evento dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio è unico e genera una novità che trasforma radicalmente la storia.
Le parole del concilio introducono anche il concetto di «amicizia». Si tratta di una sfumatura molto bella ed anche un po' particolare all'interno di un testo teologico. Essa ci introduce allo scopo della rivelazione. Dio non ha parlato solo per allargare la nostra conoscenza di lui, Dio ci ha parlato per ammetterci alla comunione con lui, cioè alla sua amicizia. Tutta la parola di Dio, dall'Antico al Nuovo Testamento, risuona dunque di questo dialogo di amicizia e vicinanza all'uomo.
2. L'ispirazione: un principio di «intimità»
Nel paragrafo 4 della DV si citano i primi versetti della lettera agli Ebrei: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Si tratta di una citazione molto importante nel contesto della nostra riflessione. Lo stesso testo biblico viene richiamato infatti più avanti in una nota di DV 11 dove si parla dell'ispirazione, là dove si dice che «per la composizione dei libri sacri, Dio scelse degli uomini di cui si servì nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva».
Una nota in calce richiama l'attenzione alle due preposizioni «in»e «per mezzo»,e per spiegare la prima preposizione il concilio cita appunto Eb 1,1. Si tratta solo di una finezza grammaticale? In realtà quella piccola preposizione «in»ci aiuta a scoprire come Cristo è la «pienezza della rivelazione», cioè nella sua dimensione più intima, quella della sua persona e della sua vita. Beauchamp[3] mostra come l'espressione «per mezzo» fosse quella più largamente in uso nei testi dottrinali riguardanti l'ispirazione, che prepararono il concilio. Tale espressione connotava alla perfezione un'idea di strumentalità dell'autore umano nei confronti dell'azione divina così come già era stato affermato nell'enciclica Provvidentissimus Deus di papa Leone XIII del 1893 (alla quale il concilio espressamente rimanda): in essa si mostra Dio che ispira l'autore umano come un compositore e direttore d'orchestra suscita, muove, assiste, comanda(sono tutti verbi presenti nel testo di quell'enciclica) l'esecuzione musicale dei singoli strumentisti. Pur rimanendo l'idea di strumentalità, nessuno di questi verbi è ripreso nel testo del concilio Vaticano II. L'azione di Dio non si sovrappone all'azione degli uomini che «nel possesso delle loro facoltà e capacità» scrissero «come veri autori» (DV 11) tutto ciò che Dio voleva venisse scritto.
Dunque tutto viene da Dio e tutto viene dall'uomo: non ci sono nella Scrittura espressioni sublimi che vengono da Dio ed espressioni mediocri o oscure che vengono dall'uomo, l'ispirazione dello Spirito Santo riguarda «tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti», mentre gli autori umani hanno scritto «tutte e soltanto quelle cose che egli [Dio] voleva fossero scritte» (DV 11). I testi biblici, scritti da veri autori umani per ispirazione di Dio, nella loro interezza «insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture». L'inciso «per la nostra salvezza» mette a fuoco la verità teologica che nei testi biblici deve essere ricercata (dunque non la verità scientifica o storiografica o cosmologica... ) e che è mediata attraverso le varie forme espressive proprie della cultura, della lingua, del contesto nel quale i singoli scritti si sono formati.
Sottolineando dunque la preposizione «in»il concilio supera lo schema rigido della pura strumentalità umana. Senza negarla, le si accosta un principio di «intimità»: Dio parla nell'intimo dell'autore sacro, «lo scritto, il libro, esce dall'intimità che unisce Dio agli autori biblici»[4], quella intimità che solo lo Spirito Santo può possedere nell'uomo. Essendo la medesima preposizione riferita anche a Gesù, questo concetto di «intimità» illumina così di riflessi trinitari la «pienezza della rivelazione» che rifulge in Cristo: tutta la sua persona, tutta la sua vita, tutto di lui è rivelazione intima e piena del Padre nello Spirito.
Si può così istituire un'analogia tra il Verbo incarnato e la divino-umanità della parola di Dio: «Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile agli uomini». Anche questa analogia[5] ha una sua storia, essa risale all'enciclica di Pio XII, Divino Afflante Spiritu (1943):
«In effetti, come il Verbo sostanziale di Dio si è fatto simile agli uomini in tutto, "eccettuato il peccato" (Eb 4,15) così anche le parole di Dio, espresse con lingua umana, si sono fatte somiglianti all'umano linguaggio in tutto, eccettuato l'errore. In questo consiste quella condiscendenza [in greco synkatábasis= abbassamento] del provvido nostro Dio, che già San Giovanni Crisostomo con somme lodi esaltò e più e più volte asseverò trovarsi nei Sacri Libri»[6].
