Immigrazione e cittadinanza: quale modello per l'integrazione?, di Fabio Macioce

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /03 /2014 - 14:02 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dalla rivista Paradoxa, Anno VI - Numero 2 - Aprile/Giugno 2012, Uomini o cittadini? (a cura di Francesco D'Agostino) un articolo di Fabio Macioce. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (23/3/2013)

1. Gli immigrati e la questione della cittadinanza. Una premessa.

Quando si affronta il problema dell'attribuzione della cittadinanza agli immigrati residenti il tema della cittadinanza viene, solitamente, messo in relazione con quello dell'integrazione. Coloro che sono favorevoli ad una legislazione più agevole per la naturalizzazione dei lungo-residenti ritengono, in genere, che ciò possa favorire l'integrazione degli immigrati, ed evitare la creazione di sacche di emarginazione tanto più violente quanto più le generazioni si susseguono (M. Lister, 2010).

La vicenda degli scontri nelle banlieues parigine nel 2005, in questa prospettiva, viene ritenuta un esempio preclaro di disagio collegato all'emarginazione e alla scarsa integrazione; e proprio al fine di evitare rischi così gravi per la pace sociale, si afferma, una più agevole procedura di naturalizzazione sarebbe certamente auspicabile.

In una linea analoga, seppur solo parzialmente, si collocano coloro che, ritenendo primariamente importante l'integrazione sociale dei migranti, sostengono il modello della denizenship (T. Hammar, 1990) [N.d.Gli scritti denizen può essere tradotto con “residente”, “abitante”]; i migranti, in quest'ottica, andrebbero integrati mediante il riconoscimento progressivo dei diritti, a cominciare dai diritti sociali, scorporando dal complesso status della citizenship, per l'appunto, tutto ciò che non è direttamente riconducibile al livello dei diritti politici.

Tuttavia, questo modello è condiviso anche da coloro che, collocandosi in un orizzonte opposto,  ritengono che la cittadinanza (ma in certo modo anche il corpus di diritti incluso nel modello della denizenship) debba rappresentare il culmine, la meta, di un processo di integrazione, non la premessa. In questa prospettiva, al migrante i diritti andrebbero riconosciuti in misura proporzionale alla sua effettiva capacità di integrarsi, e dunque alla sua dimostrata o dimostrabile capacità lavorativa e produttiva, la sua capacità contributiva, la conoscenza della lingua, l'accettazione dei principi fondamentali dell'ordinamento, e finanche la conoscenza elementare della storia patria. Quanto più l'immigrato è in grado di progredire su questa via di integrazione, tanto più gli verranno riconosciuti i diritti garantiti dalla comunità politica, fino per l'appunto alla conquista della cittadinanza (J. Habermas, 1994; C. Joppke, 2008).

Ora, v'è molto di ragionevole in entrambi i modelli; e tuttavia, il presente contributo tende a dimostrare che entrambi falliscono per la medesima ragione. Entrambi questi modelli, infatti, ritengono che la cittadinanza sia in relazione diretta con l'integrazione sociale. Ciò è vero, o meglio sarebbe vero se la cittadinanza fosse intesa in secondo un paradigma del tutto diverso da quello attuale: il modello ascrittivo della cittadinanza, secondo il quale essa è l'instaurazione di un rapporto verticale tra lo Stato e il singolo (rapporto positivo, con il cittadino, o negativo, con lo straniero), è infatti del tutto inadeguato a garantire l'integrazione sociale, che per contro non può essere in nessun modo ridotta al rapporto che i singoli hanno con lo Stato, essendo invece relativa all'insieme dei rapporti che gli individui hanno fra loro. E dunque, o si cambia il modello di cittadinanza di riferimento, o la cittadinanza non potrà in alcun modo garantire l'integrazione, né rappresentarne la meta.

