Cristo salvatore nell'iconografia e nell'epigrafia dell'antichità cristiana, del prof. Danilo Mazzoleni

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /02 /2014 - 14:22 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo del prof. Danilo Mazzoleni pubblicato in L. Andreatta (ed.), Cristo Salvatore. “Gesù Cristo, unico salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre”, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pp. 146-161. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sull'arte paleocristiana vedi la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (2/2/2014)

Analizzando il ricco patrimonio iconografico ed epigrafico dell'antichità cristiana, si può agevolmente constatare come fin dalle origini esso contenga una ricca documentazione di riferimenti cristologici, espressi in forme diverse, ma nelle quali spesso si evidenziano anche aspetti specificamente legati alla soteriologia[1].

1. Questa rassegna, che non intende certo avere la pretesa della completezza, ma vuole solo fornire una campionatura critica e - si spera - significativa di materiali paleocristiani, può iniziare proprio dalle iscrizioni, le quali contengono un'interessante documentazione relativa ad allusioni dirette e immediatamente riferibili a Cristo Salvatore.

Basti ricordare che il famoso acrostico IXΥΘΣ, nato probabilmente per celebrare in maniera dissimulata la natura divina del Cristo e diffuso nelle iscrizioni di tante regioni del mondo cristiano antico, pone in rilievo che Egli è veramente Figlio di Dio ed è il Salvatore.

Sembra opportuno ricordare, al riguardo, che Tertulliano, in un celebre brano del suo scritto De Baptismo[2], attesta autorevolmente come l'assimilazione simbolica fra Cristo e l'immagine del pesce fosse già acquisita a livello esegetico nel II secolo: «sed nos pisciculi secundum IXΥΘN nostrum Iesum Christum in aqua nascimur nec aliter quam in aqua permanendo salvi sumus». Qualche secolo dopo san Pier Crisologo riprendeva questo concetto: «Pesce fu anche Cristo, il quale dopo la sua Resurrezione, assicurò ai suoi, cioè ai discepoli, il banchetto dispensatore di vita»[3].

D'altro canto non sembra privo di significato il fatto che questo peculiare acrostico si ritrovi già in una delle più antiche epigrafi cristiane conosciute, quella di Abercio, vescovo di Gerapoli di Frigia (nell'odierna Turchia), riferibile a un arco cronologico compreso fra il 161 e il 180. Il venerando presule si proclama «discepolo del pio pastore (ossia di Cristo), che pascola greggi di pecore per monti e pianure, che ha grandi occhi che tutto vedono dall'alto...»[4].

Già dalle prime righe ci si accorge facilmente che si tratta di uno scritto fortemente simbolico, forse volutamente ambiguo per essere capito solamente da «coloro che comprendono queste cose» - come riferisce esplicitamente il testo - ossia dai fedeli; e che contiene precisi riferimenti all'eucaristia e alla profonda dottrina di quel Vescovo. In particolare, egli dice: "la fede mi condusse in ogni luogo e dovunque mi imbandì il pesce di fonte, grandissimo, puro, che la santa vergine prende, porgendolo agli amici perché si nutrano sempre, avendo un vino gradevole offerto mescolato (con acqua) insieme al pane". Evidentemente, il "pesce" al quale si allude è il Cristo Salvatore e il periodo seguente parla delle specie eucaristiche.

Il santo vescovo solo nelle ultime tre righe rivela un lato debole della sua natura umana, quando - come tanti altri suoi contemporanei pagani e cristiani nelle iscrizioni funerarie - minaccia una fortissima ammenda contro gli eventuali malintenzionati, per il profondo timore che il suo sepolcro fosse violato dopo la sua morte. Tale fenomeno era, purtroppo, diffuso nell'antichità.

Bisogna tenere presente, d'altronde, che il carme di Abercio costituisce in fondo un'eccezione nel quadro generale delle testimonianze note per il suo formulario già sviluppato e denso di concetti. Accanto ad esso, però, si può porre una seconda iscrizione, quella di Pettorio di Autun, databile al IV secolo, ma in parte ispirata a un testo anteriore, forse ancora del II secolo. Anch'essa contiene chiare allusioni eucaristiche, invitando i fedeli alla frequenza del sacramento ed esortandoli all'approfondimento della parola divina per accrescere la grazia battesimale: «Stirpe divina del pesce celeste, serba un cuore puro... ricevi l'alimento dolce come il miele del Salvatore dei santi, mangia avido, tenendo il pesce nelle mani. Nutrimi, dunque, del pesce, ti prego, Signore Salvatore...»[5].

