Ripensare la Giornata della Memoria. Anna Foa e Giorgio Israel intervengono nel dibattito
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Riprendiamo sul nostro sito due articoli sulla Giornata della memoria. Per approfondimenti sulla Shoah, vedi su questo stesso sito la mostra Voci dalla Shoah.
Il Centro culturale Gli scritti (2/2/2014)
1/ Il dogma della Shoah, di Anna Foa
Riprendiamo dal sito Gariwo. La foresta dei giusti un editoriale di Anna Foa pubblicato il 13/1/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (2/2/2014)
La Giornatadella Memoria di questo 2014 si prospetta come la più difficile dei suoi quattordici anni di vita. Da una parte, certamente, per i segnali sempre più diffusi di antisemitismo e di negazionismo, dagli stadi al web, da Dieudonné all’antipolitica al successo del Mein Kampf in e-book. Ma dall’altra, anche per la crescente consapevolezza - anche e soprattutto da parte di chi si impegna nella celebrazione, di chi va nelle scuole a parlare ai ragazzi e organizza convegni e dibattiti - che il rito del 27 gennaio, così come ora viene celebrato, richiede di essere ripensato e riempito di contenuti più adeguati al contesto in cui viviamo e alle domande che rivolgiamo al passato.
Certo, il fatto che l’antisemitismo si diffonda in un contesto in cui la Giornata della Memoria sembra affermarsi sempre più, dilatarsi a settimana o a mese della memoria, può porci la domanda se non stiamo proponendo un eccesso di attenzione alla Shoah tale da sollecitare il fastidio e forse anche la spinta al rifiuto e alla negazione. Ma non credo che sia l’eccesso di memoria a sollecitare una reazione opposta a quella che volevamo, quanto piuttosto il fatto che abbiamo sempre meno chiaro l’uso che vogliamo fare di questa memoria, stretti come siamo fra l’esigenza di difenderci dal negazionismo e la paura di toccare immagini e rituali consolidati. Ma così facendo rischiamo di trasformare la memoria in culto e il contenuto della memoria in dogma.
Così negli anni passati i dubbi che si levavano in occasione del 27 gennaio riguardavano soprattutto la questione se fosse più importante la memoria, con il suo bagaglio di soggettività e di emozioni, o la storia, che poteva apparire arida, troppo oggettiva, incapace di far aderire i cuori oltre che le menti. Ci si proponeva la necessità di rivolgersi alla storia, di usare gli strumenti della ricerca e della conoscenza invece di limitarsi a sollecitare la memoria. Oggi questo problema non è risolto, ma sembra superato dall’urgenza di capire se l’immagine della Shoah che proponiamo nella Giornata della Memoria è un’immagine adeguata al nostro intento. Intento che non può essere solo quello di tener viva la fiamma della memoria, ma deve necessariamente essere quello di usare questa memoria per guardare al mondo intorno a noi, decifrarne le realtà, combatterne i pericoli. Pericoli che ci appaiono sempre più reali.
Credo che per farlo sia necessario innanzi tutto aprire la memoria della Shoah a quanto è avvenuto nel secolo dei genocidi, il Novecento. Nella costruzione dell’oggetto Shoah, che si è compiuto in tempi lunghi, con periodi di rimozione ed altri di forte elaborazione del ricordo e grande crescita della ricerca storica, si è arrivati, alla fine degli anni Settanta, a definire l’”unicità” della Shoah e nel tempo a trasformarla in un vero e proprio dogma.
Che lo sterminio degli ebrei d’Europa abbia elementi assolutamente specifici, tali da non ricorrere negli altri genocidi che hanno segnato il Novecento, questo è indubbio. Ma da qui a separare nettamente la storia della Shoah dal resto della storia del Novecento, a rinunciare a usare per parlarne le parole con cui spieghiamo altri momenti della storia, a trasformarla in una sorta di elemento metastorico, ce ne corre. Non si tratta di banalizzare la Shoah, come pure viene fatto da alcuni, ma di reinserire nella lunga storia del Novecento, tanto fitta di violenze e genocidi, quella della Shoah, di sollecitare il confronto, la possibilità di analizzare le somiglianze e le differenze con gli altri genocidi, da quello degli Herero che apre il Novecento alla pulizia etnica in Bosnia che lo chiude, passando per il Rwanda e la Cambogia. Non concorrenza delle vittime, quindi, ma confronto dei processi storici e rigore delle analisi. Un approccio, insomma, storico e non teologico.