2. La denizenship e la stabilizzazione del permesso di soggiorno. Una soluzione di comodo?

È di questi mesi, in Italia, il dibattito sulla concessione agli immigrati residenti e regolari di una parte dei diritti connessi alla cittadinanza. Molti commentatori hanno infatti proposto (anche se sarebbe corretto dire: ri-proposto) una serie di strategie per stabilizzare la denizenship, opportunamente modificando alcune parti del nostro ordinamento. A parere di molti infatti il dibattito sulla cittadinanza si potrebbe risolvere, o quanto meno rendere meno acceso, se si separassero i diritti politici dal corpus dei diritti riconosciuti agli immigrati, magari immaginando una sorta di permesso di soggiorno privo di scadenza, ma pur sempre revocabile. È la proposta di Giovanni Sartori, che per l'appunto ipotizza di rendere stabile il permesso di soggiorno, e dunque il pieno godimento dei diritti civili e sociali e la piena soggezione agli obblighi corrispondenti, uno status che potrebbe essere trasmesso ai figli, e che tuttavia, in caso di più o meno gravi irregolarità, potrebbe essere revocato e consentire un provvedimento di espulsione.

L’idea, per quanto aggiornata, e rimodellata secondo le logiche e la sensibilità contemporanea, non è nuova; perché, per l'appunto, affonda in una tradizione che unisce la moderna denizenship alla civitas sine suffragio del diritto romano. Ma soprattutto non è nuova perché in effetti è già largamente applicata da gran parte dei Paesi europei, nella forma della carta di soggiorno permanente per lungo-residenti.

Uno degli aspetti problematici di tale proposta, peraltro molto ragionevole, è tuttavia proprio il riferimento all'orizzonte concettuale della denizenship, come sfondo di tali forme di stabilizzazione della permanenza. Questo termine, come è noto, venne infatti introdotto fin dal 13° secolo all'interno dell'orizzonte del Common Law per indicare la possibilità, offerta ad uno straniero, di acquisire alcuni dei diritti propri di un cittadino inglese, tra i quali ad esempio quello di acquistare delle terre (E.G. Berry, 1944, 490-492). Pertanto, fin dalla sua origine, il termine è stato utilizzato per indicare una situazione definita quasi solo per negazione, uno status intermedio fra quello di cittadino e quello di straniero: né... né, appunto.

Allo stesso modo, il termine è stato utilizzato per qualificare altre condizioni di medietà, tra le quali ad esempio quella dei neri liberi, prima dell'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti (N. Walker, 2008). Il significato corrente, incentrato sulla posizione dei residenti non cittadini e sull'insieme dei diritti che a costoro può essere riconosciuto, risale alla seconda metà del novecento; è a partire da questo periodo che esso comincia a qualificare una condizione specifica, o ancor più precisamente una modalità di partecipazione e inclusione tipica degli immigrati stabilmente residenti che sia alternativa a quella della cittadinanza (T. Hammar, 1994, 187-198).

Ora, un primo ordine di problemi sollevato dall'idea di stabilizzare tale forma di permanenza all'interno di una comunità è relativo ad una certa genericità, alla elaborazione di un modello di integrazione che non tenga conto dell'impossibilità di trattare gli "immigrati" come fossero una categoria omogenea e unitaria.

Al contrario, molto diverse dovrebbero essere le risposte ai bisogni degli immigrati di recente arrivo da quelli già stabilmente radicati, quelli regolari e quelli irregolari, i rifugiati, gli immigrati di prima o seconda o terza generazione, quelli inseriti in comunità consistenti e capaci di attivare relazioni con le autorità amministrative e quelli privi di tale sostegno comunitario, e così via. Perciò, è in rapporto a ciascuna di tali categorie che dovrebbe essere modellata la denizenship, così come l'ipotesi di un permesso di soggiorno privo di scadenza, chiarendone con cura i confini e le modalità applicative.

Tuttavia, il tema della denizenship mi pare sollevare, in ogni caso, una gran quantità di problemi teoretici, oltre che applicativi. In particolare, se con essa si qualifica lo status di soggetti stabilmente residenti sul territorio, ai quali sono riconosciuti praticamente tutti i diritti costituzionali salvo quelli strettamente politici, bisogna porsi seriamente il problema di quale sia il fondamento filosofico di tale deminutio.

