Compagni di battaglia, di Annalisa Teggi
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Riprendiamo dal blog di Annalisa Teggi Capriole cosmiche un suo articolo pubblicato il 20/2/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2014)
Il popolo non è mai matto. Essendo io stesso del popolo, lo so bene.
Perciò adesso andrò a offrire da bere a tutta quella gente laggiù.
G. K. Chesterton, L’uomo che fu giovedì
Si comunica la comunicazione e non si conosce la comunione.
Giovanni Lindo Ferretti, Barbarico
Sempre più spesso mi trovo a detestare l’umanità e ad apprezzare le persone. Mi spiego. Tutti noi – ormai – siamo immersi nel mondo «social», cioè nella condivisione virtuale di ogni nostro spostamento, pensiero, foto, e la cosa comporta notevoli vantaggi, a cui io non mi sentirei più di rinunciare. Riesco a parlare e vedere un’amica che sta in Australia (Skype); come giornalista riesco a recuperare notizie e documenti in tempo reale (Twitter e Google); con un clic riesco a raccogliere e archiviare tutto il materiale interessante che trovo in giro (Pinterest).
Però, tutto ciò contiene un grosso limite, che non voglio demonizzare; semplicemente non lo voglio accogliere passivamente, se no lievita e s’ingigantisce: mi riferisco al fatto che, ad esempio, leggere i commenti dei lettori sui siti di Repubblica o del Corriere nuoce gravemente alla salute. Si corre il serio rischio di credere che l’umanità sia un mostro, fatto di persone egocentriche, senza scrupoli e prepotenti.
Il virtuale innesca un surplus di prepotenza e logorrea che non sono affatto autentiche, è solo pura vanagloria da monologo. Nei commenti “virtuali” le posizioni si radicalizzano e non perché uno si sente più libero di esprimere il proprio pensiero, bensì - credo – perché ciascuno non sta davvero parlando a nessuno. E, allora, non solo la spara grossa, ma diventa falso … pur credendo di essere al massimo della sua onestà. Parlare senza un vero interlocutore è pericoloso. Lo dico, innanzitutto, a me stessa: è insidiosa la tentazione di essere visibile, rimanendo fondamentalmente invisibile. È facile lasciarsi andare a ruota libera, sparando opinioni e grandi assiomi … buttandoli così nel web, cioè – di fatto – nel vuoto. Tutti abbiamo bisogno di sfogarci, ma lo sfogo è e resta solo un rigurgito. Cioè, uno sputo; cacci fuori, e basta. E quante volte è facile scambiare uno sfogo per una discussione (soprattutto se l’interlocutore non è fisicamente presente).
Come scrive G.L. Ferretti:
Devo rifuggire, me lo sono promesso, la polemica. Se le concedo spazio, me ne lascio prendere, ne divento succube: eccita la mia vanità intellettuale, mi tonifica ma dà assuefazione, occorre aumentarne le dosi per mantenerne l’effetto; un macigno che cresce, annebbia l’intelletto e grava sullo stomaco.
Lo sfogo e la discussione sono agli antipodi. E la discussione è una cosa benedetta, innanzitutto perché frantuma il nostro pregiudizio di avere la Verità in tasca. Noi tendiamo a una compiutezza che raccolga tutto il vero di noi …, ma non abbiamo comodamente la Verità in mano (cioè non la possediamo in modo esauriente e pacifico una volta per tutte), ce la dobbiamo sudare dentro le contraddizioni del mondo. “Il mio tutto che ancora si ostina a cercare una via” – canta Niccolò Fabi: tutti siamo impelagati a cercare di dare un nome al mistero di noi e delle cose che viviamo.
Ognuno cerca una via, per questo ogni reale incontro/scontro umano è comunque e sempre una compagnia, cioè un confronto che anche quando è oppositivo non è mai tra individui isolati in galassie diverse, bensì impantanati nella medesima esperienza terrena.
Sfogarsi è facilissimo, discutere è impegnativo e interessante. Sfogarsi richiede la rabbia bestiale e cieca di chi in fin dei conti parla solo per se stesso, discutere richiede l’impegno vigoroso di tendere innanzitutto la mano a chi si ha di fronte. Sono peraltro convinta che i peggiori litiganti siano quelli che se ne stanno impeccabilmente seduti e distaccati, a sbraitare; invece, a chi discute seriamente può capitare di mettere le mani addosso all’altro – una forma, per carità esagerata e sbagliata, di riconoscere che l’altro «c’è». Ognuno di noi è un casino ambulante e urtarsi dal vivo ha il vantaggio sano di ricordarcelo.
Sarà, forse, ciò che Jonah Linch definisce la testardaggine della materia:
Nel corpo sperimento la bellezza della relazione. Sperimento che i limiti fisici non sono una gabbia mortale, ma un confine permeabile, che consente la comunione. Sperimento che, proprio perché la mia mano non è quella della persona che la stringe, è bellissimo che le nostre mani siano unite.
Perciò, non voglio farmi fuorviare dai mostri umani virtuali, proprio perché anche io sono capacissima di diventare un mostro umano sordo e sputa-sentenze. Ma è un abbaglio, un’astratta mutazione distorta – che è più facile salti fuori in contesti «social», ma da cui ci si può vaccinare rimanendo corporalmente sociali. Praticando la realtà della socievolezza. Non rinunciando alle chiacchiere con gli amici al bar e alle litigate col vicino che ha parcheggiato dove non deve. E, in questi casi, l’umanità astratta va a farsi benedire; salta fuori la persona, e se pure la disprezzi… in fondo la apprezzi. Cioè, in nessun caso puoi ignorare la relazione con lei.
Ad ogni cosa faccia realmente capolino sulla nostra strada «come a uno straniero dategli il benvenuto» – diceva Amleto. Dai il benvenuto a uno straniero, perché anche tu sei in fondo straniero a te stesso. La realtà ha questo prepotente vantaggio sul virtuale, è più difficile ‘cantarsela e suonarsela’ da soli; per strada, in ufficio, a casa ogni incontro/scontro umano contiene sempre una promessa: la speranza di venire al dunque delle cose.
Non l’ho detto io – magari! – l’ho trovato in una poesia bellissima di Umberto Fiori:
È bello di sera vedersi
da qualche parte, a casa di qualcuno.
Sentirsi ogni tanto, parlare.
Quando si dice: alle otto
da me, da loro,
ogni volta ci senti una promessa.
È come se in quei discorsi
la gloria che rimane sempre nascosta
potesse prima o poi venir fuori.
Ti stanno in testa ormai, queste serate,
come i bambini
la notte di Natale.
Sempre un dunque ti aspetti
da quelle quattro chiacchiere,
una stretta finale, un chiarimento.
Invece, niente: a parte quando si ride
nessuno è poi lì dov’è,
nessuno parla – o ascolta – veramente.
(E certo è anche bello, e strano
e grande anche, a pensarci, tenere a bada
così alla buona, con poco, la verità)
Ma a volte si ragiona intorno al tavolo,
si fa sul serio:
comincia una discussione.
(Umberto Fiori, Chiarimenti, Marcos Y Marcos, 1995)