Facebook compie dieci anni. E Zuckerberg regala un video..., di Teresa Numerico
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Riprendiamo da L’Unità del 4/2/2014 un articolo di Teresa Numerico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e media nella sezione Catechesi e pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (9/2/2014)
Il 4 febbraio di dieci anni fa Mark Zuckerberg lanciò il sito thefacebook.com. Era una nuova versione del precedente Facemash che aveva lanciato insieme ad alcuni studenti colleghi di Harvard pochi mesi prima. Il sito offriva la possibilità di pubblicare la propria foto su una sorta di annuario universale di Harvard. In dieci anni è diventato forse il principale sito di social networking.
La scorsa settimana, pubblicando i risultati del 2013, Facebook ha dichiarato ricavi per 7,8 miliardi di dollari, di cui utile netto 1,5 miliardi. Il numero degli utenti attivi quotidianamente è di 757 milioni, mentre il dato degli utenti attivi mensilmente è 1,23 miliardi, solo un centinaio di milioni meno degli abitanti della Cina.
Ma cosa offre Facebook? È difficile dire. Secondo alcuni osservatori la parabola di Facebook sarebbe già in declino. Diminuisce, infatti, la sua popolarità nella generazione degli adolescenti, che sembrerebbero preferire social network più veloci come Twitter, Instagram (acquistato da Zuckerberg da circa due anni) e Snapchat. Come Facebook travolse letteralmente MySpace, così altri social potrebbero adesso soppiantarlo. Ma se gli adolescenti lo trovano troppo noioso e impegnativo, i genitori e forse anche i nonni si stanno affacciando, sempre che i dati dello spregiudicato Zuckerberg dicano la verità.
Cosa spinge milioni di persone in una sorta di frenesia collettiva a raccontare in pubblico i propri fatti personali? A condividere gusti, preferenze, desideri, paure con amici e conoscenti, ai cui nomi a stento associano dei volti? Sarà forse la nostra grande solitudine, la fine delle ideologie collettive, l’impossibilità di credere nella forza del cambiamento di un pensiero condiviso, che ci spinge a mettere in comune le piccole cose, anche quando sono di pessimo gusto, e all’ossessione collettiva della pubblicità sul nostro privato come sostiene lo studioso Geert Lovink?
Eppure lo facciamo. Siano link colti o commenti alla partita della nostra squadra del cuore, l’abbandono da parte della fidanzata o la nostra intenzione di voto, non importa il contenuto. Il contenuto è una commodity. È desiderio di esserci. Di non essere tagliati fuori, ma fuori da cosa? Sul New York Times, in occasione dei 10 anni di Facebook, si spingono i lettori a scrivere come e perché la loro vita è stata cambiata da Zuckerberg, e il messaggio positivo più ricorrente - anch’esso una messa a nudo pubblica di sentimenti privati sulle pagine del giornale online - dichiarava un incontro con la persona amata ritrovata dalle nebbie degli anni del liceo, o amicizie riesumate dai tempi dell'adolescenza e poi perse di vista.
Il mio cuore messo a nudo. Ma Baudelaire scriveva poesie. Noi invece scriviamo, se va bene, post sgrammaticati, pubblichiamo foto di feste improbabili, di viaggi esotici o solo di noi. Si chiama Selfie. Forse si tratta della possibilità di governare l’effetto che facciamo? Di descrivere la nostra vita mantenendo un controllo sull'interpretazione dell'esperienza. Nel suo libro Insieme ma soli, Sherry Tuckle si chiede le ragioni per cui domandiamo tanto solo alla tecnologia e tanto poco alle persone. E non ci consola il fatto che coloro che sono più attivi e popolari sui social network lo sono anche nella vita reale. Ma quale separazione è ormai lecito costruire tra la vita sullo schermo e la vita offline? Basta andare al ristorante o al cinema per vedere quanto le persone non possano staccarsi dal proprio smartphone e avere una normale conversazione con chi gli sta di fronte, o guardare un film. Forse il postumano che ci attende è questo. La mediazione di ogni relazione attraverso la tecnologia, l’abbandono del corpo in sé come strumento di relazione e interfaccia col mondo. Il corpo amplificato dalle tecnologie della comunicazione interagisce con l'altro corpo dipendente anch’esso da una protesi. Una sorta di costante stampella della comunicazione.
Ma non si tratta solo di noi. O meglio, è di noi che si tratta. Come guadagna Facebook? Vende la sua capacità, la sua presunta capacità di narrare una storia coerente su ciascuno di noi, e prevedere/orientare i nostri desideri/bisogni futuri. Gli inserzionisti pubblicitari comprano da Facebook non soltanto l’attenzione degli utenti, ma la narrative che il social network riesce a costruire su di essi. Tra i compratori della narrative cominciano a comparire anche le riviste e le conferenze scientifiche. Nella pagina del data science group di Facebook vediamo intricati grafi che misurano le emozioni umane, quella dei tifosi prima o dopo la partita, o l’effetto che i contatti con le persone care hanno sullo stress quando abbiamo perso un lavoro, o le conseguenze della mobilitazione politica online sul voto. Tali risultati, privi di qualsiasi controllo e di qualsiasi metodologia condivisa vengano pubblicati su riviste scientifiche come Nature o presentati con grande successo ai convegni internazionali.
Si chiamano Big Data. Sono quantità di dati così grandi che non possono essere manipolati che attraverso algoritmi implementati su macchine in possesso di poche società, tra cui Facebook. Considerare scientifici i risultati di tecniche di intelligenza artificiale che si propongono di interpretare il senso delle emozioni, delle scelte, delle vite degli utenti ci sembra l'effetto più scioccante di questi dieci anni di Facebook.