«La preghiera è stato un collante che ha permesso la mia libertà». La lettera di Foley quando fu prigioniero in Libia, di Benedetta Frigerio
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Benedetta Frigerio pubblicato il 20/8/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (19/8/2014)
Il giornalista americano James Foley, decapitato dai jihadisti, era stato prigioniero nel 2011 delle forze filo governative libiche. Detenuto a Tripoli fu liberato dopo 45 giorni di carcere, decidendo poi di scrivere una lettera per la rivista dell’università cattolica Marquette di Milwaukee, da lui frequentata.
«COME MIA MADRE». Nato in una famiglia cattolica di Boston, Foley raccontò: «Io e i miei colleghi fummo catturati e detenuti in un centro militare di Tripoli». Ogni giorno, spiegava il giornalista, «aumentava la preoccupazione per il fatto che le nostre mamme potessero essere in panico». E anche se «non avevo pienamente ammesso a me stesso che mia mamma fosse a conoscenza di quello che mi era successo», Foley ripeteva a una collega che «mia mamma ha una grande fede» e che «pregavo che sapesse che stavo bene. Pregavo di riuscire a comunicare con lei». Il giornalista raccontò di quando «cominciò a dire il rosario», perché «era come mia madre e mia nonna avrebbero pregato (…). Io e Clare (una collega, ndr) iniziammo a pregare ad alta voce. Mi sentivo rinfrancato nel confessare la mia debolezza e la mia speranza insieme e conversando con Dio, piuttosto che stare solo in silenzio».
LA FORZA DEGLI AMICI. I giornalisti poi furono trasferiti in un’altra prigione dove si trovavano i prigionieri politici, «da cui fui accolto e trattato bene». Dopo 18 giorni accadde un fatto che Foley non si seppe spiegare, fu prelevato dalla cella dalle guardie e portato nell’ufficio del guardiano «dove un uomo distinto e ben vestito mi disse: “Abbiamo pensato che forse volevi chiamare la tua famiglia”. Dissi una preghiera e composi il numero». La linea funzionava e la madre del giornalista rispose: «Mamma, mamma sono io, Jim», disse il ragazzo. «Sono ancora in Libia, mamma. Mi dispiace di questo. Perdonami». La donna incredula rispose al figlio che non doveva dispiacersi e gli chiese come stava: «Le dissi che mi nutrivo, che avevo il letto migliore e che mi trattavano come un ospite». Foley aggiunse: «Ho pregato perché sapessi che stavo bene. Hai percepito le mie preghiere?». La donna rispose: «Jimmy tante persone stanno pregando per te. Tutti i tuoi amici Donnie, Michael Joyce, Dan Hanrahan, Suree, Tom Durkin, Sarah Fang che ha chiamato. Tuo fratello Michael ti vuole molto bene». Poi la guardia fece un cenno e il ragazzo dovette salutare la madre.
«LA MIA LIBERTA’». «Ho ripetuto la chiamata nella mia testa centinaia di volte, la voce di mia madre, i nomi dei miei amici, la sua coscienza della situazione, la sua assoluta certezza nel potere della preghiera. Mi disse che i miei amici si erano riuniti per fare tutto quello che potevano per aiutare. Sapevo di non essere solo». Infine, concluse Foley: «Nella mia ultima notte a Tripoli mi sono potuto connettere a internet dopo 44 giorni e sono riuscito ad ascoltare un discorso di Tom Durkin fatto per me (…). In una chiesa piena di amici, alunni, sacerdoti, studenti e docenti ho visto il miglior discorso che un fratello potrebbe fare per un altro (…). Era solo un assaggio degli sforzi e delle preghiere di tante persone. Se non altro, la preghiera è stato un collante che ha permesso la mia libertà, una libertà interiore prima e dopo il miracolo di essere rilasciato».