Ha bucherellato l’impero salvando le genti, di Pierangelo Sequeri
Il nostro debito con Paolo. Ha bucherellato l’impero salvando le genti,
di Pierangelo Sequeri
Riprendiamo da Avvenire del 28 giugno 2009 un articolo di Pierangelo Sequeri.
Il Centro culturale Gli scritti (28/6/2009)
Paolo di Tarso ha 'inventato' il cristianesimo? Ricordiamo l’esasperazione di Friedrich Nietzsche, nei confronti di un Dio dell’avvilimento, della rappresaglia, dei sacrifici umani, «quem Paulus creavit». Paolo deve averlo creato, secondo Nietzsche, perché nulla di ciò si trova nel vangelo di Gesù. Nietzsche coglie a suo modo nel segno.
Però manca totalmente il bersaglio, con Paolo. Nel nucleo centrale del suo pensiero, vulcanico e roccioso, il Dio di Paolo è esattamente il Dio di Gesù: alla lettera. Quello stesso che per evitare sacrifici umani offre se stesso ai risentimenti di un sacro impazzito, che vuole smentirlo proprio su agape. Il Dio di Paolo è il Dio di agape, del quale non si può pensare il più grande, secondo la formula di Anselmo d’Aosta. Per questo, dessi pure «il mio corpo alle fiamme», nell’atto di un supremo martirio, se non ho agape «non sono niente» (1 Cor 13). E persino – udite – «se avessi una fede che sposta le montagne». (Su questo aspettiamo un grande libro, colleghi biblisti e teologi quanti siamo – lo dico anche a me stesso – che ancora non abbiamo).
Di fatto, la domanda ha potuto avere un senso (polemico e, rispettivamente, apologetico) quando i credenti e i loro critici leggevano poco i testi. E molto di più leggevano i 'bigini' che se n’erano fatti. Rimane vero, con tutto questo, che Paolo è persona – e personalità – prodigiosamente creativa, nell’orizzonte aperto dalla rivelazione di Gesù. Paolo ha messo al sicuro la singolarità del cristianesimo, per ogni mondo possibile.
Vogliamo esemplificare, fuori da ogni manierismo teologico? Intanto non avremmo l’icona della 'forma occidentale'. Inedita avventura di affetti e pensieri dell’umano, in cui le dialettiche dell’evangelo hanno innervato due possenti creazioni dello spirito.
In primo luogo, riabilitando religiosamente la grandiosa macchina 'laica' della cittadinanza liberale (il diritto romano: messo in salvo dal suo stesso mondo, ormai a pezzi). Nessun’altro pensiero religioso avrebbe potuto, se non quello che distingue radicalmente, senza contrapporli pregiudizialmente, Cesare e Dio. (E il celebre enunciato è di Gesù, non di Cavour).
In secondo luogo, metabolizzando religiosamente la prodigiosa conquista filosofica della 'razionalità' morale, che mette in rapporto il singolo con l’appello incondizionato della giustizia.
Lo spessore – giustamente drammatico – che viene conferito da Paolo al severo confronto della coscienza con se stessa, per la retta decifrazione della legge (con la minuscola e con la maiuscola), interpreta l’appello di Gesù alla libertà della coscienza che decide la vita. La coscienza cerca la giustizia sempre di fronte a Dio, devoti o pagani quanti siamo. E sempre le è accessibile, nell’onestà del cuore, la propria ingiustizia (Rom 7). Vale per la religione e per la morale, per la verità e per l’amore.
Sarebbe solo l’inizio, se ci si vuole incamminare. L’anno che Benedetto XVI, con felice intuizione, ha proposto di dedicare alla viva riappropriazione di questa 'colonna' dell’avventura cristiana, ha aperto il suo varco. L’anno si chiude, giustamente. Ma il filo da tessere va tenuto ben saldo. Poca conoscenza e troppi fraintendimenti, ancora. Con tutto il rispetto per Galileo e per Darwin, siamo in debito d’onore con Paolo: credenti e non credenti, quanti siamo, in questa parte del mondo che ci sembra, a tratti, così sfinita. Paolo, quasi dal niente, e con poco più che il suo Signore crocifisso e risorto, ha tessuto una rete miracolosa: bucherellando l’Impero come un colabrodo. E salvando 'le genti'.
di Pierangelo Sequeri
Riprendiamo da Avvenire del 28 giugno 2009 un articolo di Pierangelo Sequeri.