Si può facilmente notare come proprio in questa epigrafe le allusioni al tema trattato siano ripetute e significative, tanto più che il testo stesso strutturato come un acrostico, per cui le iniziali di ciascun verso formano, lette insieme, la parola IXΥΘΣ, alla quale segue una lettera E, che potrebbe essere l'iniziale di elpis, secondo un'ipotesi avanzata in passato dal De Rossi[6], per cui il significato simbolico potrebbe essere arricchito dal fatto che Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore è la speranza dei fedeli.

Oltre a quelli ora ricordati, l'epigrafia precostantiniana offre altri interessanti esempi dell'uso dell'acrostico IXΥΘΣ, ricorrente sia da solo, ad esempio inciso sulla calce di un loculo della catacomba di Priscilla[7], o su una parete di uno dei mausolei della "piazzuola" sotto la Basilica di San Sebastiano[8]; oppure raffigurato sotto forma di pesce nella dedica posta da Claudio Filota «al dolcissimo fratello Teodoro», che si conclude con l'augurio «viviamo in Dio IXΥΘΣ, ossia Cristo»[9].

Non si può dimenticare, poi, la stele di Licinia Amias, trovata nei pressi della basilica di San Pietro in Vaticano e ora conservata al Museo Pio Cristiano[10]. Di poco più tardo dell'iscrizione di Abercio, ossia degli inizi del III secolo, dopo la dedica, di matrice ancora pagana, agli Dei Mani, il testo esordisce con l'invocazione greca al Cristo «pesce dei viventi», resa con il consueto acrostico e seguìta dalla raffigurazione di due fra i simboli più antichi ricorrenti nel repertorio paleocristiano, un'ancora e due pesci affrontati. I "viventi", ai quali si allude, sono i cristiani che hanno ricevuto il sacramento battesimale e con questo sono nati a nuova vita.

Il pesce raffigurato, in contrapposizione a un'àncora, anche su una lapide del III secolo, della catacomba di San Sebastiano, pertinente a uno schiavo imperiale, Atimetus[11], e sull'intonaco che copre il loculo di Gorgonia - all'incirca coevo - nel cimitero di Panfilo[12]. Evidentemente si tratta di due simboli cristologici, entrambi connessi con un significato soteriologico, che ebbero notevole diffusione proprio nel periodo delle origini dell'epigrafia cristiana.

Inoltre, queste immagini compaiono anche in due epitaffi - uno latino, l'altro greco - dell'arenario di San Sebastiano: il primo dedicato da Ancotius Epaphroditus e Ancotia Irene alla propria figlia, Ancotia Auxesis[13], il secondo dal medesimo Epaphroditus e dai due figli superstiti alla rispettiva consorte e madre![14] Sono testi dal formulario ancora sostanzialmente neutro, in cui proprio la presenza di entrambi i segni cristologici diventa elemento peculiare e caratterizzante.

Nelle catacombe di San Callisto si legge invece su una lapide: «Dio (sia) con il tuo spirito, IXΥΘΣ, cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore»![15]; una dedica dipinta di Panfilo mostra invece l'acrostico incompleto, interrotto per motivi che non è possibile spiegare dopo la terza lettera: Ermai en theo ikth[us] (Ermais, che tu possa vivere in Dio Cristo Salvatore)[16].

Certamente più tarda un'altra iscrizione funeraria di Creta, che contiene una preghiera rivolta a Cristo Salvatore da un fedele, il cui nome non si è conservato: IXΥΘΣ, so[son] ten psuke[n] autes (Signore, salva la sua anima)[17].

Proseguendo nella rassegna dei materiali epigrafici, nel museo di Cirene si conserva una lastra di marmo iscritta in greco, riferibile al pieno IV secolo[18]. Si tratta di un'acclamazione, rivolta a un maestro cristiano, Philon, e ai suoi discepoli, che si conclude ancora una volta con l'acrostico IXΥΘΣ. Fra i testi non funerari si può ricordare, inoltre, il disco di alabastro proveniente dalla via Appia, ora conservato al Museo Nazionale Romano[19], in cui superiormente compariva il nome dei proprietari di un edificio, al centro un grande cristogramma all'interno di un clipeo e sotto, entro una tabella biansata, la scritta IXΥΘΣ, in cui ogni lettera era preceduta e seguita da un'interpunzione posta a metà della riga. Evidentemente, la dimora era posta sotto la protezione di Cristo Salvatore.