Se cioè i soggetti riconosciuti come denizens sono stabilizzati sul territorio, e quindi presumibilmente inseriti in un sistema relazionale complesso, fatto di rapporti di lavoro, rapporti con comunità religiose, meccanismi di scambio e di sostegno, rapporti con le pubbliche amministrazioni e la burocrazia, non è facile giustificare, se non su basi nazionali(-stiche), il denegato riconoscimento dei diritti politici (L. Bosniak, 2006). Perché, in altri termini, stabilizzare una condizione di particolare vulnerabilità, derivante dalla soggezione ad un potere sul quale tali soggetti non hanno alcuna possibilità di controllo, e che peraltro, proprio in ragione di tale marginalità, non ha neppure alcuna motivazione interna a rappresentare gli interessi di tale gruppo?

Il rischio, come si può facilmente intuire, non è affatto piccolo: se i denizens, già oggi, sono soggetti per definizione politicamente marginali, non rappresentati e incapaci di farsi rappresentare, tale marginalità è paradossalmente mitigata e giustificata dalla precarietà della loro condizione. Se un immigrato non gode dei diritti politici, pur beneficando della protezione dell'ordinamento per tutti gli altri diritti fondamentali, questa differenza di status con il cittadino è giustificata proprio in base alla temporaneità che caratterizza la condizione del primo, e alla stabilità che caratterizza il secondo.

L'immigrato, in quanto solo temporaneamente residente (il meccanismo del permesso di soggiorno, in fondo, non fa che reiterare e sottolineare tale temporaneità, anche se essa può estendersi per molti anni, o persino per tutta la vita) vive una condizione nella quale la non appartenenza, o l'inclusione parziale nella comunità di residenza, è in qualche modo comprensibile. È certo una condizione che può essere ritenuta sfavorevole, o meritevole di essere superata, o criticata, e tuttavia è in un certo modo sensata: i cittadini sono solo coloro che appartengono stabilmente, e quindi pienamente, ad una data comunità, i denizens sono coloro che vivono in quella comunità, o con essa, ma non ne fanno parte pienamente, perché la loro permanenza è per l'appunto solamente temporanea.

Ora, se la denizenship cessa di indicare una condizione di temporanea inclusione, per diventare una condizione stabile (nel senso di una stabilità di diritto, e non solo di fatto), l'esclusione dal godimento dei diritti politici, e perciò dalla capacità di farsi rappresentare e rappresentare i propri interessi, non trova molte giustificazioni.

Peraltro, il fatto che tale soluzione non sia sensata si può percepire non appena si cerca di chiarirne le modalità applicative: chi dovrebbe godere di tale status di residente stabile? Dopo quanto tempo? A quali condizioni? I requisiti necessari dovrebbero essere soltanto formali (ad esempio il numero di anni di residenza, un contratto di lavoro stabile) o anche sostanziali (la conoscenza della lingua, la conoscenza dei principi fondamentali dell'ordinamento, ecc...)?

In effetti, la soluzione della carta di soggiorno permanente è altamente auspicabile, ma solo se ben si chiariscono tutti questi aspetti; e solo se la si distingue con chiarezza dal problema della concessione della cittadinanza. In particolare, andrebbero evitate soluzioni troppo "inclusive", quali ad esempio quelle che ritengono di abbandonare del tutto il principio dello jus soli, e attribuire la cittadinanza ai figli degli immigrati con regolare permesso di soggiorno da almeno un anno (così i promotori del referendum di iniziativa popolare in materia). Tali proposte, infatti, peccano per eccesso, minimizzando il problema di una reale ed effettiva integrazione nel contesto sociale; e se è vero che la cittadinanza potrebbe, forse, favorire l'integrazione, essa non ne è certamente l'origine, quanto semmai la meta. Rovesciare questo rapporto, rendendo l'attribuzione della cittadinanza un prius rispetto all'integrazione (la quale ha necessariamente bisogno di tempo, e di verifiche), mi pare implichi un misconoscimento dell'entità dei problemi sollevati, e soprattutto una scarsa comprensione di cosa significhino il riconoscimento e l'integrazione sociale.

