«È difficile fare previsioni, perché potrebbero entrare in scena improvvisi cambiamenti della coscienza storica. All'inizio del XX secolo chi avrebbe potuto prevedere che negli anni Venti il liberalismo sarebbe stato improvvisamente considerato una ideologia borghese ormai superata, al cui posto erano subentrati l'esistenzialismo, la filosofia dei valori e nuovi abbozzi della metafisica? All'inizio degli anni Sessanta chi avrebbe potuto prevedere che nel 1968 sarebbe sopraggiunta una svolta che a sua volta rigettava l'esistenzialismo come filosofia borghese e invece implicava di rivolgersi con passione al marxismo? Allo stesso modo anche noi oggi non possiamo prevedere i possibili cambiamenti della coscienza collettiva». Alcune interviste all’allora cardinale Joseph Ratzinger

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /06 /2014 - 14:36 pm | Permalink | Homepage
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1/ La religione tra moderno e postmoderno. Un’intervista di Vittorio Possenti al cardinale J. Ratzinger

Riprendiamo sul nostro sito un’intervista rilasciata nel 2002 dall’allora cardinale J. Ratzinger a Vittorio Possenti: Card. Ratzinger: La libertà non può essere arbitrarietà, ma ha bisogno dell'ordinamento delle libertà e dell'osservanza delle sue regole. Uscita nel volume AA. VV., Il monoteismo. Annuario di filosofia 2002, Mondadori, Milano 2002. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (22/6/2014)

Il fenomeno più saliente a cui si assiste è l'assunzione dell'universalismo cristiano, e dunque della spinta missionaria, da parte dell'induismo; universalismo che fino a ora era del tutto estraneo alla religione induista. In questa prospettiva la propria particolare religione viene vissuta come se fosse universale: la radice mistica della religione indiana sarebbe ciò che veramente accomuna e abbraccia tutto, ciò in cui tutte le singole espressioni religiose troverebbero la loro dimora.

La consapevolezza che dietro a tutte le forme di religiosità si nasconda l'Uno ineffabile, in cui noi tutti siamo identici a Dio, si congiunge oggi con il relativismo occidentale ed esercita, a partire da qui, una particolare forza d'attrazione.

Qualcosa di simile si potrebbe dire circa gli sviluppi del buddhismo, il cui concetto di compassione viene avvicinato a quello dell'amore cristiano, intendendo così di nuovo evidenziare l'identità ultima delle religioni.

Tuttavia alle tendenze universalistiche si contrappongono anche reazioni particolaristiche, che vogliono consapevolmente racchiudere entro ben definiti confini ciò che è estraneo, che intendono affermare la propria identità e che rifiutano il cristianesimo in quanto estraneo e l'attività missionaria in quanto imperialismo religioso.

Inoltre è presente in tutto il mondo una tendenza alla politicizzazione della religione: la sua universalità consisterebbe, in definitiva, nel suo utilizzo a fini politici per difendere la giustizia, la pace e per preservare la creazione.

Ben vengano questi obiettivi! Ma là dove la religione viene misurata secondo i suoi scopi e secondo la sua utilità nella politica mondiale, la si distrugge dall'interno.

A ciò è collegata la tendenza all'universalizzazione della teologia della liberazione. Al buddhismo, in primo luogo, nulla è così estraneo quanto l'idea di cambiare il mondo e di dare un nuovo assetto alle istituzioni mondane. Ma sulla via che conduce a una diversa interpretazione dell'idea di compassione K.N. Jayatilleke, per esempio, è potuto giungere fino al punto di spiegare la democratizzazione della società come una esigenza insita nel buddhismo. Non stupisce allora che nella situazione in cui si trovava il Medio Oriente potessero nascere teologie della liberazione di impronta islamica. Si tratta di un fenomeno marginale nel processo della rinascita dell'islam. Anche questo processo è molto stratificato e non sarebbe concepibile senza il contatto con il cristianesimo.

Esso trae vantaggio soprattutto dalla povertà della fede dei cristiani, dal predominio di filosofie radicalmente secolariste nel mondo occidentale, da cui il sentimento religioso dei popoli islamici prende le distanze: il cristianesimo sembra aver perso la sua forza vitale, e ciò fa sì che si faccia sentire ancora di più la forza religiosa dell'islam.

In questi processi la componente politica è rilevante, tanto più che per l'islam l'elemento politico non è comunque scindibile da quello religioso. Tuttavia bisognerebbe guardarsi dall'interpretare tutto questo solo in chiave politica misconoscendone la forza religiosa, tutt'altro che assente.

Il disgregamento del cristianesimo a opera del pensiero secolarista ha portato in Occidente a nuove forme di religiosità, che si celano dietro la cangiante etichetta di "New Age". Non si cerca la fede ma l'esperienza religiosa, si va alla ricerca dei sentieri che conducono all'unione "mistica", e in tal modo si giunge anche a una riscoperta delle religioni precristiane, si assiste a un ritorno di dèi e riti precristiani. La madre terra e il padre sole, se considerati insieme, corrispondono alle idee egualitaristiche dell'epoca più che la fede nel Dio unico; le immagini mitiche sono in auge e i rituali semimagici appaiono più promettenti della sobria ebbrezza della liturgia cristiana, per non parlare delle sue atrofizzazioni razionalistiche dei tempi recenti.

Siamo così giunti al cristianesimo. Si possono subito riconoscere due tendenze fondamentali che si contrappongono reciprocamente: da un lato i tentativi di un proseguimento sul cammino della razionalizzazione e di un adeguamento, il più completo possibile, ai moderni standard di vita.
Questi conformismi non conducono però per loro natura a un rafforzamento del vincolo religioso, ma alla sua progressiva dissoluzione.

Un cristianesimo che va d'accordo con tutto e che è compatibile con tutto è superfluo. Del resto nei razionalismi estremi è sempre incombente il rovesciamento nel mito, che non ha bisogno di una giustificazione razionale, bensì rappresenta un irrazionale programma aggiunto per la realizzazione della concezione secolarista del mondo.

Dall'altro lato si hanno risvegli della fede di rinnovata intensità, che all'interno della Chiesa si manifestano nei movimenti religiosi, mentre al di fuori di essa assumono forme ecclesiali autonome. Ciò che più salta agli occhi è la rapida crescita delle Chiese pentecostali, che mostrano fervore religioso, fede salda e nel contempo un interesse relativamente scarno per le questioni di carattere istituzionale; quello che contraddistingue i pentecostali è il forte risalto dato all'esperienza religiosa.

Grande successo hanno le cosiddette comunità fondamentaliste, che sono caratterizzate da una chiara professione di fede e da nette delimitazioni di confini nei confronti del mondo secolare. Chi crede vuole sapere in che cosa crede e perché crede; cerca fermezza, decisione e un percorso chiaro.

Tutti questi fenomeni, naturalmente, si possono osservare anche nella Chiesa cattolica. Diventa sempre più evidente come l'adeguamento progressivo, il continuo confondersi dei tratti essenziali della fede, non apra alcuna via verso il futuro. Perla Chiesa cattolica è importante possedere una chiara consapevolezza della sua universalità, sia nella prospettiva sincronica sia in quella diacronica: essa unisce uomini e culture di tutti i luoghi e di tutti i tempi.

La Chiesa cattolica è una forza che unisce in un mondo minacciato dai particolarismi. Questo nel contempo sta a significare il suo carattere metapolitico: in se stessala Chiesa non è uno strumento politico, la fede ha il suo ambito proprio, che costituisce un correttivo di tutto ciò che è politico e contemporaneamente è forza morale per la sua giusta configurazione.

In definitiva, la fede dà all'essere umano i contenuti essenziali sul suo "da dove" e sul suo "verso dove": una certezza che ci accomuna e ci sostiene durante la vita e al momento della morte. Tale fede da un lato è aperta alla ragione; l'apertura nei confronti della ragione e la responsabilità verso di essa è essenziale per la fede. Ma la fede conferisce alla ragione anche un'ampiezza di orizzonti e una certezza che la ragione, proprio nelle domande essenziali dell'esser-uomo, da sé sola non può avere e che ci conduce oltre la sola ratio, verso la profondità dell'intellectus (per riprendere una distinzione dei Padri e del Medioevo), dischiudendo anche la dimensione della mistica, del contatto dell'anima da parte del Dio vivente.

2) Dopo il declino della critica, lungamente sollevata, secondo cui la religione varrebbe come oppio dei popoli, quali interrogativi e problemi verosimilmente interpellano con maggior vigore la coscienza umana e religiosa del XXI secolo?

È difficile fare previsioni, perché potrebbero sempre entrare in scena improvvisi cambiamenti della coscienza storica. All'inizio del XX secolo chi avrebbe potuto prevedere che negli anni Venti il liberalismo sarebbe stato improvvisamente considerato una ideologia borghese ormai superata, al cui posto erano subentrati l'esistenzialismo, la filosofia dei valori e nuovi abbozzi della metafisica?

All'inizio degli anni Sessanta chi avrebbe potuto prevedere che nel 1968 sarebbe sopraggiunta una svolta che a sua volta rigettava l'esistenzialismo come filosofia borghese e invece implicava di rivolgersi con passione al marxismo? Allo stesso modo anche noi oggi non possiamo prevedere i possibili cambiamenti della coscienza collettiva.

Come appare dalla situazione attuale, ci saranno da un lato una riabilitazione del mito e delle forme di religiosità di impronta mitica, in cui l'essere umano cerca l'esperienza della comunità, dell'unità di anima e corpo, dell'unitotalità e la fuoriuscita dai vincoli del mondo della tecnica come momenti di libertà, di oblio, in sintesi di felicità. A tale riguardo potrebbe ulteriormente aumentare la frattura fra il mondo del razionale e i mondi dell'esperienza irrazionale.

Ciò significherebbe poi in ambito filosofico un ulteriore allontanamento dalla metafisica e un consolidamento del dominio del positivismo come unica forma della razionalità, per cui la capacità di comprendere che cosa sia la ragione e che cosa sia razionale si riduce sempre più.

Ma vedo anche possibili nuovi risvegli della fede cristiana, di una cattolicità viva, e da ciò giungeranno anche nuovi impulsi per la filosofia. Come negli anni Venti del secolo scorso la fenomenologia husserliana all'improvviso aveva aperto le porte per un rinnovamento della metafisica e il personalismo aveva mutato il quadro della filosofia, così una fede rinnovata aprirà di nuovo alla filosofia le porte delle domande primigenie dell'essere umano - domande fondamentali e mai risolte - sulla sua origine e il suo futuro, sulla vita e la morte, su Dio e l'eternità.

3) Il liberalismo filosofico, di cui è nota la considerevole diffusione ai vari livelli della cultura occidentale, continua a sostenere che il primo e fondamentale "bisogno umano" debba ravvisarsi nella libertà. Considerando questo assunto, si fa strada la riflessione se non siano presenti nell'uomo bisogni, domande, esigenze almeno (e forse più) fondamentali di quello vertente sulla libertà, la quale dal liberalismo filosofico è intesa solo come libertà di scelta. Non sembra questa una seria restrizione del problema?

In effetti ci troviamo di fronte a una pericolosa unilateralizzazione delle domande fondamentali sull'esistenza umana. Il concetto stesso di libertà viene ridotto indebitamente. In generale il concetto di libertà non solo è ridotto a quello di libertà di scelta, ma è anche concepito da un punto di vista esclusivamente individualistico; per fare un esempio, nel senso in cui una volta era stato formulato dal giovane Marx: La libertà consiste "nel fare oggi questo, domani quello... proprio a seconda di come ne ho voglia". Ma in tal modo si dimentica che l'umanità ci è data solo nel nostro essere l'uno con l'altro e che la mia libertà può funzionare solo in unione con la libertà degli altri. Siamo collegati l'un l'altro in un sistema di prestazioni reciproche: solo così nutrimento, salute, lavoro e tempo libero possono essere assicurati. La mia libertà è sempre una libertà dipendente, una libertà con gli altri e attraverso gli altri. Senza la sinergia con le altre libertà, la mia libertà annienta se stessa.

Dunque, la libertà in primo luogo deve tener conto del reciproco essere l'uno con l'altro. Non può essere arbitrarietà, ma ha bisogno dell'ordinamento delle libertà e dell'osservanza delle sue regole. Se così è, segue subito la duplice domanda: chi stabilisce queste regole? E qual è il criterio secondo cui vengono istituite? Alla prima domanda oggi rispondiamo rinviando alla democrazia come forma regolatrice delle libertà, e ciò è giusto. Tuttavia rimane la seconda domanda, perché devono pur esserci dei criteri per il giusto ordinamento delle libertà.

Ora, noi diciamo: è la maggioranza che decide. Ma ci possono anche essere maggioranze malate, e il secolo scorso lo ha dimostrato. Ci può essere una maggioranza che decide che una parte della popolazione deve essere sterminata perché ostacola il godimento della propria libertà. Oppure che un popolo confinante deve essere combattuto perché restringe il proprio spazio vitale. Ci sono norme che nessuna maggioranza può abrogare. Così è davvero necessario porre la domanda: quali sono i beni che nessuno può distruggere senza distruggere l'essere umano e in tal modo anche la libertà? La domanda sull'incondizionatamente buono e sull'incondizionatamente malvagio non può essere elusa, se ci deve essere un ordinamento della libertà che sia degno dell'uomo. La libertà è un bene, ma è tale solo in una rete di rapporti con altri beni, dai quali solo risulta chiaro che cosa sia libertà effettiva e che cosa libertà illusoria.

