La coscienza tra Romano Guardini e Papa Francesco, di Pietro Messa
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Riprendiamo dall'Agenzia di stampa Zenit del 20/2/2014 un breve testo scritto da padre Pietro Messa ad introduzione di un brano di Romano Guardini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/2/2014)
Certamente il ruolo e l'importanza della coscienza è uno dei temi che Papa Francesco ha richiamato nel suo primo anno di pontificato. Per comprendere maggiormente tale aspetto del suo magistero è utile rileggere lo scritto "La Coscienza" di Romano Guardini. Infatti Francesco in occasione dell'insediamento nella Cattedrale di Roma, ossia la Basilica di San Giovanni in Laterano, richiamò il suddetto teologo italo-tedesco, quasi a raccogliere la consegna fatta da Benedetto XVI nel discorso di saluto ai cardinali - l'ultimo suo intervento ufficiale - la mattina di giovedì 28 febbraio, poche ore prima di terminare il pontificato. Di seguito un brano in cui Romano Guardini richiama l'importanza della formazione della coscienza affinché agisca rettamente.
In tre modi anzitutto l'atto vivente della coscienza può soffrire pregiudizio. Accenniamoli brevemente: la coscienza può diventar superficiale, frivola, ottusa. La coscienza ci rende la vita più pesante. Più ricca di contenuto, più degna - ma anche più pesante. Ora in noi vive la tendenza a cercar le vie facili e a liberarci dai pesi. Donde un lavorio interno, che mira ad attutire la voce della coscienza. Non si tratta sempre di una volontà consapevole; può darsi che agisca la sfera del subcosciente.
Ciò può avvenire in mille modi: facendo sì, ad esempio, che lo sguardo venga distratto dalle linee spiacevoli di ciò di cui propriamente si tratta; che il punto più importante rimanga velato; che la situazione con la sua affaticante unicità e irripetibilità venga ridotta ad uno schema generale più comodo.
Altre volte il monito della coscienza viene tacitato e ci si rassicura, dicendo che alla fin fine non si tratta poi di cosa «tanto cattiva». Vengono messi in rilievo punti di vista atti a contestare. Ci si richiama a quello che fanno gli altri; si cerca per il proprio giudizio e la sensibilità personale uno sgravio di responsabilità col richiamo all'andazzo tradizionale, che «è stato sempre così»; all'ambiente che «è pure in buona fede»; al «sano buon senso» e simili, e così l'esigenza morale, che ha in sé sempre qualche cosa di duro, viene svigorita.
La coscienza può venir anche affinata eccessivamente. Può veder dei doveri là dove non ce ne sono; sentire delle responsabilità, che evidentemente non esistono; esagerare gli obblighi oltre i limiti del giusto e del possibile. (È specialmente l'uomo di tendenze sociali, che è in pericolo di sovraccaricare la sua coscienza). Sì, la coscienza può andar soggetta a vere malattie. Il puro e chiaro dovere che, per quanto difficile, solleva sempre in alto, può trasformarsi in ossessione.
Il comando della coscienza deve essere percepito nella libertà. Ma quando la coscienza è ammalata questa libertà sparisce e dal suo comando deriva una vera schiavitù: la coscienza angosciata, lo scrupolo. Nell'uomo infatti è profondamente radicato l'istinto segreto di tormentarsi, e in taluni temperamenti questo istinto opera con forza particolare. Se non viene guarito con cura prudente, può degenerare in malinconia. Ora questo istinto si serve spesso della coscienza come di un'arma terribile contro la propria esistenza. Nessun modo di tormentarsi è peggiore di questo.
La coscienza può venire alterata anche in un terzo modo, cioè nel suo contenuto. La nostra conoscenza non è uno specchio, che riproduca semplicemente quello che si para innanzi ad esso. Noi non apprendiamo la situazione, come una macchina fotografica coglie l'oggetto. Nel nostro sguardo siamo presenti noi stessi. Noi stessi, col nostro temperamento, coi nostri desideri, coi nostri motivi palesi e segreti siamo già contenuti nello sguardo, che dirigiamo sulle cose: così, guardandole, le modelliamo. Non le prendiamo come sono in se stesse, ma come vorremmo che esse fossero, cioè tali da trovarvi un ambiente ospitale per i nostri desideri e per i nostri sentimenti.
Noi desidereremmo di veder nella situazione la conferma di quello che siamo. Vorremmo che da essa ci venisse incontro quello che portiamo in noi stessi, come aspirazione. Così noi interpretiamo la situazione secondo i nostri desideri coscienti ed inconsapevoli. Questi ultimi specialmente esercitano una grande influenza. La moderna psicologia ha dimostrato quanto profonda sia l'influenza della volontà incosciente sugli atti della percezione. Il calcolo delle misure, l'attenzione alle differenze, il senso dell'urgente e del meno urgente, del principale e dell'accessorio, - tutto questo subisce tali influenze. Anzi l'esperienza dimostra che spesso noi sopprimiamo addirittura degli oggetti che ci riescono molesti.
La psicologia del dimenticare, del perdere, dell'omettere, ci dimostra che noi possiamo andar cercando per ore ed ore oggetti, che pure abbiamo sul tavolo dinanzi a noi, perché un qualche occulto motivo non vuole che li vediamo; ma non appena il motivo cessa o non è più cosi urgente, l'oggetto ci capita subito sotto mano. Il giudizio sulle persone e la valutazione del loro modo di agire, dei loro sentimenti e delle loro intenzioni, dipendono moltissimo dalle nostre disposizioni interne, dalla simpatia o dall' avversione. Cosi si dica anche della comprensione di rapporti e di molte altre cose. Tutto questo richiama alla nostra attenzione importanti problemi pedagogici: quelli della formazione della coscienza nell'educazione degli altri e di noi stessi.