Pertanto, se la proposta di introdurre anche in Italia, come in altre parti d'Europa, la carta di soggiorno permanente per i lungo-residenti, è molto utile politicamente e facilmente applicabile, essa non risolve il problema più spinoso, che è quello, appunto, dell'integrazione. E tuttavia solo se questo problema è avviato a soluzione, con l'adozione di politiche coerenti e mirate, è possibile attuare misure come quella suggerita: essa deve insomma collocarsi nell'ambito di una serie di politiche di integrazione, non essere l'unico mezzo con il quale si vuol raggiungere tale scopo. Perché, come mezzo unico, non è adeguato.

3. Riconoscimento e integrazione. Un chiarimento concettuale.

Come ho anticipato nel primo paragrafo, il tema della concessione della cittadinanza, e del passaggio dallo jus sanguinis allo jus soli, rappresenta una cartina di tornasole per comprendere in qual modo, oggi, i membri di una determinata comunità percepiscono la loro appartenenza, e in qual misura sono disponibili a includere altri soggetti all'interno di tale comunità.

È evidente infatti - anche se potrebbe sembrare superfluo ripeterlo - che questi due principi rinviano a due diversi modelli di comunità, a due diversi modi di garantire la coesione interna e i rapporti con gli altri. Tanto che, conseguentemente, il principio dello jus sanguinis è tipico di comunità a forte emigrazione e geograficamente diffuse, ovvero di comunità frammentate in una pluralità di formazioni statuali non ancora unificate, desiderose pertanto di mantenere o affermare legami di tipo etnico-culturale con i propri membri anche se nati all'estero; così come il principio dello jus soli è tipico di comunità non etnicamente omogenee e destinatarie di consistenti flussi di immigrazione: comunità, queste, nelle quali l'appartenenza non ha legami con l'identità etnica (che spesso non è neppure ipotizzabile, come nel caso degli Stati Uniti), ma con la partecipazione attiva e l'effettiva integrazione (G. Zincone, 2005).

Allo stesso modo, anche la stabilizzazione del permesso di soggiorno, che pure è più semplice da un punto di vista amministrativo, deve inserirsi all'interno di un processo di integrazione, ed essere considerata come una tappa di esso, anziché un'alternativa alla concessione della cittadinanza. Un problema non elimina l'altro, insomma, e entrambi sono in rapporto con il modo in cui intendiamo l'integrazione e il riconoscimento di coloro che non appartengono, per nascita, ad una data comunità.

Ora, il riconoscimento e l'integrazione attengono a tre profili fondamentali, in relazione ai quali la politica, il diritto e la società possono giocare ruoli affatto distinti e complementari; ma ciascuno di tali profili gioca un ruolo fondamentale nel riconoscimento e nella conseguente possibilità di integrazione degli immigrati. Tali profili sono l'identificazione, la valutazione-apprezzamento, l'elaborazione di una disciplina e di forme di tutela (P. Ricoeur, 2005).

Ad un primo livello, riconoscere significa identificare l'alterità e i suoi caratteri fondamentali. Riconosciamo qualcosa o qualcuno quando stabiliamo una relazione di identità fra l'oggetto (qualuque cosa sia, o chiunque sia) e una categoria o un'idea generale, mediante un'operazione noetica con la quale, in sostanza, attribuiamo un'identità a ciò che ci sta di fronte. Così, ad esempio, riconosco mia moglie perché riconduco la sua immagine all'idea della relazione che mi unisce a lei, o riconosco la mia macchina perché la identifico con quell'oggetto di un dato modello e una data forma sul quale vanto un titolo di proprietà. In entrambi i casi, evidentemente, riconoscere significa attribuire un'identità, identificare.

