1/ P. Samir: La condanna a morte di Meriam, un concentrato di crudeltà e di offese ai diritti umani. La donna sudanese, educata nel cristianesimo, è stata condannata a morte per apostasia e a ricevere 100 frustate per adulterio, avendo sposato un cristiano. Il radicalismo islamico sta diffondendo la violenza nel mondo. Per i musulmani è tempo di denunciare questo islam violento, scegliendo "l'islam della città", non "l'islam beduino del deserto", di Samir Khalil Samir 2/ Khalil: islam, si deve ripartire dall'educazione. Un’intervista di Giorgio Paolucci 3/ Il viaggio del Papa in Terra Santa, di Zouhir Louassini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /05 /2014 - 23:24 pm | Permalink | Homepage
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1/ P. Samir: La condanna a morte di Meriam, un concentrato di crudeltà e di offese ai diritti umani. La donna sudanese, educata nel cristianesimo, è stata condannata a morte per apostasia e a ricevere 100 frustate per adulterio, avendo sposato un cristiano. Il radicalismo islamico sta diffondendo la violenza nel mondo. Per i musulmani è tempo di denunciare questo islam violento, scegliendo "l'islam della città", non "l'islam beduino del deserto", di Samir Khalil Samir

Riprendiamo dall'Agenzia di stampa Asianews un articolo pubblicato il 16/05/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sull'islam, vedi la sotto-sezione corrispondente nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (20/5/2014)

Beirut (AsiaNews) - Una donna sudanese è stata condannata ieri all'impiccagione per apostasia. Essendo incinta di sette mesi, la sentenza sarà ritardata di due anni. Ma intanto la donna dovrà anche ricevere 100 frustate per adulterio, avendo lei, considerata musulmana - contratto matrimonio con un cristiano, ciò che non è permesso dalla legge islamica. La vicenda definita "stupefacente e orribile", è un concentrato di umiliazioni per i diritti della persona.

Meriam Yehya Ibrahim Ishag - questo è il nome della donna, 27enne - è nata da padre musulmano. Ma avendo l'uomo abbandonato la famiglia alla sua nascita, la piccola è stata educata dalla madre, un'etiope ortodossa, alla religione cristiana. La donna ha poi sposato un cristiano del Sud Sudan. Dal 1983 a Khartoum vige la sharia e un tribunale islamico ha condannato Meriam alla morte. La condanna è avvenuta l'11 maggio, ma i giudici le hanno dato quattro giorni per ripensarci e tornare alla fede islamica. La donna, nella gabbia degli accusati, ha risposto: "Sono cristiana e non ho mai fatto apostasia [dall'islam]". Alla sentenza di morte i giudici hanno aggiunto la pena di 100 frustate per "adulterio". La donna era stata arrestata nell'agosto 2013 proprio per adulterio. La corte islamica vi ha aggiunto l'accusa di apostasia dopo che la donna si era dichiarata cristiana, e non adultera. Dopo la sentenza, alcune decine di persone amiche di Meriam hanno manifestato per chiedere la sua liberazione. Gli avvocati della donna pensano di ricorrere in appello e fanno notare che la sentenza (e la legge islamica) contraddice la costituzione. Sul caso di Meriam, che sta suscitando forti interessi e critiche nella comunità internazionale, AsiaNews ha chiesto il parere dell'islamologo Samir Khalil Samir. Ecco quanto ci ha detto.

La vicenda e la condanna di Meriam Yehya Ibrahim Ishag è un concentrato di crudeltà e di violazioni dei diritti umani e mi spinge ad alcune considerazioni.

Anzitutto, essendo lei nata da un padre musulmano e da una mamma cristiana, l'Islam obbliga che i figli siano musulmani: è il padre che decide e non la persona stessa. Questo è contrario ai diritti umani e ai diritti dell'infanzia. Dobbiamo protestare contro questo criterio che si applica in modo silenzioso in tutto il mondo islamico. Quando un padre cristiano - per motivi pratici, per divorziare, ad esempio - si fa musulmano, obbligatoriamente tutti i suoi figli divengono musulmani e sono sottratti alla mamma cristiana per essere affidati ai nonni musulmani del padre. In Egitto questo succede in decine di casi ogni anno. Siccome il padre è musulmano, tutta la famiglia è musulmana: questo è un principio inaccettabile.

