Donne del Paraguay, mito che non muore, di Andrea Galli
Riprendiamo da Avvenire del 23/2/2014 un articolo scritto da Andrea Galli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (16/3/2014)
«Per me la donna del Paraguay è una donna gloriosa. Dopo la guerra c’era rimasto un uomo per ogni otto donne. E hanno fatto la scelta di avere figli, salvare la patria, la cultura, la fede». Sono le parole che papa Francesco ha pronunciato nel lungo colloquio con i giornalisti di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, in aereo. Un argomento a lui caro e che ha richiamato diverse volte anche da arcivescovo di Buenos Aires, toccando nel vivo i tantissimi paraguayani, quasi un milione, che affollano i quartieri poveri ma non solo della capitale argentina.
Proprio domani in Paraguay è il giorno nazionale della donna, festa introdotta nel 1974, ma soprattutto quest’anno è il 150° anniversario dell’inizio di quella tragedia che ha creato in larga parte l’epica della donna paraguayana: la guerra della Triplice Alleanza, che dal 1864 si protrasse fino al 1870 e che vide il Paraguay soccombere di fronte a Brasile, Argentina e Uruguay.
Fu il conflitto più sanguinoso della storia del Sud America, che iniziò come in una sinistra staffetta mentre finiva il conflitto più cruento della storia del America del Nord, la guerra di secessione negli Stati Uniti. Fu anche una delle sconfitte più devastanti nella storia moderna: non ci sono numeri certi, ma gli storici convergono sulla stima di 300 mila morti per una nazione che contava all’inizio della campagna militare 450 mila abitanti, con una un perdita attorno al 60% della popolazione. L’élite paraguayana – professionisti, funzionari, imprenditori – fu annichilita e di uomini sopra i 15 anni ne rimasero appena 25 mila, molti feriti e stremati dalla fame.
Ma come si arrivò a quello che l’ex presidente Federico Franco ha rievocato due anni fa come un «olocausto » del Paese sudamericano? Nel 1846 il console statunitense definiva il Paraguay, in un dispaccio un po’ troppo enfatico, «la nazione più forte del nuovo mondo dopo gli Stati Uniti… il suo popolo è il più unito, il governo è il più ricco di qualsiasi altro Stato del continente». Certo è che il Paraguay godeva di un buon tenore di vita, a differenza dei suoi vicini non era indebitato con l’estero, aveva un’industria estrattiva ben avviata, soprattutto del ferro, con fonderie, cantieri per la costruzione di battelli fluviali, fabbriche di utensili e di armi. Nel 1861 inaugurò anche la prima tratta ferroviaria. Ma soprattutto l’agricoltura era in forte crescita, grazie a una pianificazione statale e a un prodotto d’eccellenza a livello mondiale, il cotone.
Un balzo in avanti avvenuto per opera di una classe dirigente che dopo l’indipendenza dalla Spagna nel 1811 aveva chiamato dall’Europa ingegneri e tecnici specializzati per modernizzare il Paese, proteggendolo con un’attenta politica doganale che aveva dato fastidio a molti Paesi, tra cui l’Inghilterra. Il presidente che fece deragliare un sogno di sviluppo in una volontà di potenza e di rivalsa soprattutto nei confronti del Brasile, con cui il Paraguay era ai ferri corti per dispute territoriali, fu Francisco Solano López Carrillo, detto il Mariscal, il maresciallo.
La causa scatenante fu il ruolo del Brasile nel rovesciare il governo dell’Uruguay alleato di Asunción, che spinse Solano López a dichiarare guerra all’ingombrante vicino nel novembre del 1864 e a invadere il Mato Grosso. Nel giro di pochi mesi però stipularono un’alleanza (probabilmente preparata ben prima delle ostilità, sotto ispirazione inglese) Brasile, Argentina e Uruguay. Con una popolazione complessiva circa di 25 volte superiore a quella del Paraguay, assediarono il Paese e lo stritolarono. Fu una guerra di attrizione durissima, tra paludi, fiumi e foreste che finì solo cinque anni dopo con l’uccisione di Solano López, braccato nel Nord-Est.
In quella macelleria tropicale, mentre il Mariscal arrivò a spedire al fronte bambini di 10 anni con barbe finte per farli apparire più grandi, con gli ufficiali senza scarpe e le uniformi a brandelli, con i soldati mandati all’assalto con lance e accette, le donne, le cosiddette Residentas, si comportarono eroicamente nelle retrovie.
E soprattutto furono loro, in un Paraguay rimasto senza uomini, a ricostruirlo pezzo dopo pezzo. Un protagonismo diventato leggendario, ma che in realtà ha radici antiche e complesse. Don Giuseppe Zanardini, salesiano da 35 anni in Paraguay, di cui è diventato uno dei massimi antropologi, spiega: «Quando gli spagnoli arrivarono nel 1537 fondarono Asunción come base militare. Il rapporto con gli indigeni fu tutto sommato pacifico e furono moltissimi i soldati che ebbero figli con donne guaranì. Ma qui si creò una situazione abbastanza unica rispetto alle altre colonie: i figli crescevano nei villaggi indigeni, parlando la lingua locale, allevati dalle madri e dall’insieme della comunità, mentre i padri rimanevano lontani. Così è nato il Paraguay meticcio e questo è il motivo per cui la lingua guaranì è oggi quella del 90% della popolazione. Lì si è forgiata anche una identità femminile molto forte. La donna come guida della famiglia, responsabile della crescita dei figli ma anche del sostentamento economico. Una presenza salda, affidabile, di fronte a un uomo o assente o comunque molto meno responsabile». Questo rapporto tra i sessi, seppur livellatosi nel tempo, ha lasciato anche strascichi negativi.
Il Paraguay è oggi il Paese in America latina con la più alta percentuale di madri solteras , ragazze madri o madri nubili. «E infatti – spiega Zanardini – nella catechesi oggi si insiste sul tema della responsabilità maschile nella famiglia e nella società. Resta una grande sfida educativa per tutto il Paese».