Il fiato del demonio e la nostra libertà. La strage di Motta Visconti e l'omicidio di Yara, di Marina Corradi
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Riprendiamo da Avvenire del 17/6/2014 un articolo di Marina Corradi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (22/6/2014)
E al trentacinquesimo minuto, gol! Tutti esultano davanti allo schermo, in un pub nel Pavese. Un bel ragazzo bruno tifa e urla come gli altri. Ed è qui che ci troviamo sull’orlo di un abisso. Come poteva Carlo Lissi guardare la partita, mentre a casa la moglie e i suoi due bambini giacevano nel sangue? La vicenda di Motta Visconti toglie il fiato. Nello stesso giorno in cui viene fermato, ci assicurano, l’assassino di Yara Gambirasio. Se è vero, anche a Brembate a uccidere è stato un padre di famiglia, con tre figli coetanei di quella bambina trovata morta in un campo, dopo mesi.
È stato un padre, anche a Motta Visconti. E non nell’attimo di un raptus. C’è invece come il filo di una sostanza fredda, che percorre quest’ultima tragedia di provincia. Eppure Carlo Lissi – hanno raccontato i vicini – a Giulia, la figlia maggiore, 5 anni, voleva montare la piscinetta in giardino, e poche sere fa le insegnava a pattinare. E allora, chi, che cosa è stato?, ci chiediamo sgomenti. Perché fra esseri umani, normalmente, ci capiamo: possiamo arrivare a capire chi ruba, e perfino forse chi uccide, per vendetta, o per soldi. Ma uccidere due figli piccoli nel sonno, quando sono abbandonati e innocenti come agnelli, no, questo non riusciamo proprio a capirlo. Ci interroghiamo fra amici, fra colleghi: follia? Eppure perfino la scelta della sera della partita, con il suo baccano, sembra lucidamente pensata. E la finta rapina messa in scena? Ecco quel filo – freddo, calmo. Se non follia, allora che cosa? Ci mancano le parole, o forse non osiamo pronunciare quella che ci viene in mente. Il diavolo, probabilmente, dice infine qualcuno; con imbarazzo, perché di quella parola un po’ ci vergogniamo come fosse, il diavolo, una favola per bambini. Il diavolo, probabilmente, annuisce allora un altro; non sapendo, non potendo spiegare altrimenti quel gioire per l’Italia, con negli occhi la festa della morte, là a casa.
Il diavolo: ma non lo diciamo forse con sgomento, eppure con una punta di sollievo? Così come nei delitti nei paesi la reazione istintiva degli abitanti è affermare che è stato qualcuno che veniva da fuori, così anche fra noi l’evocare il diavolo potrebbe in qualche modo sgravare la tragedia della sua umana drammaticità. Perché insomma, se quel padre sabato scorso, o quell’altro, in una notte di novembre, avevano il diavolo nel cuore, non erano in quel momento proprio uomini come noi: erano portati via come rami in una piena, erano trascinati da qualcosa di più grande e terribile di loro. Ma quel demonio che Papa Francesco nomina spesso e apertamente, passa attraverso la libertà degli uomini. Ci deve essere un consenso al male, perché lo spazio per quel male nel cuore si faccia così largo, perché un disegno di morte si stabilisca nel petto – come in un nido. Il padre di Motta Visconti ha spiegato la sua 'logica': la moglie e i figli, ha detto, gli erano ormai d’ostacolo, innamorato come era di un’altra. Ostacolo, quei figli amati fino a non molto tempo fa. Che accecamento: i tuoi bambini, una all’asilo, l’altro che barcolla nei primi passi, «ostacolo». Qualcuno, certamente un nemico, nel tempo deve avere sussurrato, sobillato nel cuore di quell’uomo; e non ha trovato, a resistergli, né fedeltà né memoria. Il nemico soffiava e l’io in quell’uomo si gonfiava, egocentrico, fino a sommergere e annichilire tutto, attorno a sé. Come, forse, è accaduto quella sera del 2010 nella Bergamasca. Quando un padre di famiglia non ha visto, in una bambina di 13 anni, una figlia uguale ai figli suoi, ma solo una inerme povera preda.
Nel suo penultimo Angelus Benedetto XVI ci aveva parlato, come in un monito, proprio di questa eterna sfida, e del continuo dover scegliere, gli uomini, fra l’io, e Dio. In una tragedia come quella di Motta Visconti si vede di cosa può essere capace, se lo si asseconda, il nemico. Noi abitualmente non lo nominiamo; eppure lui lavora, tarla, disfa. Anche più forte, in un tempo che vuole ignorare il peccato, e che fa a meno del perdono di Dio.
Quando fu, dunque, l’attimo in cui quel padre di tre figli si incapricciò di Yara, una bambina? E quando, quanto tempo fa è stato, in una villetta del Pavese, l’istante in cui una moglie e due figli, d’improvviso, sono apparsi «ostacolo»? L’attimo della scelta, magari in una sera come tante, è con la sua vertigine ciò che più dovrebbe spaventarci. La frazione di secondo in cui un uomo spalanca il cuore all’antico nemico. Poi, il resto, è assurdo come l’incubo di un ubriaco. Tre anni e mezzo di vita con una maschera in volto, il lavoro, le tasse, le vacanze, per l’assassino di Yara; oppure, come l’altra notte a Motta Visconti, il giovane padre che gridava ai gol dell’Italia come se niente fosse veramente accaduto.