L’immagine che dovremmo dare è, credo, quella di un processo di conoscenza e di comprensione, non di dogmi a cui inchinarci, non di verità sovrastoriche da svelare, E non dobbiamo avere paura, facendolo, di aprire la strada alla negazione o alla banalizzazione della Shoah, né metterci troppo sulla difensiva di fronte ai propagatori razzisti e antisemiti di menzogne e ai seminatori di odio. Dobbiamo ricordarci, di nuovo e sempre, che la storia che vogliamo ricordare non è la storia degli ebrei, o almeno non è solo quella degli ebrei. Ma è soprattutto quella dei non ebrei, è quella di tutti, dei carnefici, degli indifferenti, di chi non voleva guardare, di chi tentava di reagire. La storia della Shoah riguarda tutti, come di tutti è il compito di raccontarla, di ricostruirla, di serbarne memoria, di usare questa memoria per impedire altri genocidi e altri razzismi. È a questo che dobbiamo guardare, questo è il messaggio che dobbiamo salvaguardare e trasmettere.
2/ Ripensare il giorno della memoria, di Giorgio Israel
Riprendiamo da Il Messaggero, 27 gennaio 2014 un articolo scritto da Giorgio Israel. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (2/2/2014)
Sono passati tredici anni dall’istituzione per legge del Giorno della Memoria, volto a ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico) e i deportati italiani nei campi nazisti con «cerimonie, iniziative, incontri … in modo particolare nelle scuole», per «conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».
Propositi ineccepibili, ma invece di aggiungere altre voci al coro che, di anno in anno, ha assunto le sembianze di una rotolante valanga – l’elenco delle iniziative in corso può riempire un volume – è più opportuno fare un bilancio e chiedersi se al moltiplicarsi di cerimonie e incontri abbia corrisposto un declino del razzismo e dell’antisemitismo. Purtroppo è accaduto il contrario: anche il razzismo e l’antisemitismo crescono a valanga.
L’invio di teste di maiale a tre luoghi simbolo dell’ebraismo a Roma è soltanto l’ultimo episodio. Basti pensare al dilagare nella rete, nei movimenti di protesta e nelle sortite di non isolati rappresentanti politici, della vecchia leggenda della congiura mondiale pluto-giudaica che sarebbe responsabile della presente crisi economico-sociale. L’antisemitismo è altresì contrabbandato sotto le spoglie dell’antisionismo: una vecchia mistificazione già denunciata decenni fa da Martin Luther King. Poi c’è il grande paradosso: sebbene pochi eventi storici come la Shoah abbiano il sostegno di una letteratura e di una documentazione imponente, viene fatto circolare il dubbio che non basti, che in realtà nulla sia provato. S’impancano a direttori d’orchestra di questo negazionismo alcuni “intellettuali” (i soliti “chierici traditori”, secondo la locuzione di Julien Benda) che voltano lo sguardo dall’altra parte di fronte ai documenti, come se tutto fosse ancora da dimostrare; o addirittura lasciano intendere che i Protocolli dei Savi di Sion potrebbero essere autentici; e che possono seminare questi veleni senza pagare pegno, continuando a essere coccolati, riveriti e invitati a tante iniziative culturali, come se nulla fosse.
Se questo è il risultato della valanga del 27 gennaio, allora sì che occorre fare una pausa di riflessione. In verità, i rischi erano evidenti dall’inizio. Ha sbagliato gravemente chi ha presentato la Shoah come un evento unico, impossibile da confrontare e persino da accostare a qualsiasi altro evento storico, fino al punto di imbastire una metafisica e una teologia della Shoah. Gli effetti di tale assolutizzazione si sono puntualmente verificati. Anche nelle menti non corrotte dall’ideologia è emerso un rigetto istintivo nei confronti di qualcosa che, non appartenendo alla storia terrena, appare estraneo e persino antipatico. Oppure, al contrario, è emersa una sorta di gelosia. Cosa di più appagante che far salire altre ingiustizie, anche di modesta portata, allo stesso rango di un crimine tanto grande da essere al di sopra di ogni accostamento? Così quando qualcosa va male, o è semplicemente spiacevole, è d’uso chiamarlo Olocausto o Auschwitz.