L'acrostico cristologico ritorna per due volte - in senso verticale e orizzontale - nell'epitaffio del piccolo Postumio Euthenion[20], del cimitero di Gordiano ed Epimaco, il quale fu battezzato a sei anni e fu sepolto, ancora neofita, il giorno del suo compleanno; sotto la protezione di Cristo Salvatore «la sua anima con gli spiriti eletti nella pace eterna».

Ancora dall'isola di Creta, e precisamente dalla regione del Medio Ida, proviene un'interessante epigrafe del V-VI secolo, incisa su un disco marmoreo frammentario, in origine pertinente ad una mensa sepolcrale[21]. Le otto righe del testo si riferiscono al presbitero Theóktistos, che si definisce, con espressione rara nei formulari, «amico di Cristo», Kr(isto)u filon. Nelle ultime due linee il defunto rende grazie a Gesù, per essere stato da lui redento, con una frase particolarmente efficace, in cui l'uso dell'indicativo futuro mostra la certezza della fede di quel cristiano: Karin soi Kr(ist)e, eco oti me eruso, ossia: «Ti rendo grazie, Signore, poiché mi salverò». E un epitaffio del IV-V secolo di Rhethymnon[22], sempre a Creta, ricorda un suddiacono, Epiktetianos, mostrando un altro formulario interessante, praxeon agathon Kr[r]iston kai sotera Theon omologon, enthade kite, cioè: «glorificando con le sue buone azioni Dio e Cristo Salvatore, qui giace».

Tornando a Roma, il carme del presbitero Tigrino rivela originalità di espressioni, dicendo, fra l'altro: «L'unica speranza di salvezza è Cristo, grazie alla cui guida la (stessa) morte muore. Infatti, io sono stato rapito dalla dolcezza del regno celeste»[23].

A Treviri in una dedica oggi perduta si leggeva: «Qui riposa nel Signore una vergine di Dio, di nome Hilaritas, che ha onorato Dio ogni giorno della sua vita e in tutte le sue azioni ha osservato i precetti del Signore nostro Salvatore; visse più o meno 50 anni...»[24].

Non si può invece integrare un testo mutilo delle catacombe di Santa Cristina a Bolsena, in cui nella prima riga si legge una a seguita da salbato[re]. Forse si trattava di una preghiera rivolta a Cristo[25].

In Africa alcune epigrafi pertinenti a edifici di culto offrono materiale interessante per la nostra ricerca. Ad esempio, in Mauretania Cesariense, a Quiza, un testo musivo pavimentale - attualmente non più conservato - diceva che «su ispirazione di Cristo» e «in nome del Signore Salvatore, Ulpiano con i suoi familiari fece eseguire il mosaico in onore di san Vitaliano vescovo»[26].

Un'altra iscrizione perduta del comprensorio di Sitifis[27] attestava che «in nome di Cristo [reso col monogramma], Signore Dio e Salvatore nostro, fu costruita e dedicata una domus orationis», ossia un oratorio, il 15 ottobre di un anno imprecisato. La medesima formula introduttiva ricorre, nella prima metà del VII secolo, su una lamina di piombo relativa alla deposizione di reliquie, proveniente dalla zona di Telergma e conservata al Museo di Costantina[28], che riprende formulari simili di altri documenti del medesimo genere, denominati normalmente «processi verbali»[29].

Ancora alla consacrazione di un edificio di culto dedicato alla Santa Croce si riferisce una lapide africana da Rusguniae, forse del IV secolo, ma purtroppo oggi non più conservata: «de sancto ligno crucis Christi salvatoris...». Essa fu edificata da un personaggio di rango elevato, Flavius Nuvel, re dei berberi al servizio dei Romani[30].

Anche epigrafi dedicatorie di opere pubbliche contengono riferimenti al tema qui trattato: così, in un testo africano proveniente dal territorio di Tebessa, si legge che un'opera di fortificazione fu portata a termine «in nome del Signore Dio nostro e di Gesù Cristo Salvatore, ai tempi del beatissimo vescovo Faustino»[31].