Ora, cosa significa, a questo livello, riconoscere una certa comunità di migranti? Significa identificare (cioè attribuire un'identità a) una particolare alterità con la quale entro in contatto. Se nella mia città si stabiliscono alcune comunità di migranti, il riconoscimento non può che cominciare da questa attribuzione di identità. Concretamente, bisogna prendere consapevolezza dell'eventuale diversità (culturale, religiosa, pratica), identificarla e in qualche modo classificarla, sì da percepirne con nettezza i contorni e le caratteristiche. Così, di fronte ad una determinata pratica alimentare, o estetica, o relazionale (mangiare certi cibi e secondo certe ritualità, indossare o non indossare certi vestiti, comportarsi con gli altri secondo certi modelli d'azione), è essenziale effettuare anzitutto quest'opera di cognizione e identificazione, in modo da riconoscere quella pratica per ciò che effettivamente è: una pratica religiosa, o viceversa etnica, meramente consigliata o obbligatoria, vincolante giuridicamente o religiosamente o tradizionalmente, e così via.

L'identificazione è pertanto la prima dimensione dell'avvicinamento e del riconoscimento dell'alterità, quella che consente di differenziare la pratica e di percepirne esattamente i confini, la struttura, i significati, che permette di distinguerla da pratiche simili e appartenenti a contesti diversi, che insomma rappresenta la dimensione elementare della conoscenza dell'Altro.

Ad un secondo livello, riconoscere significa accettare, prendere atto di una certa realtà e "fare i conti" con essa. Così come riconosco di avere un certo debito, o di aver vinto un concorso, o che Tizia non mi ama quanto vorrei, a questo livello riconoscere significa attestare l'esistenza di una data realtà e prendere atto che essa ha una consistenza. Concretamente, ciò significa che quella realtà viene posta come un dato a partire dal quale progetto la mia azione, e in riferimento al quale decido se e come agire. Ad esempio, se riconosco che Tizia non mi ama, a partire da questa attestazione posso decidere come pianificare la mia azione futura (e fare la corte ad un'altra donna).

Che significato assume tale forma di riconoscimento in relazione ai migranti? Essa implica la necessità di prendere atto delle pratiche connesse alla permanenza di una comunità di migranti, con riguardo all'incidenza di esse sul contesto relazionale generale. Riconoscere significa attestare che determinate pratiche (alimentari, o cultuali, o coniugali, ecc...) producono determinati effetti relazionali, e a partire dalla considerazione di tali effetti è possibile elaborare una prassi pubblica - una policy - che sia congruente con esse. Il riconoscimento pertanto, in questa prospettiva, è incompatibile con la pretesa di giudicare da un punto di vista esterno determinate pratiche; e tuttavia, ciò significa che se si vogliono elaborare politiche di integrazione è necessario che si prenda seriamente in considerazione, accanto a comprensibili richieste di riconoscimento, una seria attestazione degli effetti di una determinata pratica sul contesto relazionale di rifierimento.

In tal modo, e nell'ambito di una seria politica di riconoscimento, bisogna elaborare politiche che prendano in considerazione se e in che modo una pratica (ad esempio, un certo modo di impostare i rapporti familiari o coniugali) sia in grado di produrre effetti relazionali positivi nel contesto sociale di riferimento (una certa città, una metropoli, un piccolo paese...). Può darsi, ad esempio, che una certa pratica sia fortemente osteggiata dagli stessi soggetti che la applicano, o da una parte di essi (le donne, i minori, i più giovani), e che sia a sua volta veicolo di diffidenza o repulsione da parte degli altri individui che vivono in quel contesto, o che sia in concorrenza con altre pratiche analoghe, ma non ancora stabilizzate del tutto. Insomma, riconoscere significa prendere atto di tutti questi elementi, e tenerli in considerazione nell'elaborazione di policies per l'integrazione.

Infine, riconoscere qualcosa significa validarne i contenuti; a questo livello riconoscere tende a tradursi nell'attivazione di un meccanismo di riconoscenza, o più esattamente di accettazione. Riconoscere è anche accettare, ed essere riconoscenti, attivare una gratitudine, o più in generale manifestare un atteggiamento di positiva disponibilità verso qualcosa o qualcuno.