4) Nonostante la fine catastrofica dell'"ateismo scientifico-dialettico" di origine marxista, permane nella cultura occidentale postmoderna una forte obiezione nei confronti del cristianesimo, che si esprime come agnosticismo e ateismo aggressivi di origine empiristica, scientistica, scettica. Stanno vincendo Hume e Bentham? Come valutare l'atteggiamento che intende prescindere sistematicamente da Dio nel campo civile, procedendo etsi Deus non daretur? Sarebbe questo il canone centrale di ogni autentica morale laicista?

In effetti sembra che attualmente il pensiero continui a svilupparsi in questa direzione. Dopo che il marxismo, di fronte alla svolta del 1989, continua ancora oggi a trovarsi in una pausa di riflessione, le filosofie simili a quella del razionalismo critico di Popper corrispondono maggiormente al senso contemporaneo di ciò che si può considerare razionale. La verità in quanto tale - così si pensa - non può essere conosciuta, ma si può avanzare a poco a poco solo con i piccoli passi della verificazione e della falsificazione. Si rafforza la tendenza a sostituire il concetto di verità con quello di consenso.

Ma ciò significa che l'uomo si separa dalla verità e così anche dalla distinzione tra il bene e il male, sottomettendosi completamente al principio della maggioranza. Ho già cercato poc'anzi di indicare dove ciò possa condurre e quale tirannia della falsità possa essere istituita nel dominio esclusivo del principio del consenso.

Il cammino in questa direzione comincia già, naturalmente, nell'idealismo tedesco, quando si parte dal presupposto che l'uomo possa conoscere non la realtà in quanto tale ma solo la struttura della sua coscienza. Nel frattempo filosofie come quelle di Singer, Rorty, Sloterdijk indicano ulteriori radicalizzazioni nella stessa direzione: l'uomo progetta e "monta" il mondo senza criteri prestabiliti e così supera necessariamente anche il concetto di dignità umana, sicché anche i diritti umani diventano problematici.

In una siffatta concezione della ragione e della razionalità non rimane spazio alcuno per il concetto di Dio. E tuttavia la dignità umana alla lunga non può essere difesa senza il concetto di Dio creatore. Essa perde così la sua logica. Naturalmente noi non possiamo e non ci è consentito di costringere alcuno a credere in Dio. Tanto più urgente è allora il compito di far di nuovo valere il concetto di Dio creatore nella sua razionalità e di tenerlo presente nel conflitto della ragione. Riguardo a ciò i pensatori cristiani hanno una grande missione davanti a sé.

5) Osservatori di varia estrazione sostengono che è in atto un abbandono interno alla Chiesa delle "prove" della verità del cristianesimo, della sua pretesa alla verità. Si adduce a conferma che gli esponenti cristiani amino dialogare solo con quei settori della cultura che accolgono solo la funzione sociale della religione, la sua utilità civile, i suoi simboli, mentre si mostrerebbero indifferenti alla verità degli asserti di fede. A suo parere, si può assegnare validità a tale diagnosi, secondo la quale la prassi attuale del cattolicesimo riterrebbe secondaria la verità dei propri contenuti?

Probabilmente è vero che importanti settori del cattolicesimo attualmente nel dialogo con i non credenti accantonino la domanda sulla verità considerandola priva di prospettive e quindi sterile e vogliano focalizzare il dibattito sull'utilità sociale della fede. Per specifiche fasi della discussione questo può essere ammesso oppure può costituire l'unica via percorribile.

Ma se complessivamente si volesse lasciar cadere la pretesa alla verità e in tal modo si intendesse declassare il cristianesimo da "verità" a (utile) abitudine ("tradizione"), questo significherebbe la rinuncia del cristianesimo a se stesso. Il cristianesimo sarebbe certo perfettamente inglobato nel sistema del mondo moderno, però avrebbe perso la sua anima. Dunque Cristo non potrebbe più dire: "Io sono la verità", ma sarebbe retrocesso all'ordine di grandezza di un uomo con una significativa esperienza religiosa oppure a quello di un riformatore della società che purtroppo ha fallito. Del resto la Chiesa proprio grazie all'altezza della sua pretesa rende un servizio alla società; essa non permette di rimanere ancorati alle filosofie del consenso o alle tecniche sociali;la Chiesa ci esorta sempre di nuovo a porci la domanda sulla verità, solo così la statura dell'uomo può essere preservata.

A partire da ciò mi spiego una buona parte dello scandalo ma anche l'intrinseca necessità della dichiarazione "Dominus Iesus", che appunto non permette di acquietarsi nella compresenza di differenti "tradizioni religiose", ma pensa più in grande dell'uomo: egli è chiamato alla verità, ed è costituito in modo tale che non ci sono solo differenti forme di esperienza religiosa, ma c'è anche l'uomo che è Dio. Questa pretesa non può essere taciuta oppure sminuita per comodità.

6) Dal lato del cristianesimo e del suo rapporto con le altre religioni si presenta la questione della sua verità (parziale? storica? universale?). Quale posizione assumere fra chi sostiene che il cristianesimo è funzionalmente idoneo a soddisfare i bisogni religiosi, in linea di principio storicamente variabili e situati secondo le culture, del solo uomo europeo e chi difende la portata universale del cristianesimo? Come mantenere la pretesa cristiana alla verità, se si assume che l'idea stessa di verità non sia applicabile alla religione, la quale verterebbe solo sulla pietà e i costumi ed escluderebbe la conoscenza?

In parte ho già risposto alla domanda con quanto ho appena detto. Ho fatto poc'anzi allusione a una bella frase di Tertulliano: "Cristo non ha detto di essere l'abitudine, bensì la verità" (Virg. 1,1). Se Cristo non è la verità, allora non c'è più alcun fondamento per la pretesa cristiana all'universalità e per la missione. Se la fede cristiana è solo una tradizione religiosa, anche se certamente una tradizione significativa, non è più comprensibile il motivo per cui dovrebbe essere impartita agli altri.

Al contrario, la verità è per tutti una sola, e se Cristo è la verità, allora riguarda tutti; allora è una colpa occultarla agli altri. Se si definisce il cristianesimo una religione europea si dimentica che non è nato in Europa e che nei primi secoli si è diffuso in modo uniforme sia in Europa sia in Asia; la missione nestoriana aveva raggiunto l'India ela Cina; l'Armenia ela Georgia sono antiche terre cristiane. Anche nella penisola arabica c'era una rilevante presenza di cristiani; presenza che fu notevolmente indebolita dal successo dell'islam, ma che ciò nonostante non si riuscì a far scomparire. Queste comunità cristiane orientali, per le quali già Antiochia e a maggior ragione Costantinopoli e Roma erano considerate "occidente", non hanno mai smesso di esistere.

Oggi l'opposizione più forte al cristianesimo proviene dall'Europa e dalla sua filosofia postcristiana, mentre nei paesi extraeuropei la fede trova un sostegno sempre più forte. A questo si obietta che il cristianesimo, nella manifestazione concreta che ha assunto, ha ricevuto la sua impronta soprattutto dalla filosofia greca e dai suoi sviluppi nel pensiero medievale nonché dal pensiero europeo moderno, per far derivare da ciò il diffuso postulato della deellenizzazione e del puro ritorno alla Bibbia.

In questa prospettiva si dimentica però in primo luogo che la filosofia greca nell'incontro con il messaggio cristiano ha subito un profondo processo di ri-fusione. In opposizione a ciò ci fu una reazione in campo filosofico che si contrappose a questa trasformazione cristiana e alla nuova sintesi delle culture, con l'intento di preservare l'elemento autenticamente greco.

Ma qui si dimentica anche che già nell'Antico Testamento ha avuto luogo un incontro tra il pensiero greco e l'antica tradizione biblica: il processo dell'incontro fra le culture è quindi già avviato nella Bibbia stessa. Inoltre si dimentica che, viceversa, la filosofia greca, in particolare con Platone, ha ricevuto forti influssi dalle tradizioni orientali, e dunque essa stessa presuppone una fusione di culture; con Plotino il pensiero greco si rivolge di nuovo alle tradizioni dell'Asia ed entra in contatto con alcuni orientamenti dello spirito indiano.

Ma soprattutto si dimentica il senso autentico e profondo dell'incontro della fede biblica con la filosofia greca: si tratta di impedire un autoisolamento e una riduzione della fede biblica in una tradizione religiosa particolare, di esporsi alla pretesa della ragione che accomuna tutti gli uomini e di tener ancorato il cristianesimo alla domanda sulla verità come unica chiave della sua universalità e come obbligazione che gli viene conferita dalla figura di Cristo.

Chi voglia liquidare questo confronto con la ragione e con la domanda sulla verità considerandolo una "ellenizzazione" particolarizza il cristianesimo e lo riduce a espressione di una forma particolare e giammai universale di esperienza religiosa. Il Papa nell'enciclica Fides et ratio ha inserito queste connessioni nel dibattito filosofico e teologico contemporaneo: si tratta di superare l'"abitudine" e di rimanere sulla via della verità. È un appello che riguarda tutti.

2/ La Chiesa in Germania: coscienza del divino e liturgia, teologia ed ecumene

Riprendiamo sul nostro sito un’intervista rilasciata nel 2003 dall’allora cardinale J. Ratzinger a Die Tagespost. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (22/6/2014)

Pubblichiamo l’intervista dal titolo “Im Glauben geeint, in allem anderen frei” (“Uniti nella fede, liberi in tutto il resto”), rilasciata il 3 ottobre 2003 al giornale cattolico “Die Tagespost” dal Cardinale Jospeh Ratzinger, al quale veniva chiesto un giudizio sulla situazione della Chiesa in Germania. (traduzione agenzia di stampa Zenit, 5 giugno 2005)

Fra i cattolici consapevoli delle loro tradizioni rientra spesso nelle buone maniere parlare di una crisi di fede nella Chiesa. Ma non è stato già sempre così, che cioè il cristiano medio nutrisse qualche dubbio, che non comprendesse bene molte cose di fede, che portasse con sé anche qualcosa di superstizioso? Se dunque oggi esiste una crisi di fede, quali sono i suoi caratteri distintivi?

Cardinale Ratzinger: Vorrei in primo luogo darle ragione. La fede del singolo credente ha sempre avuto le sue difficoltà e i suoi problemi, i suoi limiti e le sue dimensioni. Su questo non possiamo giudicare. Nella, per così dire, situazione spirituale di base, però, è avvenuto qualcosa di diverso. Fino all’Illuminismo, e anche oltre, era certo tutto questo: il mondo verso Dio era trasparente, era in qualche modo evidente che dietro a questo mondo c’è un’intelligenza superiore, che il mondo stesso con tutto ciò che contiene – il creato con la sua ricchezza, ragionevolezza e bellezza – rispecchi uno Spirito creatore.

E da tutti questi spiragli scaturiva l’evidenza di fondo che Dio stesso parla a noi nella Bibbia, che in essa Egli ci ha rivelato il suo volto, che Dio ci viene incontro in Cristo. Mentre allora vi era, per così dire, un presupposto comune per aderire in qualche modo alla fede – con tutti i limiti e le debolezze umane – e occorreva realmente una consapevole ribellione per dichiararsi contrario, dopo l’Illuminismo è tutto cambiato: oggi l’immagine del mondo è esattamente capovolta. Tutto, così sembra, viene spiegato materialmente; l’ipotesi di Dio, come disse già Laplace, non è più necessaria; tutto viene spiegato tramite fattori materiali.

L’Evoluzione è diventata, diciamo, la nuova divinità. Non vi è alcuna transizione in cui si debba ricorrere a un essere creatore – al contrario: l’introduzione di questo si rivela ostile ad ogni certezza scientifica ed è pertanto qualcosa di insostenibile.

Parimenti, ci è stata strappata di mano la Bibbia come un prodotto la cui origine può essere spiegata con metodi storici, che in ogni passo riflette situazioni storiche e che non ci dice proprio ciò che credevamo di poter trarre da essa, ma che dev’essere stato tutt’altra cosa. In una tale situazione generale, dove la nuova autorità – che viene ritenuta “scienza” – interviene e dice l’ultima parola e dove persino la cosiddetta divulgazione scientifica dichiara da se stessa “scienza”, è molto più difficile conservare il concetto di Dio e soprattutto aderire al Dio biblico, al Dio in Gesù Cristo, accettarlo e vedere nella Chiesa la viva comunità di fede. Vorrei dire, pertanto, che vi è un altro punto, partendo dall’obiettiva situazione di consapevolezza, in cui la fede esige un impegno molto più grande e il coraggio di resistere alle certezze solo apparenti. La scalata fino a Dio è diventata molto più difficile.

Nei primi tempi la chiesa ha sopportato anche le espressioni di fede più deboli: come una patria spirituale, come luogo di appartenenza, come istituzione che propone regole e precetti, ma che accompagna anche attraverso la vita. Sembra che oggi non sia più così.

Vi è non soltanto una crisi di fede, ma anche una crisi della Chiesa come patria spirituale?