Dal medesimo sito un'iscrizione relativa ai confini di una proprietà si rivolge a Cristo con l'appellativo di «principe della salvezza», perché protegga sempre i padroni di quell'area[32]. La frase trae probabilmente ispirazione da un passo dell'epistola paolina agli Ebrei[33] e da altri brani scritturistici.

Si può concludere questo panorama epigrafico con due ulteriori significativi esempi, che si riallacciano all'argomento trattato: il primo è un carme - oggi perduto - del Battistero milanese di santa Tecla, opera dello stesso sant'Ambrogio[34]. Ricordando il particolare valore simbolico del numero otto, connesso con la resurrezione e applicato alla pianta dell'aula battesimale, si ribadisce che nell'acqua purificatrice del sacramento dell'iniziazione è la vera salvezza per tutte le genti e che Cristo ha sciolto i vincoli della morte, lavando la macchia del peccato originale.

Il secondo costituito dall'iscrizione che si legge ancora nel catino absidale della basilica di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna[35], opera della metà circa del VI secolo: in alto al centro campeggia un grande clipeo contenente una croce gemmata con all'incrocio dei bracci, in una corona di perle, il volto di Cristo barbato e alla loro estremità le lettere apocalittiche alfa e omega; al di sopra compare invece il noto acrostico IXΥΘΣ e sotto la croce vi è la frase salus mundi, mentre lateralmente, da un cielo cosparso di nubi, emergono le figure dei profeti Mosè ed Elia. Epigrafi e raffigurazioni, strettamente connesse, sono le diverse parti di un discorso complesso, che si potrebbe tradurre nel modo seguente: «Gesù Cristo, Figlio di Dio Salvatore, principio e termine della vita, salvezza del mondo». La composizione può essere intesa come una rappresentazione della Trasfigurazione, in cui elementi realistici si uniscono ad altri squisitamente simbolici.

Proprio questo documento, a metà strada fra epigrafia e iconografia, ci consente di passare più agevolmente alla seconda parte di questa ricerca, incentrata sulle più antiche rappresentazioni del Redentore.

2. Anche in questo settore dell'archeologia cristiana l'immagine di Cristo Salvatore è uno dei primissimi temi ad entrare nel repertorio figurativo[36], con le sembianze del Buon Pastore[37]. Le opere dei Padri alludono più volte a questa figura: ad esempio, Clemente Alessandrino scrive che il Logos è un «sollecito pastore di bambini», che conduce il suo gregge alla salvezza[38].

Sia nelle più antiche pitture delle catacombe, a partire dagli inizi del III secolo, sia - alcuni decenni dopo - nei sarcofagi, questa immagine compare spesso in unione con la figura dell'orante, proprio a indicare simbolicamente lo stretto rapporto esistente fra Colui che ha portato la salvezza (il Buon Pastore) e colei che ne ha già goduto (l'orante, da interpretarsi come l'anima nella beatitudine eterna). Cristo-Buon Pastore è quindi Colui che salva dal peccato e dalla morte, sconfiggendo le forze del male. La preghiera dell'orante, invece, «non dev'essere intesa come supplica o richiesta di intervento, bensì come preghiera continua, di canto e lode al Signore, al cospetto del quale l'uomo è riabilitato, dopo il peccato dell'origine, tramite la salvezza soterica, il battesimo, il martirio, la guarigione spirituale e fisica»[39].

Uno degli esempi più significativi in questo senso, anche se taluni discutono ancora della natura cristiana, o criptocristiana del contesto, è costituito dal sarcofago della via Salaria, conservato al Museo Pio Cristiano del Vaticano[40]. Su questa fronte i due personaggi, ancora classici nella loro resa plastica e nella loro tipologia, ma caricati di nuovi contenuti simbolici, occupano il centro ideale della composizione e si guardano, quasi per stabilire quello che è stato chiamato un «muto colloquio».

Le prime pitture raffiguranti il Buon Pastore si trovano nei nuclei originari di diverse catacombe, da San Callisto[41] a Pretestato[42] a Priscilla[43]. In particolare, sulla volta di un cubicolo della regione di Lucina del complesso callistiano[44], mentre al centro compare Daniele fra i leoni, esempio di giusto salvato da Dio nell'Antico Testamento, nei campi diagonali si ripetono, alternate, immagini del Buon Pastore e dell'orante, usate come ideogrammi, per alludere alla fonte della salvezza e al suo frutto. La reduplicazione delle figure fa sì che esse acquistino anche una valenza decorativa, simmetrica.