Per ciò che attiene all'immigrazione, ciò significa chiedersi, dopo aver identificato una pratica, e dopo averne attestati gli effetti sul piano relazionale, quale debba essere l'atteggiamento da assumere verso una determinata pratica veicolata da quegli Altri che chiedono di essere riconosciuti (F. Viola, 1997, 117; S. Lukes, 1997, 213 ss). E dunque, se i beni relazionali che la pratica porta con sé sono apprezzabili positivamente (si potrebbe dire: se essa produce effetti positivi a livello sociale, nel tessuto delle relazioni che si stabiliscono nella comunità) essa dovrà essere riconosciuta e tutelata, dovrà cioè tradursi in diritti e in garanzie per le persone; se i beni relazionali sono irrilevanti socialmente (una pratica può produrre solo, o prevalentemente, effetti privati: si pensi a molte pratiche relative all'igiene personale) la pratica dovrà essere riconosciuta come libera, senza per questo ottenere alcuna tutela specifica da parte dell'ordinamento; se infine i beni relazionali sono apprezzati in senso negativo, perché ad esempio la pratica in oggetto attiva comportamenti violenti, o perché si rivela incapace di esprimere quel senso che pure pretende di veicolare, almeno in rapporto a pratiche alternative e concorrenti, dovrà allora essere ostacolata e qualificata come antigiuridica. E' il caso, per esempio, delle mutilazioni genitali femminili, almeno nelle forme più invasive, che per tale ragione dovrebbero essere ritenute antigiuridiche; non cioè per contrarietà ai nostri valori, o alla nostra cultura, ma perché produttive di beni relazionali negativi, e sostituibili con pratiche meno cruente e idonee a veicolare gli stessi significati in modo altrettanto forte.

4. Riconoscimento, integrazione, inclusione. L'illusione della cittadinanza.

Se quello descritto fin qui può rappresentare l'ossatura, la struttura fondamentale, di un percorso di riconoscimento, la concessione della cittadinanza, ma in certa misura persino la stabilizzazione del permesso di soggiorno per i lungo-residenti, devono porsi in rapporto con tale modello. L'attribuzione della cittadinanza insomma, come pubblica attestazione dell'inclusione sociale e dell'integrazione in una comunità nella quale ci si riconosce e dalla quale si è riconosciuti, non può che modellarsi su tale struttura del riconoscimento; e tuttavia, se si osservano le politiche più diffuse in materia, sia che si basino sul principio dello jus soli che su quello dello jus sanguinis, esse manifestano una diversità che potremmo definire addirittura paradigmatica.

In particolare, ciò che non pare adeguato alla complessità dei fenomeni in questione è l’idea che essi possano trovare un quadro istituzionale appropriato nell’istituto della cittadinanza – ovvero nella attribuzione di tipo ascrittivo di una serie di diritti collegati ad essa – e in una logica individualistica modellata sulla figura del diritto soggettivo. In particolare, il modello della cittadinanza si è sempre costruito, nella modernità come il fondamento di un rapporto verticale e duale fra il singolo – che è o chiede di essere – cittadino e lo Stato, che in virtù di tale status riconosce al singolo una serie di diritti e forme di tutela (T.H. Marshall, 1964). In un paradigma del genere, evidentemente, non entra né viene presa in considerazione la dimensione relazionale; più precisamente, l’insieme delle relazioni che qualifica l’identità del singolo, e che anzi determina tale identità, è del tutto irrilevante.

Il problema è che i diritti e le tutele che il singolo chiede all’ordinamento, per contro, non sono affatto indipendenti da tale sistema di relazioni; anzi, la dimensione relazionale è l’unica che, in molti casi, dia senso e sostanza ai diritti di cui il soggetto è riconosciuto titolare. Ciò si nota nelle difficoltà in cui si imbatte l’ordinamento ove tenti di gestire i problemi legati all’interazione fra culture differenti, e alla disciplina delle pratiche culturalmente rilevanti; anche in tale contesto, infatti, la prospettiva resta pur sempre quella individualista: è il diritto del singolo al riconoscimento della propria identità che si cerca di garantire ed armonizzare con l’ordinamento, o al contrario di ostacolare laddove contrasti con i diritti di altri soggetti, non comprendendo che la cultura non è tanto uno specifico orientamento dell’autonomia individuale quanto una forma di vita, ovvero qualcosa entro cui acquistano senso le relazioni di un determinato gruppo sociale (L. Wittgenstein, 1967, 143; E.F. Isin - P.K. Wood, 1999; E.F. Isin - B.S. Turner, 2007, 5).