Cardinale Ratzinger: La crisi della Chiesa è l’aspetto più concreto di questa crisi di coscienza e di fede. La Chiesa non appare più come la comunità vivente, che deriva da Cristo stesso e si rende garante della Sua parola, che ci offre con ciò una dimora spirituale e la certezza della verità della nostra fede. Oggi essa appare come una comunità fra tante altre: vi sono molte chiese, direbbe qualcuno, e sarebbe umanamente sconveniente ritenere la propria la migliore. Già una forma di umana cortesia spinge a relativizzare la propria, e lo stesso vale per le altre. Si tratterebbe pertanto di casuali aggregati sociali, peraltro inevitabili, ma che non ci garantiscono più: “Qui tu sei veramente a casa”.

Questa disgregazione della coscienza ecclesiale, che naturalmente dipende anche da tutte le imposizioni dell’odierna situazione spirituale e ne rappresenta la concreta applicazione, è sicuramente una delle cause principali per cui la Parola di Dio non giunge più a noi con autorità, ma tutt’al più diciamo: C’è qualcosa di bello in essa, ma devo cercarvi da solo ciò che ritengo giusto. Un indice per valutare il legame alla rispettiva comunità di fede o Chiesa è stato per noi in Germania il primo Ökumenische Kirchentag a Berlino (28 maggio–1° giugno 2003).

In questa occasione i responsabili, sia da parte cattolica che evangelica, si sono comportati in modo tale che la cosiddetta “unità” risulta ancora ben lontana e non può certo trovare espressione in una celebrazione comunitaria dell’Eucaristica o della Santa Cena. Si è avuto invece l’impressione che la gran parte dei visitatori non abbia alcuna conoscenza di questa separazione.

La Chiesa cattolica si sta forse trasformando in una religione di unità cristiana?

Cardinale Ratzinger: Il pericolo è molto serio. Si deve anzitutto riconoscere che le autorità sia di parte cattolica che evangelica hanno escluso celebrazioni eucaristiche e cene in comune. Da parte protestante questo significava rispetto verso il partner ecumenico. Subito poi si disse: “Di per sé la cosa andrebbe, ma noi rispettiamo il fatto che i cattolici abbiano i loro diversi ordinamenti giuridici”. Al tempo stesso si diede a intendere che tali ordinamenti potevano effettivamente essere superati e, stando ai fatti, sono già stati superati.

Anche fra i cattolici, però, la coscienza ecclesiale risulta relativizzata. Essi non possono neppure lontanamente ritenere che la Chiesa cattolica sia per loro la garanzia della verità. E prima di tutto è stata sfocata da entrambe le parti la visione del sacramento.

Solo trent’anni fa (Leuenburger Konkordie, 1973) i protestanti hanno raggiunto con fatica un’unità di comunione, laddove i luterani, nella seconda parte dell’incontro, dovettero abbandonare la loro fede nella presenza reale eucaristica. E’ già un fatto significativamente grave che si releghi nella soggettività quanto si riteneva prima fondante e con ciò venga relativizzata sia la propria fede nel sacramento che la sua forma esteriore. Si rende qui necessario, sia da parte cattolica che protestante, una considerazione di fondo su ciò che è il sacramento, come viene giustamente celebrato, quali sono le condizioni e come l’unità deve essere una vera unità e non una “riduzione”, che finisce col degradare lo stesso sacramento. Sull’altro versante si vanno organizzando i cattolici che, come essi stessi dicono, “sono fedeli al Papa e al Magistero” e mantengono viva la loro fede cattolica. La divisione che ne deriva penetra profondamente nella comunità ed è spesso causa del cambiamento di parrocchia di alcuni fedeli o del loro definitivo abbandono della Chiesa.

Vede una possibilità di uscita da questo distacco oppure una nuova possibile ripresa che possa ricondurre insieme i vari “Lager”, o accampamenti, nell’ambito della Chiesa nei Paesi di lingua tedesca?

Cardinale Ratzinger: Vorrei dire che tale distacco interno alla Chiesa è uno dei più urgenti problemi del nostro tempo e che non siamo giunti ancora ad averlo seriamente sotto controllo. Noi ci occupiamo di ecumenismo e intanto dimentichiamo che la Chiesa nel suo interno si è spaccata e che tale spaccatura penetra fin dentro le famiglie e le comunità. Vorrei anzitutto raccontare un piccolo episodio. Il Cardinale Joseph Bernardin, Arcivescovo di Chicago, poco prima della sua morte – già segnato dalla malattia – sperimentò fortemente la medesima situazione in America e allora stese un progetto common ground. Ossia, con incontri e dialoghi il più estesi possibile, volle tentare di scoprire come si potesse in tali spaccature ritrovare una base comune. Egli poi morì, ma aveva già incaricato un vescovo di condurre avanti le trattative. Ben presto però tutto s’insabbiò poiché si rese evidente che c’è il common ground.

Il common ground è la professione di fede della Chiesa. Ciò che noi vi aggiungiamo è fatto da noi stessi e conseguentemente non può unirci. Ciò che va al di là della comune professione ecclesiale appartiene allo spazio della libertà, che poi dobbiamo imparare a prendere in modo differenziato. L’autentico fondamento comune, l’unico che può veramente reggere, poiché non è stato inventato da noi stessi né da un comitato, né da nessun altro, ma proviene dalla sorgente, è la fede stessa della Chiesa.

Prima di tutto noi dobbiamo imparare di nuovo questo: esiste una fede della Chiesa che non è una fissazione autoritaria, bensì l’eredità lasciata da Gesù Cristo alla sua Chiesa. Se occasionalmente vien detto – come ad esempio nell’ultima enciclica sull’Eucaristia – che la fede non dovrebbe essere resa uniforme in modo autoritario, è naturale che ciò appaia come eccellente. Ma io mi domando: qual è poi l’alternativa? Ognuno può decidere le cose da se stesso? Allora non vi è più alcuna comunità di fede. La comunità consiste nel fatto che noi abbiamo una fede comune e solo la fede può fondare una comunità. Io credo che dobbiamo di nuovo metterci a imparare che vi è un common ground e che questo ci dà al tempo stesso la libertà e la garanzia della pluralità.

Lei ha accennato alla comprensione del Sacramento. Ora, però, una delle principali preoccupazioni si riferisce alla liturgia dei cattolici legati in modo particolare a Roma. Spesso allora si parla della sua espressione “riforma delle riforme”, ossia la “riforma” della riforma liturgica dopo il Concilio. Che cosa possiamo aspettarci o sperare nei prossimi anni? Verranno rimossi gli altari rivolti al popolo?

Cardinale Ratzinger: In nessun caso bisognerebbe ricominciare a introdurre cambiamenti esteriori non ancora preparati interiormente. La liturgia si è creata dei problemi perché si sono cambiate troppo presto delle esteriorità senza prepararle ed elaborarle dall’interno. Allora è sorta l’idea che la liturgia sia propriamente la manifestazione della comunità. Ciò è stato sottolineato fortemente: la comunità come soggetto della liturgia.

Questo significava, pertanto, che la comunità decide come celebrare se stessa. Si sono quindi formati settori che hanno messo in pratica tutto ciò. Altri non vi hanno partecipato e questo non è piaciuto ai primi. Ci troveremo d’accordo sulla liturgia solo quando smetteremo di considerarla come l’elemento formante della comunità e di pensare di dover soprattutto “impegnare” noi stessi e di rappresentarci in essa. Dobbiamo di nuovo imparare a capire che essa ci introduce nel corpo della Chiesa di tutti i tempi, nella quale il Signore ci offre se stesso. Una liturgia senza fede non esiste. Quando si cerca di renderla interessante – Dio sa con quali idee – ma non si presuppone in ciò la fede, e quando viene ristretta soltanto alla comunità e non viene vista, invece, come incontro col Signore nella grande comunità della Chiesa universale, la liturgia cade in rovina.

Pertanto non si capisce perché si debba andare avanti su questa strada. Sono necessarie delle correzioni interiori prima di porre mano a cose esteriori. Se ora si ricomincia a inventare nell’esteriore, non prevedo nulla di buono. Dobbiamo arrivare ad una nuova educazione liturgica, in cui si divenga consapevoli che la liturgia appartiene a tuttala Chiesa, che in essa la comunità si unisce conla Chiesa universale, con Cielo e Terra, e che ciò inoltre rappresenta la garanzia che il Signore viene e succede qualcosa che non può accadere in nessun luogo, in nessun intrattenimento e in nessuno spettacolo.

Solo quando noi volgiamo di nuovo lo sguardo su queste cose più grandi può sorgere una vera unità interiore e ci si può anche interrogare sulle migliori forme dei riti esteriori. Prima, però, deve crescere una comprensione interiore della liturgia, che ci unisce gli uni con gli altri.
Nella liturgia non dobbiamo di volta in volta rappresentare le nostre invenzioni, non dobbiamo introdurre ciò che abbiamo inventato, bensì ciò che ci viene rivelato.

Un’altra preoccupazione di molti fedeli cattolici si esprime in un latente disagio nei confronti dei responsabili nella Chiesa: molti Vescovi sarebbero da troppo tempo inerti spettatori di abusi, di errati comportamenti disciplinari oppure dell’estendersi di pericolose dottrine teologiche. Il cosiddetto “caso Hasenhüttl” ha messo abbastanza in chiaro il fatto che per molti anni un teologo e sacerdote abbia agito indisturbato, sostenendo teorie apertamente molto preoccupanti. Nei piani alti della Chiesa tedesca da gran tempo forse si era troppo indulgenti?

Cardinale Ratzinger: Non si aspetterà che io ora emetta un giudizio sui Vescovi tedeschi del passato né su quelli attuali… Per cinque anni sono stato anch’io uno di loro. Pertanto vorrei rimandare questo giudizio ai prossimi tempi, che potranno giudicare in modo più calmo e obiettivo. Forse è meglio considerare la situazione in generale: che cosa c’è di falso, che cosa c’è di insufficiente. Credo che una grande preoccupazione dei Vescovi – e lo posso confermare per esperienza personale – sia stata quella di mantenere uniti i fedeli nella gran confusione dei tempi, non creare quindi insicurezze che in pubbliche discussioni mettano in contrasto i fedeli e turbino la pace nella Chiesa. Bisognava pertanto chiedersi sempre in senso relativo: l’abuso, il comportamento scorretto, l’insegnamento deviante è così grave che io debba espormi al chiasso della pubblica opinione come anche a tutte le insicurezze che ne potrebbero insorgere, oppure debbo tentare di risolvere il caso il più possibile con calma o anche tollerare ciò che in sé è inaccettabile, onde evitare più gravi lacerazioni? La decisione da prendere era comunque sempre difficile.

Vorrei però dire che la nostra tendenza – anch’io pensavo così – era orientata a dare valore prioritario al rimanere uniti, all’evitare le pubbliche conflittualità e le ferite laceranti che ne derivano. In relazione a questo si è sottovalutato l’effetto di altre cose. Si è presto detto: quel libro lo leggono forse duemila persone – che significa questo di fronte a tutta la comunità dei fedeli, la maggior parte dei quali non ne capisce niente? Ora, solo accentuandone l’attenzione, verrebbero inflitte delle ferite che colpirebbero tutti. Allora si è taciuto.

Così, però, si è sottovalutato il fatto che ogni velenosità tollerata lascia del veleno dietro di sé, continua la sua azione nefasta e, alla fine, porta con sé un grave pericolo per la fede della Chiesa, perché subentra la convinzione: nella Chiesa si può dire questo e quello, tutto trova posto in essa. Allora la fede perde la sua concretezza e la sua evidenza.

Certo è stato sottovalutato nella sua gravità l’impegno di mantenere limpida la fede e, come tale, di presentarla quale il massimo dei beni; questo non soltanto in Germania, ma dovunque abbia avuto luogo questo dibattito sul corretto comportamento dei pastori. Si tratta dell’effetto a lungo termine di tali iniezioni di veleno. Ne è derivata l’impressione che la fede non fosse così importante, per quanto poco se ne sapesse di preciso. Non voglio incolpare nessuno dei singoli, ma, in una specie di esame di coscienza, dovremmo intenderci nuovamente sulla priorità della fede e renderci consapevoli degli effetti a lungo termine di tali errori. Dobbiamo imparare a vedere più chiaramente che la quiete pura e semplice non è il primo dovere cristiano e che la fede può diventare debole e falsa, se non ha più alcun contenuto.

Sicuramente c’è una responsabilità nell’episcopato di una Chiesa locale, anche di quella tedesca. Qui però c’è anche il Vaticano, che nomina i Vescovi, e precisamente propone tre candidati, uno dei quali viene scelto dal capitolo locale. Può essere che a Roma, negli ultimi due, tre decenni, abbiano preferito nominare dei Vescovi concilianti e capaci di dialogo, che potessero entrare come mediatori e moderatori, laddove, invece, sono stati meno i candidati scelti per la loro adesione alla fede senza compromessi, per il loro coraggio di testimonianza e le loro convinzioni chiaramente espresse?

