Non si può evacuare una nave via web, di Annalisa Teggi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /01 /2014 - 15:06 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Annalisa Teggi pubblicato il 12/1/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2014)

«Ma misi me per l’alto mare aperto/ sol con un legno e con quella compagna/ picciola da la qual non fui diserto» (Inferno, canto 26)

«Dopo quattro voli e cinque giorni di viaggio, a 12 mila miglia da casa, alle 2 del pomeriggio ora della Nuova Zelanda, mi sono unito ad altri 47 passeggeri a bordo della Akademik Shokalskiy e siamo salpati per l’Antartide. Un’ora dopo quasi tutti avevano già il mal di mare ed erano a letto». Comincia così il diario di Alok Jha, inviato del Guardian al seguito della nave russa che è rimasta intrappolata nei ghiacci del Polo Sud lo scorso 24 dicembre. Proprio nello stesso mare dove l’Ulisse dantesco naufragò, cercando risposte al suo ardore di conoscenza.

Fortunatamente, l’equipaggio della nave russa è stato messo in salvo, dopo dieci giorni di prigionia nel bianco glaciale e dopo vari tentativi falliti di soccorso via mare e via cielo. Quei giorni tra i ghiacci sono stati un paradosso: fisicamente non si riusciva a raggiungere la nave, ma a bordo erano collegati a tutto il mondo.

Via web si poteva seguire in tempo reale la loro vicenda, il video del loro veglione di Capodanno sembrava una festa come tante altre. E mentre erano ancora intrappolati, un giornalista della Cnn ha posto ad alcuni passeggeri la domanda giusta: «Se questo fosse accaduto un secolo fa, ora stareste pensando a chi di voi uccidere e mangiare; invece, oggi twittate foto di pinguini. Come vi sentite?».

Non a caso Dante scelse il ghiaccio come pena più tremenda nel fondo dell’Inferno: la morsa del freddo spinge l’atrofia al limite estremo, ogni guizzo umano muore, chiuso in un guscio che blocca vista, gesti e voce. Ed è un tipo di freddo a cui nessuno è estraneo, se è vero che – come si dice – per conoscere qualcuno occorre rompere il ghiaccio.

Oggi si può ascoltare una voce senza rompere il suo guscio ghiacciato: possiamo stabilire un contatto senza contatto, twittando ad esempio. Ed è positivo; va bene condividere foto di pinguini, se ci tiene un passo più lontano dal cannibalismo. È molto positivo quando ci aiuta ad avere indizi sul contenuto di una voce altrimenti inaccessibile (e c’è sempre quel collega che di persona ti dice sì e no due parole e poi si sfoga via mail).

Ma, a maggior ragione, la scorza di ghiaccio va poi spaccata con le mani, cioè si deve usare tutta l’operosità di cui l’uomo è capace per afferrare quella voce. Non si può evacuare una nave via web. Via cielo, via mare o via terra bisogna trovare un modo reale di recuperare chi è isolato, perché se il viaggio di tutti è una rotta di ardore e conoscenza nel mare aperto, è una grossa svista considerare un privilegio farla in solitaria.

Infatti, come nota Alok Jha, la nausea bussa presto alla porta: nel putiferio degli eventi si rischia solo di vacillare, se non ci si aggrappa a qualcuno. Nel rugby la mischia ordinata è una fase di gioco che da fuori sembra solo pura confusione, invece è un abbraccio di ruoli e posizioni meticolosamente studiati. Il singolo è membro di un corpo che spinge… a un palmo da terra. Così la letteratura può essere una vigorosa cordata umana che abbraccia la nostra cronaca; così pensò anche Dante, che per capir qualcosa del cammin di sua vita s’immischiò con santi e dannati.

Ma la storia comincia (ed è l’inizio di ogni storia) quando qualcuno all’orizzonte – Virgilio si offenderà se lo paragono a una nave rompighiaccio? – arriva a frantumare i cortocircuiti delle nostre selve.