Insomma, usare il principio di cittadinanza come perno per l’edificazione di una disciplina dei fenomeni migratori e della realtà sociale conseguente, significa utilizzare uno strumento che sino ad ora è stato pensato per qualificare e determinare l’appartenenza del singolo alla comunità, definendola come un rapporto verticale e ascrittivo fra il soggetto medesimo e lo Stato (per la legittimità di tale prospettiva D. Zolo, 2000, 5). Ciò si rende ancor più evidente laddove (come mi sembra capitare oggi) l’appartenenza del singolo alla comunità si appiattisca sulla dimensione giuridico-istituzionale; nel senso che la cittadinanza, ed i diritti ad essa legati, si riducono sostanzialmente ad una concessione di tipo politico e amministrativo, all’attribuzione di uno status personale modellato su una figura giuridica astratta.

Tuttavia, in tal modo, viene misconosciuta la dimensione sovra-funzionale della cittadinanza; essa non può essere infatti ridotta al piano, pur essenziale, dei rapporti politico giuridici che un individuo intrattiene con una comunità, dovendosene per contro riconoscere la dimensione sociale e relazionale. La cittadinanza è una realtà che si produce e si determina socialmente, e che sul piano delle relazioni sociali si evolve e si riempie di contenuti che stanno ben al di là di quello giuridico e politico (M. Walzer, 1981; J.L. Hudson, 1986, 6); appiattirla su tale livello, perciò, significa misconoscere la rilevanza di tutte le altre dimensioni che la qualificano, e che sono di tipo psicologico (i sentimenti di appartenenza e di identificazione), culturale (le pratiche e le tradizioni con cui ci si identifica), economico (il sistema di scambi e rapporti in cui ci si trova) e sociale (i rapporti che vengono vissuti e le regole che li disciplinano) (P. Donati, 1993, 27).

Da un lato, pertanto, il modello verticale, ascrittivo, della cittadinanza, non è adeguato né per favorire un modello di integrazione, né si coordina con le pratiche sociali che la favoriscono. E dunque, basare le strategie di integrazione sul paradigma della cittadinanza (e dei tempi e dei modi per attribuirla) significa fallire fatalmente l'obiettivo poiché, invece di muoversi secondo due binari paralleli, tali dimensioni sono gestite secondo logiche del tutto diverse e non necessariamente compatibili. Ciò, come detto, perché la cittadinanza ascrive diritti e doveri in un rapporto verticale che lega il singolo individuo all'ordinamento e allo Stato; mentre l'integrazione, come ho cercato di mostrare nel terzo paragrafo, si costruisce anzitutto in una dimensione orizzontale, nel complesso delle relazioni di riconoscimento che si instaurano fra comunità, famiglie, individui, e fra questo livello e il livello della politica e della legislazione.

D'altro canto, il modello della cittadinanza, ma in effetti anche le molte forme di stabilizzazione della permanenza, gestiscono l'immigrazione come se tale fenomeno riguardasse prevalentemente gli individui (i singoli migranti) e i loro diritti, e non piuttosto i sistemi relazionali che sono coinvolti nelle dinamiche migratorie. Al contrario, per gestire l'immigrazione, è necessario considerare oltre ai singoli individui anche i vincoli relazionali che determinano e supportano la scelta migratoria, così come l'arco temporale plurigenerazionale nella quale essa si inquadra (N. Gerd Schiller et aa., 1992).

