Lewis, Salmi che ironia!, di Antonio Giuliano
Riprendiamo da Avvenire del 20/3/2014 un articolo di Antonio Giuliano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti su C.S. Lewis ed in particolare sulle Cronache di Narnia e su Diario di un dolore, vedi la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2014)
«Questo non è un lavoro accademico. Non sono un ebraista, né un biblista, né uno storico antico, né un archeologo. Scrivo per ignoranti su cose che anch’io ignoro». Dice proprio così C.S. Lewis (1898-1963) introducendo un’opera curiosissima Reflections on the Psalms ora tradotta per Lindau in italiano ne I Salmi (pp. 176, euro 19) grazie ad Edoardo Rialti (con prefazione di Jonah Lynch), in libreria da oggi.
Per carità, se il celebre autore de Le Cronache di Narnia e Le lettere di Berlicche non fosse quel fine umorista che abbiamo imparato a conoscere, potremmo anche credergli. In realtà la materia biblica Lewis la mastica eccome se negli anni, oltre a sedurre milioni di lettori, si è ritagliato un posto di rilievo tra gli apologeti cristiani.
Non per nulla tra i più entusiasti ammiratori dello scrittore anglicano c’è Benedetto XVI il quale gli riconosce quella capacità unica di trattare i pericoli dell’uomo moderno in modo spiritoso e ironico. E non è nemmeno falsa modestia quella con la quale C.S. Lewis - «Jack» per gli amici, visto che i nomi Clive Staples li riteneva un brutto tiro dei suoi genitori - si approccia ai Salmi, poema biblico per eccellenza del dialogo tra Dio e l’uomo. È l’umiltà del «convertito più riluttante della storia» come lui stesso si definì prima di quella notte del 1929 in cui «ad un certo punto - disse - mi arresi, riconobbi che Dio era Dio».
Fatale gli fu l’amicizia fraterna con il cattolico J.R.R. Tolkien, suo collega ad Oxford, poiché Lewis prima che scrittore di successo, era già insigne studioso di filologia e letteratura e professore nelle più prestigiose università. Ma suo maestro fu anche quel genio di G.K. Chesterton da cui apprese l’arte dell’umorismo, il più salutare antidoto all’orgoglio perché ti consente di osservarti dall’esterno e ricordarti, sorridendo, di non essere Dio. Con questo spirito umile e intriso di humour tipicamente britannico Lewis rilegge il Salterio, che di colpo ci appare più spassoso e familiare che mai. Il tono confidenziale e leggero prende il lettore per mano: «Dove troviamo una difficoltà possiamo sempre aspettarci una sorpresa».
Lo stile divertito e brillante rende semplici anche argomenti profondi. E la leggerezza e l’arguzia di Lewis non possono essere tacciate di superficialità. Lui ci mette in guardia subito: «I Salmi sono delle poesie, e poesie pensate per essere cantate: non sono trattati dottrinali e nemmeno sermoni». Prima però di addentrarsi tra i versetti premette con onestà intellettuale di scrivere quale «membro della Chiesa d’Inghilterra». Poi lascia correre la sua penna graffiante anche commentando i passi più indigesti. Balza subito infatti ai suoi occhi come il Salmista appaia spesso come una sorta di «querelante indignato». Come l’autore del Salmo 7: «A quanto pare lui è ben sicuro di avere le mani pulite. Egli non ha mai inflitto ad altri le azioni orrende che hanno fatto a lui». Ma la falsa convinzione di essere «giusti» espone al «rischio del moralismo. Potremmo arrivare a "ringraziare Dio perché non siamo come gli altri"».
Tanto più ostici sono i Salmi vendicativi, le maledizioni: «In alcuni Salmi lo spirito d’odio che ci colpisce in piena faccia è simile al calore che viene dalla bocca di una fornace». Eppure senza volerli giustificare Lewis sostiene che «sarebbe mostruosamente riduttivo» fermarsi qui. Non solo perché «subire un torto di solito non rende amabili», ma anche perché «se guardiamo i loro lamenti troviamo che essi sono solitamente in collera non solo perché queste cose sono state fatte a loro, ma perché queste cose sono manifestamente ingiuste e odiose tanto per Dio quanto per la vittima». E paradossalmente «le parti feroci dei Salmi servono a ricordare che la malvagità è odiosa agli occhi di Dio».
Non meno incomprensibili apparivano inizialmente all’autore i componimenti di lode, al punto da scrivere senza temere di essere irriverente che «al riguardo i Salmi risultavano particolarmente seccanti: "Lodate il Signore" "Oh, Lodate il Signore assieme a me"…».
Ma all’«idea meschina che Dio debba in qualche modo aver bisogno, o bramare, la nostra adorazione» è subentrata la convinzione che «nel dire a tutti gli uomini di lodare Dio, i salmisti fanno come tutti gli altri uomini quando parlano di ciò che gli sta a cuore». Perché «la lode non solo esprime, ma completa il godimento: si tratta della sua conclusione adeguata. Non è per aver finito i complimenti, che gli amanti continuano a dirsi quanto siano belli; e che il diletto risulta incompleto finché non viene espresso».
È quindi la gioia ancora una volta l’ottica prediletta da Lewis: «Ciò che di più prezioso i Salmi compiono per me è esprimere la medesima delizia di Dio che fece danzare Davide» senza che gli importasse di fare «la figura dell’idiota». Per chi come Lewis aveva capito che diventare cristiani vuol dire lasciarsi sorprendere dalla gioia (così intitolò la sua autobiografia: Sorpreso dalla gioia) l’ammirazione era tutta per questi poeti le cui dita «prudono dal desiderio di suonare l’arpa» (42, 4), affamati (letteralmente con l’ «appetito») di Dio sebbene ancora non sapessero che «avrebbe offerto loro una gioia eterna, ancor meno che sarebbe morto per conquistargliela». Sono felici e si rallegrano e «quel che - per così dire - vedo sui volti di quegli antichi poeti mi dice qualcosa di più sul Dio che loro e noi adoriamo».