Quel Tiziano politico che non ti aspetti. Il segreto ne "La Gloria" del Museo del Prado di Madrid che Carlo V volle contemplare sul letto di morte, di Giulia Spoltore

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /04 /2014 - 22:48 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito Aleteia un articolo di Giulia Spoltore pubblicato il 2/2/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2014)

@DR

Come si può raccontare in pittura il rapporto fede e politica? Tiziano Vecellio (1480/1485-1576) ci riuscì. Su richiesta di Carlo V d’Asburgo (per intenderci, l’imperatore che permise il sacco di Roma del 1527) il pittore veneziano articolò un discorso non encomiastico, ma profondamente spirituale nella cosiddetta Gloria del Museo del Prado di Madrid. La grande tela che probabilmente Carlo V voleva destinare alla sua cappella funeraria fu commissionata tra il 1550 e il 1551 e consegnata dal Vecellio nel 1554. Da fonti documentarie sappiamo che l’imperatore stesso, coadiuvato da un’equipe di teologi, contribuì in maniera determinante all’elaborazione dell’iconografia di questo suggestivo dipinto.

Dopo aver ottenuto il dipinto dal Vecellio, l’imperatore non se ne separò più, lo portò con sé a Yuste nel 1555, dove morì contemplandolo nel 1558. Racconta il suo cronista, José de Sigüenza, che Carlo V, nel suo letto di morte, chiese ai dignitari di presentar lui il ritratto della sua prima moglie Isabella, anch’esso dipinto da Tiziano, e che gli fosse portata poi la “tela del giudizio finale”, “qui il lasso di tempo fu più ampio e la meditazione più lunga”. Carlo V contemplò la tela fintanto che l’archiatra palatino non si chiese se “non fosse un male sospendere per tanto tempo le potenze dell’anima”, ma ormai era giunta la fine, il grande imperatore asburgico “con un fremito del corpo” e dicendo: “mi sento male”, si spense.

Una morte non certamente estatica o da sant’uomo, ma che ci interroga. Perché un uomo tanto potente ha chiesto di contemplare nei suoi ultimi attimi un dipinto? Senza rivolgersi ai presenti, senza parole di commiato, se ne è stato in contemplazione, in preghiera, in relazione con la sua stessa sorte fatta visibile nell’immagine. Per rispondere a questa domanda è necessario tener conto di due capitali differenze tra la nostra epoca e il Cinquecento. La dimensione spirituale ha una rilevanza nell’Europa cristiana dei secoli passati che oggi solo un cristiano in cammino può percepire: talmente importante era la relazione con Dio, in quanto relazione per eccellenza, da superare tutte quelle affettive, anche quelle siglate dai legami familiari. In seconda istanza l’immagine, nel cristianesimo dei secoli passati, aveva una pregnanza che per noi oggi non può avere: lo sfruttamento intensivo dell’immagine nella nostra società ha finito per svuotarla di significati spirituali. L’immagine nel Cinquecento ha a che fare con l’incarnazione, con la rivelazione del volto di Cristo, con l’epifania del volto che più desideriamo incontrare, con il fatto che Dio ha deciso, per ristabilire il patto di alleanza con l’umanità, di farsi uomo come noi, in tutto e per tutto, se non per il peccato. L’imperatore Carlo, alla fine della sua vita, non aveva altra urgenza che quella di preparare la sua anima all’incontro con Dio.

Cosa significa il dipinto? Questa immagine nasconde un programma complesso e lo dimostrano i molti nomi con i quali fu appellata nei secoli. Per Tiziano, per il suo amico letterato Pietro Aretino (ritratti sulla destra) e Cornelis Cort, che trasse la stampa dal dipinto, fu la “Trinità” e ci è noto dai documenti come la Trinità fosse uno dei temi centrali richiesti da Carlo V. Da lui stesso scaturì il desiderio di rappresentare nel dipinto la scena di S. Pietro da Verona martire, difensore della posizione atanasiana e ortodossa sulla Trinità. Per accentuarne la consustanzialità e la coeternità, Padre e Figlio sono raffigurati come uomini della medesima età, mentre per sottolineare la “processione” dello Spirito questo è rappresentato sotto forma di colomba[1].