5. Conclusione. Verso un modello di inclusione non ascrittivo.

Se dunque si vuole disciplinare correttamente e (più di tutto) efficacemente la realtà dei fenomeni migratori, è necessario recuperare al concetto di cittadinanza la sua dimensione sovra-funzionale, e dunque il carattere organico (e non meramente ascrittivo) dell’appartenenza alla comunità; in altri termini, bisogna cominciare a ripensare il soggetto sociale non solo come colui che gode di uno status particolare che gli viene attribuito dall’ordinamento, e che lo inserisce in una rapporto di tipo verticale con lo Stato, ma come colui che è inserito in quella rete di relazioni che costituiscono la società, e che a causa di ciò sono giuridicamente rilevanti. Si tratta, in un certo modo, di invertire la prospettiva: non fa parte della società ciò (colui) cui l’ordinamento attribuisce rilievo, ma viene riconosciuto giuridicamente ciò che (colui che) si inserisce organicamente nel sistema delle relazioni sociali.

È necessario, insomma, che tale contesto relazionale, sia quello di partenza che quello di destinazione, sia messo al centro delle politiche di riconoscimento; non solo la decisione sulla destinazione finale della migrazione viene presa in considerazione delle possibilità per il soggetto di inserirsi in un sistema relazionale già radicato in loco (una comunità di parenti o connazionali), ma sono queste stesse reti che svolgono un ruolo di primo piano nell'organizzazione del viaggio, nella ricerca di una collocazione abitativa e lavorativa, nell'adempimento di obblighi amministrativi, nella fornitura di risorse cognitive se non anche economiche indispensabili per il viaggio (C. Regalia - E. Scabini - G. Rossi, 2009). Sono queste reti che, se non possono supplire a eventuali carenze funzionali del migrante, o a un difetto di competenze, costituiscono il riferimento essenziale sul piano esistenziale, rendono possibile concretamente l'attuazione del progetto migratorio, e forniscono i riferimenti indispensabili per un'integrazione effettiva nel contesto di destinazione.

Allo stesso modo, il contesto familiare svolge un ruolo cruciale sia per la definizione del progetto migratorio sia per la valutazione dei suoi esiti. Tanto la decisione di migrare, quanto le sue modalità e le tappe del suo svolgimento, quanto infine la valutazione dei risultati della migrazione, sono tutti elementi che vengono valutati, elaborati e programmati all'interno del nucleo familiare di riferimento. La famiglia procede alla designazione del soggetto migrante, conferendogli spesso una sorta di mandato, e pianifica anche il successivo ricongiungimento, ove possibile. Insomma, attiva col migrante un complesso legame che va dal momento della realizzazione del progetto migratorio all'elaborazione di una serie di vincoli anche finanziari all'interno di un meccanismo di restituzione e di obbligazione reciproca tra migrante singolo e gruppo familiare di riferimento.

Ancora, la vicenda migratoria si colloca all'interno di un arco temporale che copre più generazioni, ed è in rapporto a tale sfondo che essa va compresa. Sul singolo migrante e sulle sue capacità di integrazione pesano infatti tanto la sua capacità di costruire legami e relazioni orizzontali con la comunità di accoglienza, scegliendo come costruire la sua identità in rapporto al contesto di destinazione, quanto l'asse verticale entro il quale si colloca la sua esperienza: il legame di fedeltà con le generazioni precedenti da un lato, la capacità di costruire un contesto solido e integrato per i figli dall'altro. In altre parole, la famiglia, tanto nella dimensione verticale quanto in quella orizzontale, è uno dei nodi principali di una rete relazionale che unisce il singolo migrante, la comunità di provenienza e quella di accoglienza, ed è all'interno di questa rete che vengono filtrati i contenuti culturali e religiosi, le aspettative, gli strumenti materiali e cognitivi per l'integrazione.

Anche in tal caso perciò, concentrarsi sui problemi e le capacità di una generazione di migranti, valutando il successo o l'insuccesso delle politiche di integrazione con esclusivo riguardo ad essa, significa perdere di vista l'orizzonte familiare verticale nel quale la migrazione si colloca, orizzonte che può conoscere, in fasi diverse e per diverse generazioni, problemi del tutto differenti, fasi di crisi e fasi di relativamente facile integrazione, e così via. Solo considerando, ancora, la famiglia come la protagonista della vicenda migratoria, tale deficit epistemologico può essere colmato.

Indicazioni bibliografiche

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