Cardinale Ratzinger: La nomina di Roma non cade direttamente dal cielo, ma risulta da un sondaggio condotto nel popolo di Dio, fra i Vescovi e sacerdoti, per vedere quali figure emergano nella comunità di fede, degne di fiducia ed in grado di svolgere una funzione di guida. Pertanto, la partecipazione della Chiesa locale alla scelta dei Vescovi è molto più forte di quanto generalmente si immagini. Roma, poi, non ha nessun interesse a imporre quasi d’autorità chicchessia al popolo di Dio, ma dev’essere qualcuno che venga poi accettato dallo stesso popolo e riconosciuto come pastore e guida. Posso ammettere che nel problema dell’accettazione, che è già un problema importante, si sia scelto come criterio anzitutto la capacità di consenso e, di conseguenza, non si sia sufficientemente calcolata la capacità di dirigere e di discutere, il coraggio di affrontare resistenze e contestazioni. Direi che ogni generazione ha il suo tipo di Vescovo.

Immediatamente dopo il Concilio, furono cercati proprio i Vescovi che volevano e potevano introdurre i cambiamenti ora conclusi. Ciò in parte è avvenuto anche troppo in fretta, ma chi può incolpare quelli di allora? A causa di questi rapidi cambiamenti, poi, si giunse in molte comunità a quella rottura di cui abbiamo appunto parlato. Così si dovette, alla fine, cercare dei riconciliatori.

E non a caso venne allora con insistenza in primo piano l’espressione “il vescovo è pontifex! – il vescovo è uno che costruisce ponti, che riunisce insieme. Per quanto riguarda i problemi che ne sono derivati, oggi dobbiamo ancor più fortemente ricordare che il pontifex non deve costruire ponti solo per riunire i singoli fedeli, ma anche per condurre a Dio e alla grande comunità della Chiesa.

Dovremmo anche nuovamente ricordare che il termine pontifex è derivato dal mondo pagano – poi fu certamente adattato al mondo cristiano –, ma che la Bibbia ci propone più intensamente la figura del pastore. Secondo la tradizione biblica il pastore precede il gregge. Egli indica la via da seguire, stabilisce anche dei criteri ed è pronto a opporsi a forze contrarie. Direi pertanto che il coraggio di sostenere contestazioni, il coraggio di intervenire contro la political correctness rispetto alla fede deve essere oggi un criterio decisivo per il Vescovo. Ma rimane sempre ovvio però che egli deve anche aiutare il suo gregge a riconoscersi nell’unità e ad accordarsi comunitariamente con lui.

Sicuramente anche la teologia è importante per una chiesa locale. Come vorrebbe caratterizzare il rapporto fra la teologia cattolica insegnata nelle “Hoch-schulen” in Germania e il magistero cattolico odierno, dopo quasi quindici anni dalla cosiddetta “Kölner Erklärung” del 6 gennaio 1989, ossia la dichiarazione dei docenti cattolici di teologia contro il magistero romano? È migliorato, è rimasto uguale oppure si è diventati ancora più sordi gli uni verso gli altri?

Cardinale Ratzinger: È molto difficile giudicare. Vi sono molti insegnanti di teologia eccellenti, altrimenti gli episcopati non potrebbero certo rigenerarsi tramite le università. Non c’è dubbio. D’altra parte vi sono anche considerevoli problemi. È il caso speciale della teologia tedesca, che si trova ancora insediata nelle università statali. Ciò porta dei vantaggi significativi, perché così la teologia risulta un fatto pubblico, viene energicamente sottoposta al criterio della scientificità e della razionalità e, pertanto, può e deve sostenere forti provocazioni. Direi subito, però, che la “statalità” della teologia non dovrebbe identificarsi col suo essere un fatto pubblico. Essa può appena vivere ghettizzata in una università statale o essere di gran dominio pubblico in una istituzione ecclesiale. Certo, non dovremmo trascurare con leggerezza i vantaggi che ci offre tale situazione, ma neanche ignorarne i pericoli.

Io vedo in essa un doppio pericolo: il primo è una “accademizzazione” unilaterale della teologia, nel senso che essa, a motivo del suo trovarsi fra le altre facoltà, voglia essere semplicemente una scienza come le altre, si ritiri completamente nell’azione accademica, puramente intellettuale, ed elevi a supremo criterio la sua coerenza intrinseca e il suo accordo scientifico con le altre discipline. Se avviene questo, allora la teologia corre il pericolo di perdere le sue radici interiori, ossia la vita spirituale, il dialogo con Dio, la fede che essa porta e che soprattutto le apre gli occhi sulla realtà, e di diventare una disciplina accademica senza frutti spirituali. Per prima cosa, dunque, tutte le attenzioni per garantire la scientificità della teologia – che io ritengo importanti – non devono condurla a perdere il suo particolare status, la sua base spirituale.

L’altro pericolo poi è che forse si voglia con troppa insistenza mettersi sotto la protezione dello Stato, che si voglia, per così dire, essere più statali che ecclesiali e, al tempo stesso, si guardi alla statalità come a una garanzia di libertà. Così però il confronto con lo Stato e con le sue limitazioni non viene più visto in maniera corretta. Anche qui bisogna che ci sia un rapporto ben equilibrato, che non si consideri la teologia soltanto come una istituzione statale, ma soprattutto come un organo vivente della Chiesa, in cui è essenziale il riflettere sulle ragioni della fede – ma che rimane appunto vivente solo se trova spazio in questo organismo della fede.

Lei diceva poc’anzi: la teologia è “ancora” insediata nelle università statali. Se la Chiesa continua a ridursi nella nostra società secolarizzata, crede che da qualche parte si arrivi a istituire in proprio delle scuole superiori di teologia? Oppure vorrebbe dire che in Germania andremo avanti così con le facoltà teologiche nelle “Hoch-schulen” statali?

Cardinale Ratzinger: Non voglio essere profeta, ma stiamo vedendo come procede la scristianizzazione della nostra società, come la percentuale dei non-battezzati diventi sempre più grande, e si pone perciò la domanda se la complessiva situazione sociale, come anche il concetto-base di scientificità, ancora basti a garantire un ragionevole spazio di respiro nell’università statale. Direi che non abbiamo bisogno di anticipare i tempi, ma escludere questa possibilità sarebbe anche una forma di cecità mentale.

Non fa meraviglia che oggi nella teologia di lingua tedesca manchino dei “grandi nomi”? Si è appiattivo il livello della ricerca e dell’insegnamento teologico, oppure questa disciplina non viene più percepita dal pubblico come un tempo?

Cardinale Ratzinger: Io conosco un gran numero di giovani teologi che portano avanti dei lavori veramente positivi e godono di un buon prestigio. Ci vuole però del tempo perché un’opera diventi così nota che anche la figura dell’autore risulti al pubblico nella sua giusta dimensione. Siamo vissuto troppo a lungo all’ombra dei grandi nomi, tanto che gli altri non sono riusciti a imprimersi nella nostra mente. Balthasar, Guardini, Rahner sono naturalmente figure eccezionali, quali pochi è dato d’incontrare in un secolo. Però sono contento che nella nuova generazione vi sia un bel numero di studiosi, dai quali possiamo aspettarci del buono.

Ancora sulle condizioni della fede: La moderna esegesi biblica ha sicuramente contribuito molto a rassicurare i fedeli nei Paesi germanofoni. Molti commentatori interpretano la fede delle prime comunità ma non riguardano più il Gesù storico e le sue azioni. Ciò è frutto di una solida conoscenza scientifica della Bibbia? Ad esempio, i Vangeli del Nuovo Testamento li abbiamo intesi per secoli alla lettera? Oppure risulta che dobbiamo ricadere sul Gesù storico?

Cardinale Raztinger: Il problema dell’esegesi storico-critica è naturalmente enorme. Già da più di cento anni scuote la Chiesa, e non solo quella cattolica. Anche per la Chiesa protestante è un grosso problema. È già molto significativo che nel protestantesimo si siano formate le comunità fondamentaliste, che contrastano tali tendenze al dissolvimento e hanno voluto recuperare integralmente la fede attraverso il rifiuto del metodo storico-critico. Il fatto che crescano le comunità fondamentaliste, che abbiano successo mondiale, mentre le mainstream-churches versano in crisi di sopravvivenza, tutto questo ci mostra le dimensioni del problema.

Sotto molti aspetti noi cattolici stiamo meglio. Per i protestanti, che non hanno voluto accettare la corrente esegetica, è rimasto effettivamente solo il ritirarsi sulla canonizzazione della testualità biblica e dichiararla intoccabile. La Chiesa cattolica ha, per così dire, uno spazio più ampio, nel senso che è la stessa Chiesa vivente lo spazio di fede, spazio che pone dei limiti, che però, d’altra parte, permette un’ampia possibilità di variazioni. Una semplice condanna globale dell’esegesi storico-critica sarebbe un errore. Da essa abbiamo imparato incredibilmente molte cose.

La Bibbia risulta più viva, se si tiene conto dell’esegesi con tutti i suoi risultati: la formazione della Bibbia, il suo procedere, la sua interna unità nello sviluppo, eccetera. Dunque: da una parte la moderna esegesi ci ha dato molto, ma essa diventa distruttiva se ci si sottomette semplicemente a tutte le sue ipotesi e si eleva ad unico criterio la sua presunta scientificità.

Si è rivelata poi particolarmente devastante quando, senza adeguata assimilazione, si è voluto accogliere nella catechesi la corrente ipotesi dominante come l’ultima voce della scienza biblica. È stato un grave errore di questi ultimi quindici anni l’aver identificato ogni volta come “scienza” l’ultima esegesi presentata con grande pubblicità e l’aver guardato a tale scienza come a un’autorità assoluta, che sola poteva valere, mentre alla Chiesa non veniva attribuita più alcuna autorità.

Di conseguenza la catechesi e la predicazione del Vangelo sono andate frammentandosi, o si son portate avanti ancora le forme tradizionali ma con scarsa convinzione, sicché ognuno poteva ritenere che si nutrissero dei dubbi in proposito, oppure si sono subito spacciati degli apparenti risultati come sicuri dati scientifici. In realtà, invece, la storia dell’esegesi è al tempo stesso un cimitero di ipotesi, che rappresentano più il corrispondente spirito del tempo che la vera voce della Bibbia. Chi vi costruisce troppo in fretta, avventatamente, e ritiene questo pura scienza, finisce in grande naufragio, in cui trova forse qualche tavola di salvataggio – ma può anche andare presto a fondo.

Dobbiamo arrivare a un quadro ben preciso – questo è un combattimento ora di nuovo in pieno corso: l’esegesi storico-critica è il sostegno dell’interpretazione biblica, che ci permette conoscenze essenziali e come tale va rispettata, ma deve anche essere criticata, poiché proprio i giovani esegeti odierni mostrano quanta incredibile filosofia si nasconda nella loro esegesi.

Ciò che sembra rispecchiare fatti concreti e passa per voce della scienza è in realtà espressione di un determinato concetto del mondo, secondo il quale, ad esempio, non può esserci resurrezione dalla morte oppure Gesù non può avere parlato in tale e tale modo, oppure altre cose. Al giorno d’oggi, proprio fra i giovani esegeti vi è la tendenza a relativizzare l’esegesi storica, la quale mantiene il suo significato ma da parte sua reca in sé dei presupposti filosofici che devono essere criticati.

Questo modo di interpretare il senso della Bibbia, perciò, deve essere integrato mediante altre forme, anzitutto attraverso la continuità dei grandi credenti, che per una via completamente diversa sono giunti fino al vero nucleo interiore della Bibbia, mentre la scienza apparentemente illuminatrice, che ricerca solo fatti concreti, è rimasta molto in superficie e non si è spinta fino alla base interna, sulla quale l’intera Bibbia si muove e si raccoglie.

Dobbiamo di nuovo riconoscere che la fede dei credenti è un modo autentico di vedere e di conoscere e giunge così a una maggiore concordanza. Due cose sono importanti: rimanere scettici nei confronti di tutto ciò che si propone come “scienza” e soprattutto riporre fiducia nella fede della Chiesa, che rimane l’effettiva costante e ci mostra l’autentico Gesù.

Il Gesù che ci offrono i Vangeli è sempre il vero Gesù. Tutte le altre sono costruzioni frammentarie, in cui si rispecchia più lo spirito del tempo che non le origini. Tutto ciò è stato analizzato anche da studi esegetici: quanto spesso le diverse figure di Gesù non sono un dato di scienza, ma piuttosto ciò che un certo individuo o un certo tempo ha ritenuto come risultato scientifico…

Lei ha parlato di giovani esegeti, di teologi che offrono motivo di speranza. Ora il Papa, con la sua Lettera Apostolica dopo l’Anno Santo 2000 “Novo millennio ineunte”, ha presentato una specie di programma riguardo al risveglio della fede con l’inizio del terzo millennio. Come cristiani di lingua tedesca consapevoli del problema siamo noi spesso piuttosto ciechi di fronte a quanto di bello e positivo vi è nella Chiesa, oppure troppo critici verso quanto c’è di nuovo o di cui non si ha conoscenza. Dove vede Lei questi luoghi di ripresa nella chiesa mondiale, dove risulta già visibile questo risveglio della fede, dove possiamo guardare?