Il secondo punto, è che essendo il padre sparito dalla famiglia, la ragazza è cristiana, la mamma è cristiana, e perciò ovviamente la ragazza si sposa e può scegliere un cristiano. Una donna musulmana non ha diritto di sposare un non musulmano; deve scegliere sempre un marito musulmano o che deve diventare musulmano prima del matrimonio. Questo problema tocca anche l'Europa. Tutte le donne musulmane che vivono in Europa costringono il marito a diventare musulmano. In caso contrario, non si possono sposare: non ottengono il permesso di sposarsi perché non ricevono dalle loro ambasciate il nulla osta. Per essere precisi, quando una donna di un Paese musulmano, si vuole sposare in Italia, le viene richiesto il documento di stato libero. Allora scrive al suo consolato, il quale non risponde quasi mai.  Alla fine lei si presenta allo sportello e dice: "Ho bisogno di questo documento". Gli rispondono: "Prima porti il documento di conversione all'islam del suo futuro marito". Tutto ciò è pazzesco e l'Europa non fa niente per risolvere questo problema, che è una seconda offesa ai diritti umani.

Il terzo punto è il diritto islamico riguardo all'apostasia. Su AsiaNews ne abbiamo parlato a lungo. Ma cambiare religione è un diritto umano, è difeso dall'articolo 18 della Carta universale dei diritti umani: chiunque ha il diritto di cambiare religione, o di rinunciare alla religione. Ma nei Paesi islamici questo è impossibile: ogni anno ci sono tanti casi di persone uccise dalla famiglia, se non dallo Stato, perché avendo abbandonato l'islam, e avendo proclamato che hanno abbandonato l'islam, devono essere uccisi. Spesso, l'unica soluzione per loro è di fare come se fossero musulmani, vivendo un cambiamento solo nel cuore, ed è ciò che molti fanno. Ma ciò diviene impossibile se la persona si sposa con un cristiano, proprio come nel caso di Meriam.

Infine vi è il fatto della condanna a morte come pena per l'apostasia. Perché la condanna a morte? Dov'è il delitto? Vi è al massimo un'offesa morale! Posso capire che in una religione si consideri peccato l'abbandono della fede, l'apostasia, ma di per sé questo non è un delitto. E che per ciò uno riceva il più grave castigo, la messa a morte, è inaccettabile.

In questo caso del Sudan vi è anche un fatto di crudeltà assoluta: quello di ritardare la morte in attesa che la condannata partorisca il figlio che ha in grembo. E' come dire: Noi vogliamo il tuo bambino, però ti uccidiamo! È una crudeltà assoluta sia per la mamma, che per  il futuro bambino, che verrà a sapere di essere in qualche modo all'origine della morte della madre, uccisa dopo la sua nascita. Questi cinque elementi sono tutti inaccettabili.

La violenza nell'islam e la denuncia

Vi è poi un problema più generale: nel mondo islamico si sta rafforzando sempre più la violenza e le esecuzioni crudeli come quella che sta per essere inflitta a Meriam. Lo vediamo in Siria, in Egitto, in Mali, in Nigeria...

Si dice spesso che l'islam non ha niente a che fare con la violenza, che l'islam significa tolleranza, ecc...  Ciò è falso: l'islam è contrario a certe violenze, ma in altri casi l'islam include la violenza. Il motivo di tale rigurgito sanguinario, va ricercato nel risveglio dei movimenti radicali davanti a quella che essi definiscono "la debolezza del mondo islamico".

Molti musulmani sentono che l'islam è rigettato da tutto il mondo, che dappertutto vi è islamofobia, e allora dicono: "Dobbiamo reagire tornando alle fonti", e proprio questi movimenti dimostrano che l'islam delle origini era violento.  Questo poteva essere comprensibile in un mondo beduino, nel VII secolo. Ma l'errore è dire nel XXI secolo: "Se vogliamo ritrovare la fonte essenziale della nostra religione, del nostro pensiero, della nostra cultura dobbiamo riprodurre materialmente il deserto del VII secolo".

Qui in Libano sento parecchie persone che dicono: "Esistono due islam: l'islam beduino, desertico (e intendono quello arabo), e l'islam tout-court. Noi non vogliamo l'islam beduino, vogliamo l'islam della città".  

Il mondo islamico è di fronte a un problema serio, che possiamo definire "teologico". Come interpretare ciò che sta nella tradizione, ossia il Corano, le Hadith, la Sunna? Possiamo continuare a dire che il vero islam consiste nel ritorno al periodo di Medina (622-632),che è il periodo guerriero della vita di Maometto? E' questo l'ideale? Oppure dobbiamo dire che questo stile di vita era una fase iniziale, del tutto normale nella vita dei beduini, o che era tipico della fase pre-islamica, che si è mantenuta per motivi culturali?  Se non si risolve questa questione teologica, l'islam sarà contro il mondo intero e contro se stesso, perché la maggioranza dei musulmani non vuole questo tipo di islam.