Il Centro culturale Gli scritti (28/6/2009)
Paolo di Tarso ha 'inventato' il cristianesimo? Ricordiamo l’esasperazione di Friedrich Nietzsche, nei confronti di un Dio dell’avvilimento, della rappresaglia, dei sacrifici umani, «quem Paulus creavit». Paolo deve averlo creato, secondo Nietzsche, perché nulla di ciò si trova nel vangelo di Gesù. Nietzsche coglie a suo modo nel segno.
Però manca totalmente il bersaglio, con Paolo. Nel nucleo centrale del suo pensiero, vulcanico e roccioso, il Dio di Paolo è esattamente il Dio di Gesù: alla lettera. Quello stesso che per evitare sacrifici umani offre se stesso ai risentimenti di un sacro impazzito, che vuole smentirlo proprio su agape. Il Dio di Paolo è il Dio di agape, del quale non si può pensare il più grande, secondo la formula di Anselmo d’Aosta. Per questo, dessi pure «il mio corpo alle fiamme», nell’atto di un supremo martirio, se non ho agape «non sono niente» (1 Cor 13). E persino – udite – «se avessi una fede che sposta le montagne». (Su questo aspettiamo un grande libro, colleghi biblisti e teologi quanti siamo – lo dico anche a me stesso – che ancora non abbiamo).
Di fatto, la domanda ha potuto avere un senso (polemico e, rispettivamente, apologetico) quando i credenti e i loro critici leggevano poco i testi. E molto di più leggevano i 'bigini' che se n’erano fatti. Rimane vero, con tutto questo, che Paolo è persona – e personalità – prodigiosamente creativa, nell’orizzonte aperto dalla rivelazione di Gesù. Paolo ha messo al sicuro la singolarità del cristianesimo, per ogni mondo possibile.
Vogliamo esemplificare, fuori da ogni manierismo teologico? Intanto non avremmo l’icona della 'forma occidentale'. Inedita avventura di affetti e pensieri dell’umano, in cui le dialettiche dell’evangelo hanno innervato due possenti creazioni dello spirito.
In primo luogo, riabilitando religiosamente la grandiosa macchina 'laica' della cittadinanza liberale (il diritto romano: messo in salvo dal suo stesso mondo, ormai a pezzi). Nessun’altro pensiero religioso avrebbe potuto, se non quello che distingue radicalmente, senza contrapporli pregiudizialmente, Cesare e Dio. (E il celebre enunciato è di Gesù, non di Cavour).
In secondo luogo, metabolizzando religiosamente la prodigiosa conquista filosofica della 'razionalità' morale, che mette in rapporto il singolo con l’appello incondizionato della giustizia.
Lo spessore – giustamente drammatico – che viene conferito da Paolo al severo confronto della coscienza con se stessa, per la retta decifrazione della legge (con la minuscola e con la maiuscola), interpreta l’appello di Gesù alla libertà della coscienza che decide la vita. La coscienza cerca la giustizia sempre di fronte a Dio, devoti o pagani quanti siamo. E sempre le è accessibile, nell’onestà del cuore, la propria ingiustizia (Rom 7). Vale per la religione e per la morale, per la verità e per l’amore.
Sarebbe solo l’inizio, se ci si vuole incamminare. L’anno che Benedetto XVI, con felice intuizione, ha proposto di dedicare alla viva riappropriazione di questa 'colonna' dell’avventura cristiana, ha aperto il suo varco. L’anno si chiude, giustamente. Ma il filo da tessere va tenuto ben saldo. Poca conoscenza e troppi fraintendimenti, ancora. Con tutto il rispetto per Galileo e per Darwin, siamo in debito d’onore con Paolo: credenti e non credenti, quanti siamo, in questa parte del mondo che ci sembra, a tratti, così sfinita. Paolo, quasi dal niente, e con poco più che il suo Signore crocifisso e risorto, ha tessuto una rete miracolosa: bucherellando l’Impero come un colabrodo. E salvando 'le genti'.