Cardinale Ratzinger: Anzitutto vi è una grande differenza fra l’emisfero nord del mondo e quello sud. Certamente non è ideale la situazione della Chiesa nel sud – Africa, Sudamerica, Asia… Vi è tutta una serie di difficoltà e anche gravi problemi, tuttavia s’incontra una primitiva gioia di credere e una vivacità della Chiesa, che va crescendo, invece di diminuire. In essa si distingue bene l’autentico difensore dell’uomo e la presenza di un’istanza dall’alto, del Signore appunto, il solo che, in qualche modo, può difendere dai poteri e dalle violenze che infuriano nella politica. A questo riguardo, dobbiamo per prima cosa tener presente l’accennata divisione del pianeta.

Ma anche nella metà occidentale del mondo vi sono risvegli incoraggianti, sia nelle Chiese locali che nei movimenti spirituali. Non voglio accennare ai singoli movimenti: nelle chiese locali si riscontra in parte una grande riscoperta dell’Eucaristia, dell’adorazione eucaristica, del Sacramento, soprattutto dell’amore verso la madre Chiesa, verso la lettura delle Sacre Scritture, verso una vita secondo il Vangelo, nuove vocazioni religiose e così via. Poi ci sono i movimenti che hanno i loro problemi, ma rappresentano sempre un risveglio spirituale, in cui la gioia di credere emerge sotto diverse colorazioni e intanto devono imparare a incontrarsi e completarsi a vicenda. Vi è molto di vivamente positivo nella fede cristiana. La consapevolezza che quanto ci hanno portato i movimenti del ‘68, il postmoderno e l’Illuminismo non è sufficiente per vivere la troviamo proprio nella giovane generazione; molti, con gioia semplice e sincera, ritornano di nuovo al cuore della fede e alla Chiesa vivente.

Un parere personale: In un prevedibile futuro cattolici e luterani si troveranno insieme all’altare?

Cardinale Ratzinger: Umanamente parlando, direi di no. Un primo motivo è anzitutto la divisione interna delle stesse comunità evangeliche. Pensiamo solo al luteranesimo tedesco, dove s’incontrano persone con una fede profonda, di formazione ecclesiale, ma anche un’ala liberale che, in ultima analisi, considera la fede come una scelta individuale e fa quindi scomparire quasi completamente la comunità ecclesiale.

Ma, anche prescindendo da queste spaccature in ambiente evangelico, sono ancora persistenti delle diversità fondamentali fra le comunità sorte dalla Riforma del sedicesimo secolo e la Chiesa cattolica. Se penso anche solo al foglio ufficiale della Chiesa evangelica in Germania, vi trovo due cose che indicano veramente una profonda lacerazione.

In un punto viene detto che fondamentalmente ogni cristiano battezzato può presiedere l’Eucaristia. Oltre il Battesimo non esiste nella Chiesa evangelica alcun’altra struttura sacramentale. Ciò significa che nell’ufficio episcopale e sacerdotale viene rifiutata la successione derivante dagli Apostoli, che però già nel Vangelo risulta costitutiva per la formazione della Chiesa. In tale contesto viene coinvolta anche la formazione del canone neotestamentario – i “testi” del nuovo Testamento. Il canone non si è certo formato da solo. Ha dovuto essere riconosciuto. Per questo, però, era necessaria un’autorità legittimata a decidere. Questa autorità poté essere solo quella apostolica, che era presente nel magistero della successione. Canone, scrittura e successione apostolica, come magistero episcopale, sono inscindibili.

Il secondo punto del foglio, che mi ha meravigliato, è questo: vengono indicate le parti essenziali nella celebrazione della Santa Cena. Ma non vi è traccia dell’Eucaristia, dell’anaphora, o preghiera di consacrazione, che non fu inventata dalla Chiesa ma deriva direttamente dalla preghiera di Gesù – la grande preghiera di benedizione della tradizione giudaica – e, insieme all’offerta del pane e del vino, rappresenta la fondamentale offerta del Signore. Grazie a questa offerta noi preghiamo nella preghiera e con la preghiera di Gesù, che si compie sulla croce, il sacrificio di Cristo è reso attuale e l’Eucaristia è ben più di una semplice cena. Per questo la visione cattolica sulla Chiesa e l’Eucaristia è chiaramente molto lontana da tutto ciò che vien detto nel dépliant dell’EKD (Evangelischen Kirche in Deutschland).

Dietro poi vi è il problema centrale della “sola scriptura”. Jüngel, docente a Tubinga, lo riassume nella formula “lo stesso canone è la successione apostolica”. Ma da dove lo conosciamo? Chi ce lo spiega? Ognuno per conto suo? Oppure gli esperti? Allora la nostra fede poggia solo su ipotesi che non valgono né per la vita né per la morte. Sela Chiesa non ha nessuna voce, se essa non può dire nulla con autorità sulle ultime interrogazioni della fede, allora non esiste nessuna fede comunitaria.

Allora si potrebbe cancellare la parola “Chiesa”, perché una chiesa che non ci garantisce una fede comune non è nessuna chiesa. Pertanto la questione di fondo sulla Chiesa e sulla Scrittura è ancora presente e non ha ricevuto risposta. Tutto ciò non esclude tuttavia che i veri credenti si possano incontrare in un profondo avvicinamento, come io stesso con compiacenza mi sento riferire.

Fra poco Roma celebrerà il 25.mo giubileo del Papa. Tutti i Cardinali del mondo s’incontreranno insieme: sarà solo per i festeggiamenti, oppure in questa circostanza si vuole anche dare un segno per tutta la Chiesa?

Cardinale Ratzinger: Una festa è in sé qualcosa di bello e d’importante. La festa fa parte dell’esistenza umana. Pertanto questa festa si giustifica da sé ed è anche, al tempo stesso, un segno. Vi sono due momenti principali: la Messa solenne con cui il Papa celebra, il 16 Ottobre, il giorno anniversario della sua elezione, concludendo con un “Te Deum” di ringraziamento, e la beatificazione di Madre Teresa il 19 Ottobre. Essa è una delle figure luminose della fede, in cui veramente si rivela che cosa sia la Chiesa e che cosa questa può dare a noi. Nel frattempo sono programmate sei conferenze di Cardinali sui temi principali del pontificato. Inoltre scambi di idee e colloqui, come anche un concerto organizzato dalla Mitteldeutsche Rundfunk, che farà eseguire la Nona Sinfonia di Beethoven. Infine, senza apparire moraleggianti e senza voler fare cose grandi, vorremmo sottolineare la gioia della festa. Ma quando gli uomini vedranno che la Chiesa ci riunisce insieme, che ci regala una festa e che il Papa, al di là di ogni confine, ci fa dono di una unità, che garantisce l’unità della Chiesa, allora questa festa ci avrà dato anche un segno.

Lei è anche decano del collegio cardinalizio. Nondimeno, ha la speranza di potersi dedicare a un lavoro personale? Se ne avesse tempo, quale urgente questione teologica vorrebbe affrontare per prima, quale titolo potrebbe avere la corrispondente pubblicazione?

Cardinale Ratzinger: Anzitutto devo imparare sempre di più ad affidarmi al Signore, sia che abbia tempo oppure no, perché con gli anni non si torna più indietro. Ma da qualche parte, nelle ore libere che ci sono, anche se raramente, tento di portare avanti qualcosa, a poco a poco. Nel mese di agosto ho cominciato a scrivere un libro su Gesù. Ne avrò sicuramente per due, tre anni, per come sembrano andare le cose. Vorrei con ciò dimostrare come dalla Bibbia ci venga incontro una figura vivente e in sé armoniosa e come il Gesù della Bibbia sia anche un Gesù sempre presente in mezzo a noi.

3/ Card. Ratzinger: "Escludere la religione dalla sfera pubblica è mutilare l'essere umano"

Riprendiamo sul nostro sito la traduzione italiana di un’intervista rilasciata nel 2001 dall’allora cardinale J. Ratzinger a Figaro Magazine. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (22/6/2014)

Da venti anni, al Vaticano, è il guardiano del dogma. Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger è uno dei primi personaggi della gerarchia cattolica. Ma se è il vicino collaboratore di Giovanni Paolo II, è anche perché l'amicizia e una profonda complicità intellettuale uniscono i due uomini. Quando questo teologo prende la parola, definisce secondo verità gli orientamenti della Chiesa. In occasione della pubblicazione in francese del suo ultimo libro ha concesso al "Figaro Magazine" una intervista esclusiva. Intervista rilasciata a Jean Sévilla 17.11.2001.

Figaro Magazine - Voi, tempo fa, avete scritto che "la fede non è scomparsa , ma ha emigrato nell'ambito del soggettivo." Per la Chiesa, quali sono le conseguenze del relativismo contemporaneo?

Joseph Ratzinger - Dall'epoca dell'Illuminismo, la fede non è più la visione comune del mondo così com'era, invece, nel Medio Evo. La scienza ha istituito una nuova percezione della realtà: si considera come oggettivamente fondato quello che può essere dimostrato come in un laboratorio. Tutto il resto - Dio, la morale, la vita eterna - è trasferito nel nell'ambito del soggettivo. Pensare che c'è una verità accessibile a tutti nell'ambito della religione implicherebbe anche una certa intolleranza. Il relativismo diventa la virtù della democrazia.

Per la Chiesa, la fede cristiana ha, quindi, un contenuto oggettivo ?

Certo, e in questo contesto intellettuale è tutta la nostra difficoltà per annunciare il Vangelo. Ma possiamo mostrare i limiti del soggettivismo: se noi accettiamo totalmente il relativismo, nella religione ma anche nelle questioni morali, ciò ha come esito la distruzione della società. Con sempre maggiore razionalismo, la ragione si distrugge da sé stessa, istituendo l'anarchia: quando ciascuno costituisce un' isola incomunicabile, sono le regole del vivere insieme che spariscono.

Se sono le maggioranze che definiscono le regole morali, una maggioranza può stabilire domani delle regole contrarie alle regole di ieri. Abbiamo avuto anche l'esperienza del totalitarismo, per il quale il potere fissava autoritariamente le regole morali. Così pure il relativismo morale sfocia nell'anarchia o nel totalitarismo.

La Chiesa si considera sempre missionaria?

Sì, direi di nuovo come missionaria. Oggi, il termine missione non è sempre ben compreso, perché si pensa alla distruzione delle culture antiche da parte degli Occidentali. La realtà storica è tuttavia differente: noi sappiamo che i missionari cristiani - in Africa, in Asia ma anche in America Latina - erano spesso i veri difensori della dignità umana. Questi missionari hanno salvato una parte delle culture antiche trascrivendo le lingue indigene, redigendo dei dizionari dei dizionari e delle grammatiche. Essi sono stati di aiuto a questa grande rivoluzione che è stato l'incontro dell'Europa e di questi popoli, integrando le tradizioni che convergevano con la fede cristiana. Certi problemi dell'Africa, attualmente, risultano dal fatto che, con il razionalismo occidentale, si sono distrutte le antiche forze morali senza offrire altre cose. Come abbiamo portato la tecnica, restano le armi, e la guerra di tutti contro tutti, In definitiva, è la missione cristiana che può difendere l'edificazione di società moderne, legate alle loro proprie radici.

La Chiesa dichiara di rifiutare l'intolleranza. Ma non è anch'essa vittima dell'intolleranza?

Certamente. Vi sono state da una parte le filosofie totalitarie, anche se il marxismo è ora in crisi. Dall'altra parte, il razionalismo agnostico non è così pacifico come sembra. Certi considerano la Chiesa come l'ultimo bastione dell'intolleranza, ma per combattere questa intolleranza diventano intolleranti. E questa intolleranza può giungere fino alla violenza.

Nelle polemiche contro la Chiesa, le questioni relative alla sessualità e al libero arbitrio morale si ripropongono molto spesso. Perché questa incomprensione tra il mondo moderno e la Chiesa?

Ci riferiamo qui alla visione individualista dell'uomo. La nostra epoca glorifica il corpo e i suoi piaceri, esalta la libertà sessuale, ma prende in considerazione ciò che si rileva dalla biologia più che dalla psicologia. Si opera una sottile separazione tra il biologico, il corporale - che sfuggirebbero dalla responsabilità spirituale perché sono dell'ordine della natura - e l'essere umano in quanto tale. A partire dal momento ove si considera la sessualità come un fenomeno puramente biologico, una morale sessuale non ha più senso.

La cultura contemporanea è quella della libertà assoluta, attraverso la quale l'uomo si deve "realizzare". Non esiste dunque una natura umana che definisca il bene e il male. Questa visione si oppone alla tradizione della Chiesa, ma anche a tutte le concezioni per le quali è inscritta nella nostra natura una certa linea di comportamento, il senso stesso del nostro essere.

La Chiesa parla di diritto naturale, di morale naturale. Viceversa, se non siamo che prodotti dell'evoluzione, noi siamo liberi di definirci. Vi è allora, come diceva Sarte, una libertà nel senso che "io non sono definito": nella mia situazione, io devo inventare che cos'è l'uomo. Invece, nella visione cristiana, l'esistenza dell'uomo - maschio e femmina - porta una idea del Creatore, un Creatore che ha un progetto con il mondo, che esprime delle idee incarnate nella realtà del mondo. E la relazione di fedeltà dell'uomo e della donna rivela un destinazione dell'uno e all'altro, in una profonda unità di corpo e di spirito, e dove si legano le generazioni future. L'elevazione dei riflessi fisici al rango di realtà vissute nel rispetto della persona è il cammino difficile, ma grande e bello, della morale cristiana sulla sessualità.

La carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, approvata lo scorso anno, ha rifiutato di fare riferimento all' "eredità religiosa" dell'Europa. Cosa ne pensa di questa interpretazione della laicità?

Dobbiamo definire bene la laicità. Per me, esiste una nozione positiva di laicità nel senso che, fenomeno nuovo nella storia, il cristianesimo ha creato la differenza riconoscendo la distinzione tra religione e Stato. Questa distinzione tra l'ambito di Dio e quello di Cesare è la sorgente del concetto di libertà che si sviluppa in Europa, in Occidente. Essa implica che la religione dona all'uomo una visione per tutta la sua vita, non solamente per la vita spirituale. Ma l'istituzione religiosa non è totalitaria: essa è limitata dallo Stato. E lo Stato non può prendere tutto in mano: è limitato dalla libertà della religione. Lo Stato non è tutto, e la Chiesa in questo mondo non è tutto. Presa in questo senso, la laicità è profondamente cristiana. L'ostilità dei nazisti al cristianesimo, soprattutto al cattolicesimo, era fondata su questa idea che lo Stato è tutto.

Ma se la laicità vuole significare che nella vita pubblica non c'è posto per Dio, questo è un grande errore. Le istituzioni politiche e le istituzioni religiose possono loro sfere proprie. Tuttavia i valori fondamentali della fede devono manifestarsi pubblicamente, non per la forza istituzionale della Chiesa ma per la forza della loro verità interiore. Se la laicità vuole escludere la religione, è una mutilazione dell'essere umano.

Il confronto tra il mondo occidentale e il mondo musulmano è uno scontro di civiltà ?

L'islam non esiste come un blocco. Non c'è un magistero dell'islam, né delle costituzioni centralizzate dell'islam. Il Corano fornisce certo un riferimento comune al mondo islamico. Ma da luogo a interpretazioni differenti, e l'islam si incarna in contesti culturali diversi, dall'Indonesia all'India, dal Medio - Oriente all'Africa. Quindi il mondo islamico non è un blocco e non cancella i caratteri nazionali: ci sono dei paesi a maggioranza islamica che sono molto tolleranti e altri che escludono più o meno il cristianesimo.

Oggi, l'islam è molto presente in Europa. E sembra che si manifesti un certo disprezzo presso coloro che sostengono che l'Occidente ha perso la sua coscienza morale. Per esempio, se il matrimonio e l'omosessualità sono considerati come equivalenti, se l'ateismo si trasforma in diritto alla bestemmia, notoriamente nell'arte, questi fatti sono orribili per i musulmani. Perciò, c'è l'impressione diffusa nel mondo islamico, che il cristianesimo è morente, che l'Occidente è decadente. E il sentimento che solo l'islam porta la luce della fede e della moralità. Una parte dei musulmani vede in questo caso una opposizione fondamentale tra il mondo occidentale, e il suo relativismo morale e religioso, e il mondo islamico.

Parlare di un confronto di culture, è in certi casi vero: nel disprezzo verso l'Occidente troviamo le conseguenze del passato durante il quale l'islam ha subito il dominio dei paesi europei. Ci si può allora imbattere in un fanatismo terribile. È una delle facce dell'islam, non è tutto l'islam. Esistono anche dei musulmani che desiderano un dialogo pacifico con i cristiani. Di conseguenza, è importante giudicare i differenti aspetti di una situazione che è preoccupante per tutte le parti in questione.

[...]

Il mondo moderno vive nel culto del progresso e della ragione. Dopo due guerre mondiali, i gulag, Auschwitz, il terrorismo, le nozioni di progresso e di ragione hanno un senso?

Per quanto riguarda il concetto di progresso, sono sempre stato scettico. C'è naturalmente un progresso nel numero delle nostre conoscenze, nella scienza e nella tecnica. Ma, questo progresso non conduce necessariamente a un progresso nei valori morali, né nella nostra capacità a fare buon uso del potere conferito da questa conoscenza. Al contrario: il potere può essere un fattore di distruzione. Sono sempre stato contrario allo spirito dell'utopia, al credere in una società perfetta: concepire una società una volta per tutte perfetta, è escludere la libertà di ogni giorno. Tanto è vero che la morale e la ragione sono fragili, una società può sempre autodistruggersi. Ciò che bisogna sperare è nella presenza sufficiente di forze morali capaci di resistere al male.

Vendita degli organi, manipolazione genetica, clonazione: bisogna porre dei limiti alla ricerca medica e scientifica?

Per l'uomo moderno, l'idea di mettere dei limiti alla ricerca costituisce una bestemmia. Tuttavia esiste un limite interiore ed è la dignità dell'uomo. Dei progressi pagati al prezzo della violazione della dignità umana è inaccettabile. Se la ricerca attacca l'uomo è una deviazione della scienza. Anche se si pretende che l'una o l'altra ricerca apra delle possibilità per l'avvenire, bisogna dire no quando l'uomo è in gioco. Il paragone è un po' forte, ma ricordo che, un tempo, alcuni hanno proceduto a degli esperimenti medici con delle persone che essi dichiaravano inferiori. Dove condurrà la logica che consiste nel trattare un feto o un embrione come una cosa?

Che cosa si aspetta la Chiesa dalla gioventù?

Che la gioventù non abbia in lei i pregiudizi delle generazioni del '68, che hanno alienato numerose persone - e anche membri della Chiesa - dalla fede. Ci aspettiamo che la gioventù riparta con una nuova vitalità, una apertura per scoprire in Cristo un Dio che è verità e amore.

Quali saranno le grandi caratteristiche del prossimo pontificato?

Non sta a me stabilire il suo programma! E poi il mondo cambia rapidamente: quello che ci appariva imperativo ieri non riveste oggi la stessa importanza.

Mi sembra che i problemi più urgenti, per la Chiesa, risultino da ciò che abbiamo appena evocato. Come rispondere alla questione posta da parte di un mondo occidentale che dubita di se stesso, che non riconosce più un fondamento razionale in una fede comune, un mondo che è dunque lasciato al soggettivismo e al relativismo?

E poi c'è l'islam e anche il buddismo, le due grandi sfide per il mondo occidentale: trovare il dialogo con loro, trovare la possibilità di comprendersi senza perdere la grande luce che ci venuta nella figura di Gesù Cristo.

4/ Card. Ratzinger: Per me bontà implica anche la capacità di dire “no”

Riprendiamo sul nostro sito un’intervista all’allora cardinale J. Ratzinger condotta da Antonella Palermo per la Radio Vaticana, del 25/10/2001. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (22/6/2014)

R. – E’ impossibile un autoritratto; ed è difficile giudicare se stessi. Io posso soltanto dire che vengo da una famiglia molto semplice, molto umile, e perciò non mi sento tanto cardinale, mi sento un uomo semplice. In Germania vivo in un piccolo paese con persone che lavorano nell’agricoltura, nell’artigianato e lì mi sento nel mio ambiente. Nello stesso tempo cerco di essere così anche nel mio ufficio, se riesco: non oso io giudicare.

Io ricordo sempre con grande affetto la profonda bontà di mio padre e di mia madre e naturalmente per me bontà implica anche la capacità di dire “no”, perché una bontà che lascia correre tutto non fa bene all’altro, qualche volta la forma della bontà può essere anche dire “no” e rischiare così anche la contraddizione.

Ma anche questo deve essere realmente nutrito non da senso di potere, di rivendicazione, ma deve provenire da un’ultima bontà, dal desiderio di fare bene all’altro. Questi sono i miei criteri, questa la mia origine, altro dovrebbero dire altri.

D. – Lei ha paura di Dio?

R. – Non ho paura di Dio perché Dio è buono. Naturalmente sono consapevole della mia debolezza, dei miei peccati. In questo senso c’è un timore di Dio che è altra cosa dalla paura intesa nel senso umano. Sant’Ilario ha detto: “Tutta la nostra paura è nell’amore”.
Quindi l’amore implica non paura ma, diciamo, la preoccupazione di non contrastare il dono dell’amore, di non far nulla che potrebbe distruggere l’amore
. In questo senso, c’è qualcosa d’altro, che non è paura: è riverenza, tanta, in modo che ci si sente obbligati realmente a rispondere bene a questo amore e di non far nulla che potrebbe distruggerlo.

D. – Tanti anni nella Congregazione per la Dottrina della Fede, a stretto contatto con Giovanni Paolo II: i suoi ricordi più forti …

R. – I ricordi più forti sono legati agli incontri col Papa nei grandi viaggi; poi al grande dramma della teologia della liberazione, dove abbiamo cercato la strada giusta; e poi tutto l’impegno ecumenico del Santo Padre, questa ricerca di una grande apertura della Chiesa nella quale allo stesso tempo non perda la sua identità. Gli incontri normali con il Papa sono forse l’esperienza più bella perché qui si parla cuore a cuore e vediamo la comune intenzione di servire il Signore, e vediamo come il Signore ci aiuta anche a trovare compagnia nel nostro cammino: perché niente va fatto solo da me, ecco questo è molto importante, non prendere solo decisioni personali ma in una grande collaborazione. Questo sempre in un cammino di comunione con il Papa che ha una grande visione del futuro. Lui mi conferma e mi guida nella mia strada.

D. – Ma come è il Papa, qualche aggettivo da parte sua che potesse rendercelo anche più familiare…

R. – Il Papa è soprattutto molto buono. E’ un uomo che ha un cuore aperto, anche un uomo scherzoso con il quale si può parlare allegramente e in modo disteso. Non siamo sempre sulle grandi nuvole, siamo in questa vita… Questa bontà personale del Papa mi convince sempre di nuovo, non dimenticando la sua grande cultura, la sua normalità e il fatto che sta con tutti e due i piedi sulla terra.

D. – Lei afferma che la Chiesa “non ha ancora effettuato il balzo nel presente”: cosa intende?

R. – C’è ancora un grande lavoro di traduzione da fare dei grandi doni della fede nel linguaggio di oggi, nel pensiero di oggi. Le grandi verità sono le stesse: il peccato originale, la creazione, la redenzione, la vita eterna… ma molte di queste cose si esprimono ancora con un pensiero che non è più il nostro e bisogna farle arrivare nel pensiero del nostro tempo e renderle accessibili per l’uomo perché veda davvero la logica della fede. E’ un lavoro ancora da fare.

D. – Cosa dice oggi alle nuove generazioni?

R. – Che devono aver fiducia, che la Chiesa è sempre giovane ed il futuro sempre appartiene alla Chiesa. Tutti gli altri regimi che sembravano molto più forti sono caduti, non esistono più, sopravvive la Chiesa; sempre una nuova nascita appartiene alle generazioni. Fiducia, questa è realmente la nave che conduce al porto. 

5/ Oggi è l'Occidente a opporsi al cristianesimo

Riprendiamo sul nostro sito solo alcuni passaggi di un’intervista rilasciata dall’allora cardinale J. Ratzinger ad Antonio Socci nella trasmissione Excalibur e pubblicata poi su Il Giornale, 20/6/2003. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

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In diverse religioni si riconosce la straordinarietà della figura di Gesù. Sembra non sia necessario essere cristiani per venerarlo. Dunque non c'è bisogno della Chiesa?

Già nel Vangelo troviamo due posizioni possibili in riferimento a Cristo. Il Signore stesso distingue: che cosa dice la gente e che cosa dite voi. Chiede cosa dicono quelli che Lo conoscono di seconda mano, o in modo storico, letterario, e poi cosa dicono quelli che Lo conoscono da vicino e sono entrati realmente in un incontro vero, hanno esperienza della Sua vera identità. Questa distinzione rimane presente in tutta la storia: c'è una impressione da fuori che ha elementi di verità. Nel Vangelo si vede che alcuni dicono: "è un profeta". Così come oggi si dice che Gesù è una grossa personalità religiosa o che va annoverato fra gli avataras (le molteplici manifestazioni del divino). Ma quelli che sono entrati in comunione con Gesù riconoscono che è un'altra realtà, è Dio presente in un uomo.

Non è confrontabile con le altre grandi personalità delle religioni?

Sono molto diverse l'una dall'altra. Buddha in sostanza dice: "dimenticatemi, andate solo sulla strada che ho mostrato". Maometto afferma: "Il signore Dio mi ha dato queste parole che verbalmente vi trasmetto nel Corano". E così via. Ma Gesù non rientra in questa categoria di personalità già visibilmente e storicamente diverse. Ancora meno è uno degli avataras, nel senso dei miti della religione induista.

Perché?

È una realtà del tutto diversa. Appartiene ad una storia, che comincia da Abramo, nella quale Dio mostra il suo volto, Dio si rivela come una persona che sa parlare e rispondere, entra nella storia. E questo volto di Dio, di un Dio che è persona e agisce nella storia, trova il suo compimento in quell'istante nel quale Dio stesso, facendosi uomo Lui stesso, entra nel tempo. Quindi, anche storicamente, non si può assimilare Gesù Cristo alle varie personalità religiose o alle visioni mitologiche orientali.

Per la mentalità comune questa "pretesa" della Chiesa - che proclama "Cristo, unica salvezza" - è arroganza dottrinale.