Purtroppo, la voce che si fa sentire con forza, dai teologi, dai rivoluzionari, dai guerrieri e dai politici è la voce della violenza.

In più, i musulmani che non condividono la violenza non hanno il coraggio di protestare, o la possibilità di protestare. Mi fa pena vedere tanti musulmani in Europa che protestano quando c'è una critica contro l'islam, ma non scendono per strada a protestare contro queste violenze come quelle contro Meriam.  Eppure è ciò che dovrebbero fare. I musulmani dovrebbero andare davanti alle ambasciate del Sudan in tutto il mondo e dire: "Noi siamo contrari a questo". Se non lo fanno, è logico che gli occidentali, gli africani, tutto il mondo, potranno dire: "L'islam è una religione di violenza".

Se i musulmani vogliono salvare l'onore dell'islam, come spero, devono avere il coraggio di andare contro questa lettura radicale e intollerante dell'islam. Allora si potrà dire: "l'islam è una religione della tolleranza e della pace".

2/ Khalil: islam, si deve ripartire dall'educazione. Un’intervista di Giorgio Paolucci

Riprendiamo da Avvenire del 19/5/2014 un’intervista di Giorgio Paolucci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/5/2014)

«La radice del problema è a livello educativo. Se non si riparte dall’educazione, non ci sarà vero cambiamento». Parola di Samir Khalil, gesuita, docente di islamistica alla Saint Joseph University di Beirut, gran conoscitore del mondo musulmano. «Ora più che mai serve una grande opera di rigenerazione se l’islam non vuole restare ai margini della modernità».

Il processo a carico di Meriam è sostanzialmente basato su principi islamici. Eppure c’è chi sostiene che proprio a partire dal Corano è possibile arrivare a conseguenze diverse dalla pena di morte o comunque dalla condanna per apostasia. Dunque, è un problema di interpretazione del Corano?

Molti intellettuali musulmani in diverse nazioni del mondo – soprattutto quelli che vivono in Occidente – propongono un approccio al testo sacro che esca dalla pura ’lettera’ e si coniughi con la modernità. Il fatto è che, per l’appunto, sono intellettuali, con scarso seguito tra la gente. La società è molto influenzata dagli imam e dalle guide religiose, che esercitano un grande potere. La maggior parte di costoro si sono formati al Cairo, all’università di al-Azhar che è il baricentro del pensiero sunnita, o in Arabia Saudita, che finanzia migliaia di borse di studio. Questa dinamica soffoca la libertà e ha generato un «pensiero unico» basato su una lettura del Corano formalista e meccanica, avulsa dalla realtà contemporanea, negando la molteplicità delle interpretazioni. Ciò vale in particolare nel mondo sunnita dove la “porta dell’interpretazione” è stata chiusa nel dodicesimo secolo, col risultato di ibernare il pensiero e la cultura, mentre gli sciiti sostengono che l’interpretazione deve continuare nel tempo.

Come uscire da questa chiusura?

Gli ostacoli sono molti.  Anzitutto bisogna combattere l’ignoranza: in Egitto la percentuale di analfabetismo è al 40 per cento, in altri Paesi siamo a livelli analoghi. Questo impedisce una conoscenza e un accesso responsabile ai testi sacri e lascia milioni di persone in balia delle autorità religiose, molte delle quali – come dicevo – hanno una formazione ingessata e chiusa al dialogo con la modernità, come dicevo prima. Una modernità spesso identificata con l’Occidente e quindi, a maggior ragione, guardata con ostilità.

Perché l’Occidente gode di cattiva reputazione?

Non solo per motivi legati alle esperienze coloniali, ma soprattutto perché lo si accusa di essere moralmente corrotto, privo di valori sani, preda di un libertinismo sfrenato che promuove pratiche come la pornografia, l’omosessualità, i matrimoni tra omosessuali e via dicendo. Se questa è la modernità, si dice, tenetevela.

E qual è l’alternativa proposta a questa deriva?

Il ritorno a una società fondata su principi religiosi, come nei primi secoli dell’islam. Il rinnovamento che viene auspicato si basa su un ritorno a un passato aureo, peraltro più immaginato che storicamente fondato. La modernità viene rigettata in quanto nemica di Dio e l’Occidente è vissuto come il suo pericoloso alleato. Per questo va combattuto: tipico il caso di Boko Haram in Nigeria, il cui nome, non a caso, significa «l’educazione occidentale è peccato».