L'analogia con l'incarnazione, se da un lato ci permette di comprendere come Dio nel suo desiderio di relazione e nel suo amore abbia assunto la limitatezza della cultura e del linguaggio umani, dall'altro ci permette così di capire pienamente il rapporto tra la «pienezza della rivelazione» in Gesù Cristo e la rivelazione nelle Sacre Scritture. Quello stesso principio di intimità della comunicazione del Padre nello Spirito, che massimamente riluce nel Figlio e nella sua vita, è il medesimo che ha ispirato gli scrittori dell'Antico e del Nuovo Testamento. Ed è lo stesso che anima i lettori credenti.
3. L'unità tra i due Testamenti
Bisogna notare che la citazione dei primi versetti della lettera agli Ebrei in DV 4 e DV 11 comporta insieme al concetto di «pienezza» (dimensione di intimità) anche quello di «compimento» come dimensione storica[7], cioè Gesù è il culmine, l'atto conclusivo, della rivelazione di Dio. Questo concetto di «compimento», cioè di maturazione del tempo e dell'«oggi» in cui si palesano le profezie antiche, è variamente espresso nei vangeli sinottici (cfr. ad esempio Mt 1,22; Mc 1,15; Lc 4,21) ed in san Paolo (cfr. ad esempio Gal 4,4).Questo aspetto dia-cronico della rivelazione, che mostra il racconto biblico come una «storia della salvezza», annunciato già in DV 4, viene ripreso ed ampliato in DV 14[8].
Tale «storia della salvezza» costituisce dunque, secondo il concilio, la trama dell'Antico Testamento in cui si «prepara» (praepararet), si «annunzia profeticamente» (prophetice nuntiaret),si «significa con vari tipi» (variis typis significaret)la venuta di Cristo (DV 15), e che acquista e manifesta il suo pieno significato (significationem suam completam acquirunt et ostendunt)nel Nuovo Testamento, che dall'Antico viene a sua volta illuminato e spiegato (DV 16). Nel Nuovo Testamento abbiamo poi la manifestazione eminente (praecellenti)della parola di Dio (DV 17), quasi con una idea di «compimento nel compimento»: nella pienezza del tempo (plenitudo temporis - Gal 4,4) il Verbo si è fatto carne, stabilì il regno di Dio sulla terra, manifestò con opere e parole il Padre suo e se stesso, ed alla fine della sua vicenda umana portò a compimento l'opera sua (opus suum complevit) con la morte, la risurrezione, l'ascensione e l'invio dello Spirito Santo. Si esplicita a questo punto la questione del rapporto tra i due Testamenti[9] e, conseguentemente, il problema, importante e ricco di risvolti teologici, del rapporto tra la lettura cristiana della Bibbia e la lettura delle Scritture ebraiche all'interno della fede di Israele[10].
La dimensione diacronica del compimento non deve essere però pensata come qualcosa di estrinseco, una specie di gioco tra un prima e un dopo, un vuoto e un pieno, figura e realtà, parola e carne. Se prendessimo solo questa strada non faremmo giustizia della dimensione di pienezza, cioè di intima azione di Dio nello Spirito, che abbiamo visto animare l'ispirazione biblica fino all'evento unico e gratuito dell'incarnazione, che a sua volta è ancora narrato e contemplato dal NT con parole ispirate. Il «compimento», in tal senso, non è solo l'atto finale ed ultimo di un processo. Possiamo dire che ne è la verità più profonda, la ragione ultima, presente - proprio perché deve portare compimento - sin dall'inizio.
Nella Scrittura l'esigenza del «compimento» accompagna i testi ad ogni loro passaggio: «l'effetto di un testo non è verificabile che nello slancio che comunica ad altri testi e non nelle riprese statiche di esso»[11]. Se questo è vero significa che ogni parola biblica porta impresso lo slancio verso un suo compimento in un corpo, in una vita che sarà di volta in volta il corpo del re, del profeta, del popolo, del fedele credente, del giusto sofferente, figure reali che si compendiano tutte nella vicenda del Cristo: «il rapporto di compimento non si sovrappone e non si limita al compimento dell'Antico Testamento da parte del Nuovo. L'Antico Testamento, anche se non ci fosse il Nuovo, resterebbe tormentato da un movimento di compimento»[12].