Posso capire i motivi di questa moderna visione la quale si oppone all'unicità di Cristo e comprendo anche una certa modestia di alcuni cattolici per i quali "noi non possiamo dire che abbiamo una cosa migliore che gli altri". Inoltre c'è anche la ferita del colonialismo, periodo durante il quale alcuni poteri europei hanno strumentalizzato il cristianesimo in funzione del loro potere mondiale. Queste ferite sono rimaste nella coscienza cristiana, ma non devono impedirci di vedere l'essenziale.

Perché l'abuso del passato non deve impedire la comprensione retta. Il colonialismo - e il cristianesimo come strumento del potere - è un abuso. Ma il fatto che se ne sia abusato non deve rendere i nostri occhi chiusi di fronte alla realtà dell'unicità di Cristo. Soprattutto dobbiamo riconoscere che il Cristianesimo non è un'invenzione nostra europea, non è un prodotto nostro. E' sempre una sfida che viene da fuori dell'Europa: all'origine venne dall'Asia, come sappiamo bene. E si trovò subito in contrasto con la sensibilità dominante. Anche se poi l'Europa è stata cristianizzata è rimasta sempre questa lotta tra le proprie pretese particolari, fra le tendenze europee, e la novità sempre nuova della Parola di Dio che si oppone a questi esclusivismi e apre alla vera universalità. In questo senso, mi sembra dobbiamo riscoprire che il cristianesimo non è una proprietà europea.

Il cristianesimo contrasta anche oggi la tendenza alla chiusura che c'è in Europa?

Il cristianesimo è sempre qualcosa che viene realmente da fuori, da un avvenimento divino che ci trasforma e contesta anche le nostre pretese e i nostri valori. Il Signore cambia sempre le nostre pretese e apre i nostri cuori per la Sua universalità. Mi sembra molto significativo che al momento l'Occidente europeo sia la parte del mondo più opposta al cristianesimo, proprio perché lo spirito europeo si è autonomizzato e non vuole accettare che ci sia una Parola divina che gli mostra una strada che non è sempre comoda.

[…]

Perché, secondo lei, un uomo del 2003 ha bisogno di Cristo?

E' facile accorgersi che le cose rese disponibili solo da un mondo materiale o anche intellettuale, non rispondono al bisogno più profondo, più radicale che esiste in ogni uomo: perché l'uomo ha il desiderio - come dicono già i Padri - dell'infinito. Mi sembra che proprio il nostro tempo con le sue contraddizioni, le sue disperazioni, il suo massiccio rifugiarsi in scorciatoie come la droga, manifesti visibilmente questa sete dell'infinito e solo un amore infinito che tuttavia entra nella finitudine, e diventa addirittura un uomo come me, è la risposta.

E' certo un paradosso che Dio, l'immenso, sia entrato nel mondo finito come una persona umana. Ma è proprio la risposta della quale abbiamo bisogno: una risposta infinita che tuttavia si rende accettabile e accessibile, per me, "finendosi" in una persona umana che tuttavia è l'infinito. È la risposta della quale si ha bisogno: si dovrebbe quasi inventare se non esistesse.

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6/ Le insidie che incontra la Fede

Riprendiamo sul nostro sito solo alcuni passaggi di un’intervista rilasciata dall’allora cardinale J. Ratzinger a Augusto Cinelli, per “La Provincia” e "Avvenire Lazio/Sette", e pubblicata il 17/4/2004 con il titolo "Quanto siamo più vicini a Cristo, quanto più siamo vicini all'amore di Dio e capaci di essere pacificatori nella Terra". Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

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D: In questi momenti così tristi, per le vicende internazionali, il Santo Padre nel messaggio "Urbi et Orbi" pasquale ha invitato le religioni ad essere unite contro il terrorismo. Lei Eminenza come vede questo dialogo interreligioso ed in particolare con l'Islam?

R: "La nostra posizione è contro il relativismo, come se tutto fosse uguale. Dall'altra parte implica il rispetto per l'altro e il comune impegno per la pace. Questo è importante, Dio non può dividere. Dio non può legittimare l'opposizione e l'odio. Dio è il Creatore di tutti e seppur con le differenze delle religioni, tutti dobbiamo rispettare Dio, nel senso di comune impegno e responsabilità per la dignità umana, per il rispetto della vita, e per l'impegno contro la violenza e l'odio. Il dialogo interreligioso ha soprattutto questo scopo: favorire il rispetto reciproco, una maggiore conoscenza di Dio per capire. Il Dio vero non può essere la realtà che ci separa. Il Dio vero non può essere promotore di odio, il Dio vero deve essere di pace. Siamo nella strada verso Dio soltanto se ci impegniamo per la pace, per il rispetto reciproco."

[…]

7/ "Il vero miracolo? La fede che c'è nel mondo"

Riprendiamo sul nostro sito solo alcuni passaggi di un’intervista rilasciata dall’allora cardinale J. Ratzinger al vaticanista Giuseppe De Carli il 25/10/2004 e contenuta nel volume di Giuseppe De Carli, Eminenza, mi permette? La Chiesa e il mondo raccontati dai cardinali di Papa Wojtyla (edizioni Rai-Eri e Piemme, 2004. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (22/6/2014)

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Lei accennava al coinvolgimento dei laici. Mi chiedo, leggendo tanti documenti della Chiesa, dove è andata a finire la categoria di «popolo di Dio».

Forse era male interpretata. Nell’Antico Testamento era il popolo d’Israele, da Cristo in avanti il nuovo popolo è quello dei suoi seguaci. Non è un concetto che di per sé indica una teologia del laicato. Al popolo di Dio, grazie a Dio, appartengono anche vescovi e sacerdoti. La teologia del laicato deve essere ripensata in modo molto realistico.

In che senso?

Nel senso di non clericalizzare i laici. Si pensa che solo i cristiani che gestiscono le cose della Chiesa sono cristiani al 100%. Il problema è invece di come il cristiano può cooperare perché il Vangelo sia lievito del mondo.

Lei, cardinale Ratzinger, ha fatto molto soffrire gli appartenenti alle altre confessioni cristiane non cattoliche durante il Giubileo. La dichiarazione Dominus Iesus è stata giudicata un documento fondamentalista che ha rischiato di tagliare le gambe a ogni dialogo ecumenico. Lo riscriverebbe ancora, oggi?

Sì, certamente. Etichettare un documento come «fondamentalista» è un modo per sottrarsi al dialogo. È una etichetta che non accetto, perché non è giusta. Moltissimi, quasi tutti i protestanti, ci sono stati grati specie per la prima parte del documento, laddove c’è una confessione franca, umile e aperta che Cristo è Figlio di Dio, dunque è diverso da tutte le grandi personalità della storia delle religioni. Ci erano grati perché solola Chiesacattolica aveva la possibilità di parlare al mondo, con questa voce, su Cristo.

Il secondo punto, naturalmente, ha presentato delle difficoltà per i protestanti. Vede, la Chiesa non è solo un sogno per domani, è una realtà per l’oggi, ed è bene che una Chiesa pensi di custodire la Persona che l’ha generata.

E ciò nonostante le nostre insufficienze, le separazioni. Tanti vescovi che vengono dai Paesi dove i cattolici sono minoranze ci ringraziano per il coraggio col quale abbiamo affermato la nostra identità. È a partire da una identità ben definita che si può discutere.

Le religioni sono tutte uguali per raggiungere la salvezza, sono tutte complementari alla Rivelazione? Mi dica sì o no.

Il termine complementare non mi piace. Mi meraviglia sempre che anche persone che non si interessano alla salvezza eterna formulino la teoria della convergenza di tutte le religioni

Una religione vale l’altra?

No, no. Non sono identiche. Con tale fraseologia ci si risparmia dall’impegno di conoscere realmente le religioni. Molti ci invitano a non essere conservatori, tradizionalisti o conformisti e, nel contempo, esaltano il valore della tradizione, dunque la conservazione. Questo è un procedere contraddittorio. Tutti dobbiamo cercare, con le nostre coscienze, quanto è meglio per la salvezza dell’uomo. 

Tempo fa ha dichiarato: «Ciò che mi stupisce non è l’incredulità ma la fede. Ciò che mi sorprende non è l’ateo, è il cristiano». Ne è sempre convinto?

Non ho cambiato idea. Il mondo ci consiglia l’agnosticismo. Siamo portati a pensare che siamo troppo piccoli, che la nostra ragione è troppo fragile per poter credere in Dio. Eppure, in un mondo così frammentato e oscuro, milioni di persone continuano a credere. Questo è un miracolo. È il segno che Dio opera in mezzo a noi.

La Chiesa deve insegnare l’arte di vivere bene, l’arte della felicità. «Voi siete il popolo delle beatitudini» ha esclamato il Papa davanti ai giovani riuniti a Toronto. La Chiesa soddisfa però questa sete di felicità, questa sete di infinito che alberga nel cuore dell’uomo?

Non sempre, non sempre in modo sufficiente. Rimane però una fonte. Se uno le si avvicina, accettando anche gli aspetti umani più deboli, può trovare la luce dell’eternità e i segni della felicità.

[…]

Quando Cristo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?

Qui il Signore parla in forma interrogativa, altri testi della Scrittura, invece, ci dicono che Gesù troverà la fede, troverà la sua Chiesa. La redimerà e redimerà il mondo.

8/ Il Signore sceglie la nostra povertà. Ratzinger racconta la sua nomina ad arcivescovo di Monaco e i due conclavi del 1978

Riprendiamo sul nostro sito l’intervista rilasciata dall’allora cardinale J. Ratzinger Gianni Cardinale, per la rivista 30 giorni, 2003. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (22/6/2014)

Quella del 1978 non fu un’estate qualsiasi perla Chiesacattolica. Nel giro di poche settimane i cardinali si ritrovarono per due volte riuniti in conclave per eleggere il successore di Pietro. Il 6 agosto, infatti, dopo quindici anni di pontificato, venne meno Paolo VI, che avrebbe compiuto 81 anni il successivo 26 settembre. Il 26 agosto, dopo un rapidissimo conclave – due giorni e quattro votazioni –, venne eletto papa il patriarca di Venezia Albino Luciani, che prese il nome di Giovanni Paolo I. Avrebbe compiuto 66 anni il 17 ottobre. Ma non festeggiò quel compleanno. Il suo pontificato durò appena trentatré giorni. All’alba del 28 settembre il nuovo Pontefice venne trovato esanime nella sua camera da letto. Il Sacro Collegio quindi si riunì di nuovo per il conclave che il 16 ottobre – dopo otto votazioni in tre giorni – vide l’elezione dell’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla, 58 anni, che col nome di Giovanni Paolo II divenne il primo Papa polacco della storia, il primo non italiano dopo 456 anni.

Per ricordare, venticinque anni dopo, i drammatici avvenimenti di quell’estate, 30Giorni ha chiesto la testimonianza del cardinale Joseph Ratzinger, 76 anni, indubbiamente il più conosciuto tra i ventuno porporati dell’attuale Sacro Collegio che parteciparono ai due conclavi del 1978. Con il porporato bavarese abbiamo anche parlato dei suoi colloqui e dei suoi incontri con papa Montini e con Luciani tra il 1977 e il 1978.

Il cardinale Joseph Ratzinger non ha bisogno di molte presentazioni. Teologo famoso fin dall’epoca del Concilio Vaticano II, nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e creato cardinale nel 1977 da Paolo VI, è attualmente l’unico porporato europeo creato da papa Montini che siederebbe in un eventuale conclave. Convocato a Roma da papa Wojtyla nel 1981, presiede da allora la Congregazioneper la dottrina della fede, la Pontificia Commissionebiblica e la Commissioneteologica internazionale. Attualmente è il più longevo tra i capidicastero della Curia romana. Eletto vicedecano del Sacro Collegio nel novembre ’98, alla fine dello scorso anno è stato eletto decano.

Eminenza, il 24 marzo 1977 Paolo VI la nominò arcivescovo di Monaco, tre mesi dopo la creò cardinale…

JOSEPH RATZINGER: Due o tre giorni dopo la mia consacrazione episcopale del 28 maggio venni informato della mia nomina a cardinale, che quindi coincideva quasi con l’ordinazione sacramentale. Fu per me una grande sorpresa. Non so ancora darmi una spiegazione di tutto questo. So comunque che Paolo VI teneva presente il mio lavoro come teologo. Tanto che alcuni anni prima, forse nel 1975, mi aveva invitato a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano. Ma non mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio italiano né del mio francese per preparare e osare una tale avventura, e così avevo detto di no. Ma questa era una prova che il Papa mi conosceva. Forse una qualche parte in questa storia potrebbe averla avuta monsignor Karl Rauber, oggi nunzio in Belgio, allora stretto collaboratore del sostituto Giovanni Benelli. Comunque, sta di fatto, mi hanno detto, che di fronte alla terna per la nomina a Monaco e Frisinga, il Papa avrebbe personalmente scelto la mia povertà.

Quello del 27 giugno 1977 fu un “miniconcistoro” con soli cinque neocardinali…

RATZINGER: Sì, eravamo un piccolo gruppo, interessante e simpatico. C’era Bernardin Gantin, l’unico ancora in vita oltre il sottoscritto. E poi Mario Luigi Ciappi, il teologo della Casa pontificia, Benelli naturalmente, e Frantisek Tomasek che era stato nominato in pectore già l’anno prima e che ricevette la porpora insieme a noi.