Da dove si può ripartire per uscire da questo vicolo cieco?

Dall’educazione, da una visione aperta della società, da una considerazione integrale della persona che ne valorizzi tutte le dimensioni, da una distinzione tra sfera religiosa e sfera civile che non pretenda di trovare nel Corano la formula magica per risolvere tutto. Ci vuole una sana laicità, come quella che il cristianesimo ha saputo maturare dopo una lunga e sofferta transizione. E si deve riconoscere che il progresso viene dal riconoscimento di un ritardo, a partire dal quale si può progredire purché si sia disponibili a rinunciare al presupposto di essere sempre e comunque dalla parte della verità. Un detto attribuito a Maometto dice: «Andate alla ricerca della conoscenza, anche se fosse in Cina».

3/ Il viaggio del Papa in Terra Santa, di Zouhir Louassini

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 16/5/2014 un articolo scritto da Zouhir Louassini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/5/2014)

«Il mio cuore — scriveva il poeta e mistico arabo Ibn Arabi (1165-1240) — è divenuto capace di accogliere ogni forma: è un pascolo per le gazzelle, un convento per i monaci cristiani, è un tempio per gli idoli, è la Ka’ba del pellegrino, è le tavole della Torah, è il libro del sacro Corano. Io seguo la religione dell’amore, quale mai sia la strada che prende la sua carovana: questo è mio credo e mia fede».

Il sultano marocchino Moulay Ismael (1645-1727) esagerò, sicuramente, quando chiese ai governatori del suo regno di tagliare la testa a chiunque offendesse o maltrattasse un francescano. Ben custodito nella biblioteca della cattedrale di Tangeri, il manoscritto che riporta quell’ordine impartito ai rappresentanti del re dimostra che l’islam, quello vero, non è solo dialogante ma che, alcune volte, riesce anche a sviluppare dei meccanismi per fermare i fanatici. Non sempre condivisibili, come in questo caso; ma ci riesce.

Mi sono ricordato di questo curioso episodio storico, mentre leggevo sul sito arabo Elaph le dichiarazioni di Hassan Bin Talal, zio del re Abdallah II di Giordania, sulla situazione della minoranza cristiana: «Il cristianesimo in Medio oriente è una delle basi dell’identità arabo-islamica». Non avrebbe potuto esprimersi con più chiarezza. Nessun musulmano può capire la storia della propria religione senza approfondire la conoscenza del cristianesimo. L’islam ha bisogno di dichiarazioni del genere.

La rappresentazione che se ne può trarre, attraverso l’immagine diffusa dai media, spesso non va oltre i discorsi fanatici, che esistono, e con forza, nella realtà arabo-musulmana; ma sono veramente espressione di una minoranza. Gridano molto, alzano troppo la voce, ma sono pochi. Alzano così tanto la voce per incutere timore e per non ascoltare le ragioni di chi cerca di spiegare che Maometto non ha mai incitato all’odio, come invece loro fanno quotidianamente. Non solo: il messaggio islamico acquista il suo senso più profondo solo quando si ragiona in termini di tolleranza e di rispetto per gli altri.

In questo senso le dichiarazioni di Bin Talal rappresentano un grido d’allarme che tutti i musulmani devono ascoltare e comprendere. Chi crede nel dialogo e nella convivenza tra gli esseri umani deve insistere sulla situazione attuale delle minoranze cristiane. La loro vita oggi, in Medio Oriente, è molto difficile, per non dire addirittura insopportabile. Molti di loro stanno lasciando le loro patrie in cerca di orizzonti migliori e più sicuri. E i primi che devono scandalizzarsi per questo sono proprio i musulmani. Il discorso di Bin Talal ha indicato la strada giusta da seguire: il musulmano è fedele alla sua religione solo quando difende il diritto dei suoi compatrioti cristiani a vivere la loro fede in pace e con serenità. Solamente così possiamo dar prova della nostra capacità di dialogo e, soprattutto, possiamo dimostrare la nostra volontà di rispettare gli altri, tutti gli altri.

Papa Francesco, conversando con un gruppo di giovani belgi, ha avuto il coraggio di accennare alle crociate dicendo che non bisogna usare la «fede come una bandiera». Tocca a noi musulmani rispondere a questo messaggio di pace facendo anche noi autocritica e aprendo le porte a un dialogo che parta dalla preoccupazione per la condizione ingiusta imposta ai cristiani nelle nostre patrie.