Tre anni fa, un corteo di insegnanti sfilò con la stella gialla appuntata sul petto per protestare contro un provvedimento legislativo: era la loro Shoah. Si trattava piuttosto di un esempio da manuale di come il mito dell’unicità della Shoah porti al suo uso improprio e alla sua banalizzazione. Ma attenti a dirlo: i cattivi maestri sono pronti a colpirvi (come è accaduto a me) con l’accusa di “sacralizzare” la Shoah... La faziosità ideologica arriva al punto di legittimare confronti insensati e tragicomici, mentre rigetta accostamenti ben più fondati; come quello tra Lager e Gulag proposto dallo storico ebreo Victor Zaslavzky, emigrato dall’Unione Sovietica. Egli descrisse il massacro di Katyn come un caso emblematico della politica di “pulizia di classe”, come Auschwitz lo era della politica di “pulizia etnica”. E aggiunse: «Il terrore ideologico basato sull’idea della purificazione della società dai corpi estranei e nocivi, dai parassiti sociali, definiti in base all’appartenenza alla classe sociale antagonista oppure al gruppo etnico nemico, rappresenta il denominatore comune del regime nazista e di quello sovietico». Eppure c’è chi si scandalizza di fronte all’accostamento di Zaslavsky mentre trova naturale dire che Lampedusa è come Auschwitz.
Se l’analisi storica razionale cede il passo al mito o all’ideologia, la porta è spalancata per i mostri. Anche i viaggi scolastici ad Auschwitz possono essere controproducenti se non sono preparati da un approfondimento storico razionale. Altrimenti, di fronte a tanto orrore, di cui non sono chiare le cause, nella mente del ragazzo sorgerà la domanda: “se si è arrivati a tanto qualche colpa doveva essere stata commessa”.
Purtroppo la scuola non fornisce l’ombra dei fondamenti storici necessari a capire i drammi totalitari del Novecento e il loro tragico lascito. Né potrebbe farlo, visto lo stato dell’insegnamento della storia, vittima di un implacabile attacco alla cultura umanistica, il quale è incurante del fatto che la morte della cultura umanistica è la morte della democrazia: me lo son sentito dire da uno storico sudafricano, qui dirlo comporta il rischio di essere messo alla gogna.
Se poi lo svilimento della cultura si accompagna al deserto morale di una società senza ideali, che non crede nel proprio futuro e abbandona i giovani al culto del consumismo e alla derisione dei valori morali, non basteranno dieci Giorni della Memoria. Raccontano che, dopo la morte di Mandela, in alcune scuole è stato proiettato il film “Invictus” e che l’attenzione si è concentrata solo sulle partite di rugby nel totale disinteresse per la “noiosa” tematica dell’apartheid e del razzismo.
Non c’è da stupirsi: come altrimenti potrebbe reagire chi è privo di coordinate storiche ed è stato educato a credere che il vertice della piramide sociale sia riservato a chi guadagna tanti quattrini, come i calciatori, mentre la cultura non si mangia e i principi morali sono roba da rottamare?
Commemorazione e memoria storica sono livelli distinti. Per la prima il migliore contesto è un silenzioso raccoglimento, poche iniziative mirate che non diano spazio ai presenzialisti che sgomitano per esibirsi. La seconda richiede un’opera complessa e di lungo respiro, in cui il ruolo centrale appartiene alla scuola, con un rafforzamento imponente dello studio della storia, condotto secondo una visione critica aliena da ogni ideologia.
Neanche questo può bastare se la società considera la cultura non come strumento di libertà ma come una perdita di tempo e denaro, e il senso morale un orpello inutile da sostituire con le regolette del politicamente corretto. Se questo andazzo non cambierà, non basteranno leggi e divieti o cento Giorni della Memoria per evitare gli striscioni razzisti negli stadi contro i “negri” e gli “ebrei”.