Si racconta che fu Benelli, il quale era stato nominato arcivescovo di Firenze il 3 giugno, a “scegliere” i nomi di quel “miniconcistoro”…

RATZINGER: Può darsi. Non ho mai avuto voglia, né ho voglia ora di esplorare queste cose. Rispetto la Provvidenza; quali fossero gli strumenti della Provvidenza non mi interessa.

Cosa ricorda di quella cerimonia?

RATZINGER: Alla consegna del berretto nell’Aula Paolo VI io ho avuto un grande vantaggio rispetto agli altri quattro neocardinali. Nessuno di loro aveva con sé una grande famiglia. Benelli aveva lavorato per lungo tempo in Curia, e a Firenze non era molto conosciuto, quindi non erano tanti i fedeli provenienti dal capoluogo toscano; Tomasek – c’era ancora la cortina di ferro – non poteva avere accompagnatori; Ciappi era un teologo che aveva lavorato sempre, per così dire, nella sua isola; Gantin è del Benin e dall’Africa non è agevole venire a Roma. Io invece ho avuto tanta gente: l’aula era quasi piena di persone che venivano da Monaco e dalla Baviera.

Fece un figurone…

RATZINGER: In un certo senso sì. Gli applausi per me furono maggiori che per gli altri. Si vedeva che Monaco era presente. E il Papa fu visibilmente compiaciuto di vedere in qualche modo confermata la sua scelta.

In quell’occasione ebbe modo di avere un colloquio personale col Papa?

RATZINGER: Dopo la liturgia, nella quale il Papa ci aveva consegnato l’anello, mi fu detto che Paolo VI desiderava parlarmi in udienza privata. Io ero stato per tanti anni un semplice professore, molto lontano dai vertici della gerarchia, e non sapevo come comportarmi, mi sentivo un po’ a disagio in quel contesto. Non osavo parlare con il Papa perché mi sentivo ancora troppo semplice, ma lui fu molto buono e mi incoraggiò. Si trattò di un colloquio senza intenzioni specifiche, voleva conoscermi da vicino, dopo che forse Benelli gli aveva parlato di me.

Cosa ricorda dell’ultimo anno del pontificato di Paolo VI?

RATZINGER: In quel periodo, insieme agli altri vescovi della Baviera, venni a Roma per la visita ad limina. E in quella occasione ci fu un bell’incontro col Papa. Paolo VI cominciò a parlare in tedesco, lo faceva abbastanza bene, ma poi preferì passare all’italiano con cui era più facile comunicare. Parlò col cuore della sua vita e del suo primo incontro con la nostra terra. Ricordò che quando era stato a Monaco, da giovane sacerdote, si era trovato un po’ disorientato e aveva trovato tante persone che lo avevano aiutato. Fu un colloquio personale, senza grandi discorsi: si vedeva che il suo cuore si era aperto e voleva semplicemente condividere alcuni momenti con alcuni suoi confratelli nell’episcopato. Si trattò di un incontro molto simpatico.

Venne a Roma altre volte con Paolo VI papa?

RATZINGER: Sì, per il suo ottantesimo compleanno [il 26 settembre 1977, ndr]. Il 16 ottobre celebrò una messa solenne a San Pietro. In quella occasione mi ha impressionato per come ha citato il verso della Divina Commedia in cui Dante parla di «quella Roma onde Cristo è romano» [Purgatorio, XXXII, 102, ndr]. Paolo VI era considerato un po’ un intellettuale che aveva difficoltà ad essere caldo con gli altri. In quel momento aveva manifestato un calore inaspettato proprio per Roma. Io non conoscevo o non mi ricordavo di queste parole di Dante. Mi impressionarono molto. Con queste parole Paolo VI voleva esprimere il suo amore per Roma che è divenuta la città del Signore, il centro della Sua Chiesa.

Come seppe della scomparsa di papa Montini?

RATZINGER: Ero andato in vacanza in Austria. Venni informato la mattina stessa del 6 agosto che il Santo Padre si era sentito improvvisamente male. Chiamai il vicario generale di Monaco per dirgli di invitare subito tutta la diocesi a pregare per il Papa. Poi feci una piccola gita e quando tornai mi telefonarono per dirmi che il Papa si era aggravato e poco dopo mi chiamarono di nuovo per comunicarmi che era morto. Allora decisi che la mattina successiva sarei tornato a Monaco, e quella sera stessa venne la tv per intervistarmi. Dopo aver scritto una lettera alla diocesi partii per Roma.

Dove assistette ai funerali del Papa.

RATZINGER: Mi colpì l’assoluta semplicità della bara con il Vangelo posato sopra. Questa povertà, che il Papa aveva voluto, mi aveva quasi scioccato. Mi impressionò anche la messa funebre celebrata dal cardinale Carlo Confalonieri, che, essendo ultraottantenne, non avrebbe partecipato al conclave: fece un’omelia molto bella. Come fu bella quella pronunciata in un’altra messa dal cardinale Pericle Felici, che sottolineò come durante il funerale le pagine del Vangelo posto sopra la bara
del Papa fossero state sfogliate dal vento
. Ritornai poi a Monaco per celebrare una messa in suffragio: il Duomo era molto affollato. Quindi tornai a Roma per il conclave.

Lei era un cardinale “novello”…

RATZINGER: Ero tra i più giovani ma, siccome ero vescovo diocesano, appartenevo all’ordine dei presbiteri e quindi, nel protocollo, venivo prima di molti cardinali curiali che appartenevano all’ordine dei diaconi. Così non ero agli ultimi posti. Ricordo che al pranzo, anche in questo contesto venivano rispettate le precedenze, mi trovavo tra i cardinali Silvio Oddi e Felici, due porporati italianissimi.

Ebbe realmente un ruolo importante in quel conclave?

RATZINGER: È vero che con alcuni cardinali germanofoni ci siamo visti qualche volta. A questi incontri partecipavano Joseph Schröffer, già prefetto dell’Educazione cattolica, Joseph Höffner di Colonia, il grande Franz König di Vienna – che vive ancora –, Alfred Bengsch di Berlino; c’erano inoltre Paulo Evaristo Arns e Aloísio Lorscheider, brasiliani di origine tedesca. Si trattava di un piccolo gruppo. Non volevamo assolutamente decidere niente, ma solo parlare un po’. Io mi sono lasciato guidare dalla Provvidenza, ascoltando i nomi, e vedendo come si è formato finalmente un consenso sul patriarca di Venezia.

Lo conosceva?

RATZINGER: Sì, lo conoscevo personalmente. Durante le vacanze estive del ’77, ad agosto, mi trovavo nel seminario diocesano di Bressanone e Albino Luciani venne a farmi visita. L’Alto Adige fa parte della regione ecclesiastica del Triveneto e lui, che era un uomo di una squisita gentilezza, come patriarca di Venezia si sentì quasi in obbligo di recarsi a trovare questo suo giovane confratello. Mi sentivo indegno di una tale visita. In quella occasione ho avuto modo di ammirare la sua grande semplicità, e anche la sua grande cultura. Mi raccontò che conosceva bene quei luoghi, dove da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio al santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua italiana a mille metri di quota, molto visitato dai fedeli del Veneto. Luciani aveva tanti bei ricordi di quei luoghi e anche per questo era contento di tornare a Bressanone.

Prima non l’aveva mai conosciuto di persona?

RATZINGER: No. Io ero vissuto, come ho già detto, nel mondo accademico, molto lontano dalle gerarchie, e non conoscevo di persona i vertici ecclesiastici.

Poi lo incontrò di nuovo?

RATZINGER: No, mai prima del conclave del ’78.

In quell’occasione scambiò delle parole con lui?

RATZINGER: Qualcuna, perché ci conoscevamo, ma non molte. C’era molto da fare e da meditare.

Che impressione fece la sua elezione?

RATZINGER: Io sono stato molto felice. Avere come pastore della Chiesa universale un uomo con quella bontà e con quella fede luminosa era la garanzia che le cose andavano bene. Lui stesso era rimasto sorpreso e sentiva il peso della grande responsabilità. Si vedeva che soffriva un po’ di questo colpo. Non si aspettava questa elezione. Non era un uomo che cercava la carriera, ma concepiva gli incarichi che aveva avuto come un servizio e anche una sofferenza.

Quale fu il suo ultimo colloquio con lui?

RATZINGER: Il giorno del suo insediamento, il 3 settembre. L’arcidiocesi di Monaco e Frisinga è gemellata con le diocesi dell’Ecuador, e per quel mese di settembre a Guayaquil era stato organizzato un Congresso mariano nazionale. L’episcopato locale aveva chiesto che venissi nominato delegato pontificio per questo Congresso. Giovanni Paolo I aveva già letto la richiesta e deciso positivamente in merito; così, durante il tradizionale omaggio dei cardinali, parlammo del mio viaggio e lui invocò molte benedizioni su di me e su tutta la Chiesa ecuadoregna.

Lei andò in Ecuador?

RATZINGER: Sì, e proprio quando ero lì, mi raggiunse la notizia della morte del Papa. In un modo un po’ strano. Dormivo nell’episcopio di Quito. Non avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come nel seno di Abramo. Era notte fonda quando entrò nella mia stanza un fascio di luce e si affacciò una persona con un abito da carmelitano. Rimasi un po’ sbigottito da questa luce e da questa persona vestita in maniera lugubre che sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se fosse sogno o realtà. Infine scoprii che era un vescovo ausiliare di Quito (Alberto Luna Tobar, oggi arcivescovo emerito di Cuenca, ndr), il quale mi comunicò che il Papa era morto. E così seppi di questo avvenimento tristissimo e imprevisto. Nonostante questa notizia, riuscii a dormire in grazia di Dio e la mattina dopo celebrai messa con un missionario tedesco, il quale nella preghiera dei fedeli pregò «per il nostro papa morto Giovanni Paolo I». Alla funzione assisteva anche il mio segretario laico, il quale alla fine venne da me e mi disse costernato che il missionario aveva sbagliato nome, che avrebbe dovuto pregare per Paolo VI e non per Giovanni Paolo I. Lui ancora non sapeva della morte di Albino Luciani.

Lei aveva visto il Papa al conclave. Nel rendergli omaggio le sembrava un uomo che nel giro di un mese potesse morire?

RATZINGER: Mi sembrava che stesse bene. Certo non appariva un uomo di grande salute. Ma tanti sembrano fragili e poi vivono cento anni. A me appariva di buona salute. Non sono un medico, ma mi sembrava un uomo che, come me, non pareva avere una salute molto forte. Ma queste persone sono poi quelle che hanno di solito una maggiore aspettativa di vita.

Quindi fu per lei una morte inaspettata?

RATZINGER: Assolutamente inaspettata.

Ebbe qualche dubbio quando cominciarono a girare voci su una morte violenta del Papa?

RATZINGER: No.

Il vescovo di Belluno-Feltre, il salesiano Vincenzo Savio, ha annunciato di aver ricevuto, lo scorso 17 giugno, il nullaosta della Congregazione delle cause dei santi affinché si possa procedere alla causa di beatificazione del servo di Dio Albino Luciani. Cosa pensa a riguardo?

RATZINGER: Personalmente sono convintissimo che era un santo. Per la sua grande bontà, semplicità, umiltà. E per il suo grande coraggio. Perché aveva anche il coraggio di dire le cose con grande chiarezza, anche andando contro le opinioni correnti. E anche per la sua grande cultura di fede. Non era solo un semplice parroco che per caso era diventato patriarca. Era un uomo di grande cultura teologica e di grande senso ed esperienza pastorale. I suoi scritti sulla catechesi sono preziosi. Ed è bellissimo il suo libro Illustrissimi, che lessi subito dopo l’elezione. Sì, sono convintissimo che è un santo.

Pur avendolo incontrato in non più di tre occasioni?

RATZINGER: Sì, è stato sufficiente perché la sua figura luminosa irradiasse in me questa convinzione.

Quando vi incontraste per il secondo conclave del 1978 quale era la sensazione dominante nel Collegio cardinalizio?

RATZINGER: Dopo questa morte improvvisa eravamo tutti un po’ depressi. Era stato un colpo forte. Certo, anche dopo la morte di Paolo VI c’era tristezza. Ma quella di Montini era stata una vita completa, che aveva avuto un epilogo naturale. Lui stesso aspettava la morte, parlava della sua morte. Dopo un
pontificato così grande c’era stato un nuovo inizio, con un Papa di tipo diverso ma in piena continuità. Ma che la Provvidenza avesse detto di no alla nostra elezione fu veramente un colpo duro. Benché l’elezione di Luciani non fu un errore. Quei trentatré giorni di pontificato hanno avuto una funzione nella storia della Chiesa.

Quale?

RATZINGER: Non fu solo la testimonianza di bontà e di una fede gioiosa. Ma quella morte improvvisa aprì anche le porte ad una scelta inaspettata. Quella di un Papa non italiano.

Nel primo conclave del 1978 era stata presa in considerazione questa ipotesi?

RATZINGER: Si parlò anche di questo. Ma non era un’ipotesi molto reale, anche perché c’era la bella figura di Albino Luciani. Dopo si pensò che c’era bisogno di qualcosa di assolutamente nuovo.