Al momento in cui Tiziano si rivolse a Cornelis Cort per ricevere le spettanze (ovvero i suoi diritti d’autore) la definì “Paradiso”, forse avendo in mente il modello al quale si era ispirato per la composizione (la pala Landauer di Dürer del 1511). Carlo V e la sua corte di Yuste la definirono sempre con il nome di “Giudizio finale”, come anche l’inquisitore di Venezia, Valerio Faenzi il quale autorizzò Cort a pubblicare la stampa; mentre per i posteri, da Filippo II in poi, questa sarà “La Gloria”.

L’immagine è percorsa da un veemente dinamismo. Carlo V avvolto nel sudario è stato chiamato a giudizio: abbandonate le vesti di sovrano rimane solo la corona a simboleggiare il potere che era stato chiamato ad amministrare. La Vergine advocata[2] ha evidentemente già svolto il suo compito mediatore, se è rivolta al San Giovanni Battista (riconoscibile dalla croce astile) che con le braccia tese chiede spiegazioni. Cosa sono quelle rimostranze di Mosè il quale, aiutato dal profeta Ezechiele[3], mostra le tavole delle legge, segno dell’alleanza con Israele? Cosa indica il gesto di Noè, introdotto dalla personificazione della Sinagoga[4], che mostra alla Trinità l’arca corredata della colomba? Perché Davide sulla destra non canta i suoi salmi al Signore, ma con il salterio chiuso se ne sta ad ascoltare sbigottito? Se ormai il giudizio è stato emesso perché Carlo V e i suoi se ne stanno ancora lì ad impetrare con le preci?

Un giudizio è stato emesso, secondo l’infinita giustizia di Dio, ma Carlo V si sta appellando alla Gloria della Trinità, unica dispensatrice della misericordia, si appella non al Dio giusto dell’Antico Testamento, quello conosciuto da profeti e re, ma alla Trinità misericordiosa e alla sua Gloria (da qui il nome che il dipinto ottenne da Filippo II in poi) rivelatasi con l’incarnazione del Figlio. Infatti nulla potrebbe l’imperatore se dovesse essere giudicato secondo giustizia, la corona che gli sta ai piedi quasi automaticamente lo condanna. Nel dipinto Carlo V non ha nessun potere, avvolto in un povero sudario è solo un uomo corrotto dal peccato al quale la sua condizione di vita l’ha certamente avvicinato. La Città di Dio[5] protesta e non sapremo mai se nella sua infinita misericordia, il Signore ha perdonato Carlo V[6], ma ci interessa sapere che Carlo V commissionò il dipinto, che per lui era il “Giudizio finale” e che lo contemplò sino alla fine. Fino alla fine volle guardare l’incertezza della sua sorte.

Cosa dovrebbe significare questo dipinto per un cristiano che ha responsabilità politiche, sociali o che è chiamato ad amministrare un potere? “Respice finem” dice una massima molto in voga nel ‘500. Solo l’attaccamento filiale, insistente e appassionato a Dio può salvare l’uomo chiamato ad amministrare il potere. Con un occhio occorre scrutare la propria anima, con l’altro prepararsi al giudizio appellandosi alla Gloria e dunque al mistero della Resurrezione. Questa è l’eredità che Carlo V, l’ultimo vero grande imperatore, lascia a noi posteri attraverso il linguaggio persuasivo e coinvolgente di Tiziano.

Note al testo

[1] Per approfondire il problema della Trinità nel dipinto e dell’episodio di San Pietro da Verona martire nel paesaggio si veda Harbison, Counter-reformation Iconography in Titian’s Glory, in Art Bulletin, 1967.

[2] Questa è immagine della Vergine è un vero unicum ed enigma della pittura del Cinquecento.

[3] Per la presenza dell’aquila si veda Ez. 17,3.

[4] Su questa figura molto è stato scritto: interpretata come Maddalena, come Sibilla poiché associata all’escatologia e connessa a Davide nel Requiem, ma con Davide la figura femminile non intesse nessuna relazione, piuttosto con un gesto introduce Noè. Ci sembra poco probabile che una Sibilla possa incoraggiare Noè a mostrare la sua arca, più probabile che lo faccia la personificazione della Sinagoga.

[5] Per il background agostiniano di quest’opera si veda Panofsky, Tiziano. Problemi di iconografia, Venezia, 1992.

[6] Per la sorte di Carlo V si veda il sogno del 1582 raccontato dal frate Juan Casero riportato in Villacanas Berlanga, La Gloria di Tiziano in Carbone A. (a cura di), Iconografia e storia dei concetti, Palermo, 2008.