4. Leggere ed interpretare la Scrittura nello Spirito[13]
La dottrina di Cristo «pienezza» e «compimento» della rivelazione del Padre, espressa dal concilio alla luce dell'analogia tra incarnazione ed ispirazione, mostra come lo Spirito Santo sia il grande protagonista, dall'inizio alla fine, della comprensione di tale rivelazione: «forse addirittura si può dire che il mistero dell'Incarnazione non è che l'ultimo atto e il compimento di quel mistero che già s'inizia col mistero della Sacra Scrittura... l'azione dello Spirito Santo come ha guidato gli agiografi, deve guidare gli interpreti della divina Parola»[14].
La Scrittura trova dunque in Cristo un centro che raccoglie ed unisce, ed insieme un compimento dinamico che interpreta e rinnova. Questo movimento di sistole e diastole che troviamo al centro della Bibbia cristiana non elimina, ma anzi alimenta la molteplicità delle prospettive attraverso le quali si può riconoscere in Cristo il tema del compimento/pienezza della rivelazione. Essa dà ragione della dimensione di molteplicità/unità, diversità/somiglianza, che già il testo di Eb 1,1-2 solleva: le molte parole dei profeti (diverse per lingue, culture, periodi storici, situazioni contingenti...) si orientano ad una parola definitiva, una parola prima di tutto non scritta ma viva, la persona di Cristo, del quale il Nuovo Testamento torna a dare testimonianza ancora con una molteplicità di parole che, scritte sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, sono insieme parole umane e divine, perché volute da Dio e dagli autori umani.
Dal momento che Dio parla «per mezzo di uomini ed alla maniera umana» (DV 12) sono così non solo raccomandabili, ma necessarie ed indispensabili tutte quelle operazioni critiche ed esegetiche che sole possono aiutare gli interpreti a penetrare il senso letterale dei testi, e d'altro canto, essendo quelle parole frutto di ispirazione, la Scrittura deve «essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi» (DV 12).Ne consegue che anche per l'interprete, e non solo per gli autori biblici, si deve realizzare quella «intimità» nello Spirito che abbiamo visto essere presente negli autori antichi e pienamente nel Figlio. E dal momento che unico è lo Spirito che ha ispirato gli autori antichi, e che aiuta la lettura dei moderni, proprio per questo la pagina della Bibbia può conquistare ancora oggi tanti uomini alla salvezza ed alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo.
6. Il capitolo VI della Dei Verbum
È appunto nel VI capitolo che la Dei Verbum affronta queste tematiche di ermeneutica del testo. Si tratta di un capitolo speciale ed anche abbastanza innovativo dal titolo «La Sacra Scrittura nella vita della chiesa». Speciale in quanto mostra come la «pastorale» sia l'esito ed il completamento di una riflessione dottrinale e dogmatica. Innovativo in quanto, anche se le singole esortazioni sono desunte da una costante attenzione del magistero che si era via via maturata negli ultimi anni prima del concilio, tuttavia in esso viene esplicitato il recupero «di una familiarità con il testo biblico che si era persa nella Chiesa Cattolica negli ultimi quattro secoli»[15], specie per quanto riguarda i fedeli laici.
Il capitolo VI si apre con un'espressione diretta ed abbastanza ardita: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra Tradizione, ha sempre considerato e considera le divine Scritture come la regola suprema della propria fede...» (DV 21).
Anzitutto il parallelismo tra Scrittura ed Eucaristia delinea una struttura della vita cristiana nella quale esse sono doni costitutivi, entrambi necessari e partecipati attraverso l'azione liturgica. È proprio in forza di questo legame che il concilio può, nel paragrafo successivo (DV 22), dettare la prima regola «pastorale»: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura». E appena più sotto, motivando le traduzioni in lingua volgare, si dice che «la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo». Questa prima regola, tesa a togliere ogni restrizione di accesso alla Bibbia, è molto chiara: a tutti e sempre. A tutti ed in tutte le espressioni della vita della Chiesa, come si ribadirà nei numeri successivi: liturgia, teologia, predicazione e catechesi, meditazione, vita cristiana... Sempre, per poter «raggiungere un'intelligenza sempre più profonda delle sacre Scritture e poter nutrire di continuo i suoi figli con le divine parole» (DV 23).
Scaturiscono da questo rinnovato atteggiamento di apertura nei confronti della Bibbia tutta una serie di indicazioni pastorali: gli esegeti, o biblisti, sono esortati a continuare il loro lavoro di traduzione, studio e spiegazione dei testi biblici (DV 23) in modo che lo studio delle sacre pagine diventi come l'anima della teologia e quindi il ministero della Parola (omelie, predicazione, catechesi, formazione cristiana...) trovi il suo nutrimento (DV 24). Ma è soprattutto in DV 25 che il concilio interpella i «lettori» della Scrittura, ai quali raccomanda un continuo contatto con la Bibbia mediante l'assidua lettura spirituale e lo studio: in primo luogo il documento si rivolge a coloro che esercitano un ministero ordinato, quindi ugualmente (pariter)a tutti i fedeli (religiosi e laici), che vi accedono in varie forme attraverso la frequente lettura,la liturgia, le varie attività di apostolato biblico, e soprattutto la preghiera intesa come dialogo tra Dio e l'uomo, di cui la Bibbia è maestra. Il paragrafo finale della Dei Verbum (n. 26) riprende il parallelo iniziale del capitolo tra Scrittura ed Eucaristia: come da questa la Chiesa trae una vita di grazia sempre più abbondante, così dall'accresciuta venerazione della parola di Dio è lecito sperare un nuovo impulso alla vita spirituale.
In sintesi, il VI capitolo della Dei Verbum mette senza dubbio l'accento sull'integra custodia e la trasmissione del messaggio biblico da parte dei ministri ordinati, tuttavia nello stesso modo (pariter)il concilio auspica ed insiste che tutti i fedeli indistintamente abbiano accesso alle Scritture. Come fa notare Beauchamp[16], questo è certamente un fatto «nuovo»: ogni cristiano è chiamato dalla Chiesa e nella Chiesa a prendere dimestichezza e confidenza con la Bibbia, ogni cristiano è chiamato ad esserne non solo un estimatore, ma anche un «lettore».
Note al testo
[1] U. Betti, Diario del Concilio. 11 ottobre 1962 - Natale 1978, EDB, Bologna 2003, 80.
[2] H. de Lubac, La Rivelazione divina e il senso dell'uomo. Commento alle Costituzioni conciliari "Dei Verbum" e "Gaudium et Spes", Jaca Book, Milano 1985, 32.
[3] P. Beauchamp, Leggere la Sacra Scrittura oggi (con quale spirito accostarsi alla Bibbia), Massimo, Milano 1990, 14-16.
[4] Ibid.
[5] L. Alonso Schökel, La Palabra Inspirada. La Biblia a la luz de la ciencia del lenguaje, Madrid 1986, 49-53.
[6] Enchiridion Biblicum, 559.
[7] P. Beauchamp, Il procedimento di un esegeta per una stilistica del compimento, in Stili di compimento. Lo Spirito e la lettera nelle Scritture, Cittadella, Assisi 2007, 21-37.
[8] Cfr. anche DV 15,16,17.
[9] M. Grilli, Quale rapporto tra i due Testamenti?, EDB, Bologna 2007, 27-67.
[10] A tale problematica una risposta assai soddisfacente è venuta dal documento della Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001), cfr. i nn. 19 e 21.
[11] P. Beauchamp, Il procedimento di un esegeta, 34.
[12] Ibid, 23.
[13] Cfr. G. Benzi, "Scriptura crescit cum legente": la Scrittura anima della vita della Chiesa e della fede dei credenti, in Parola e Tempo, Annale dell'Istituto di Scienze Religiose "A. Marvelli" di Rimini, 4 (2005) 15-24.
[14] Cfr. D. Barsotti, La parola e lo spirito. Saggi sull'esegesi spirituale, OR, Milano 1971, 9.
[15] R. Burigana - L. Pacomio, Dei Verbum. Per il quarantesimo anniversario del Concilio Vaticano II, Piemme, Casale Monferrato 2002, 124.
[16] P. Beauchamp, Leggere la Sacra Scrittura, 28.