Ecco, quindi, che in uno dei primi esempi noti di pitture cristiane delle catacombe già si ribadisce l'unità dei due Testamenti e la continuità del discorso soteriologico, in cui Daniele è un paradigma di salvezza dell'Antico Testamento, al quale si legano immediatamente Buon Pastore e orante, connessi con la salvazione recata da Cristo nel Nuovo. Completano il quadro della decorazione allegorie di stagioni e motivi vegetali, con chiaro riferimento all'ambiente paradisiaco.

Sulla parete di fondo del medesimo cubicolo un'altra pittura, singolare per la sua formulazione, attira l'attenzione, poiché riconduce a un simile significato cristologico e soteriologico[45]. Lateralmente, si notano due raffigurazioni omologhe di un pesce guizzante dietro a un cesto di pani e a un bicchiere di vino rosso.

Sembrerebbe strano che questa fosse semplicemente una rappresentazione reduplicata del tipo di quelle che secoli dopo saranno denominate "nature morte". Pesce, pani e vino sono elementi che hanno un preciso significato, specie se associati, alludendo al cibo soterico eucaristico e al Cristo-pesce. Si tratta di una decorazione che intende richiamare i princìpi della salvezza, voluta da committenti privati per ornare il loro cubicolo. Non se ne trovano altre simili nell'iconografia paleocristiana.

Il pesce ricorre in un'altra scena unica nel suo genere sulla volta di uno dei cubicoli chiamati "dei sacramenti", sempre nel complesso callistiano[46]. Mentre al centro si ritrova il Buon Pastore, e tutto intorno i tre episodi del ciclo di Giona, teste ornamentali, vasi di fiori, pavoni e volatili, in una lunetta è raffigurato un tripode con pani, pesci e sette cesti, allusivi al miracolo della moltiplicazione.

Si è visto un preciso nesso tra la missione di Giona, che doveva annunciare ai niniviti la salvezza e i simboli dell'eucaristia, mezzo che il Cristo ha dato agli uomini per poterla ottenere; per di più, l'immagine del pesce-IXΥΘΣ ribadisce il significato soteriologico della composizione.

La datazione della pittura riporta ai primi decenni del III secolo; di poco posteriore è un affresco, che si trova sulla parete di fondo di un cubicolo vicino[47]: un personaggio impone le mani su un tripode, su cui sono collocati pane e pesce. In passato si era pensato a un'immagine simbolica dello stesso Cristo nell'atto di moltiplicare pani e pesci, ma successivamente ha prevalso l'interpretazione che si tratti di una consacrazione eucaristica, in cui viene accentuato il senso cristologico proprio per la presenza dell'IXΥΘΣ.

Nella scultura cristiana l'incidenza delle immagini del Buon Pastore, in special modo negli esemplari della metà e dell'ultimo cinquantennio del III secolo, è notevole: oltre al già menzionato sarcofago della via Salaria, la simbolica figura appare anche in quelli di La Gayole[48] e Santa Maria Antiqua[49].

In quest'ultimo sarcofago, del 250 circa, si articola un discorso più organico sulla salvezza, che vede come termini essenziali il ciclo di Giona, il Buon Pastore, l'orante e il battesimo nel Giordano, con il Battista vestito di solo pallio, che impone la mano sul capo di Cristo (di modulo minore, come sempre nelle scene di questo tipo), il quale ha i piedi nell'acqua del fiume, mentre da sopra scende la colomba, elemento caratterizzante della scena. Se il Buon Pastore e l'orante sono connessi con l'aldilà dei due defunti committenti, il battesimo di Gesù allude al principio della salvazione e gli episodi di Giona ne divengono conseguentemente l'immagine stessa.

All'estremità destra di questo sarcofago a vasca compaiono due pescatori, la cui presenza non è certo casuale, poiché un personaggio nell'atto di pescare ricorre anche in altri esemplari più o meno coevi, come il sarcofago di via della Lungara del Museo Nazionale Romano[50] e altri nel più tardo sarcofago di Giona del Museo Pio Cristiano[51].

Clemente Alessandrino[52] scrive che Cristo «è pescatore dei mortali che si lasciano liberare dal pelago del male»; quindi, questa immagine può essere intesa come affine a quella del Buon Pastore, accentuando il suo significato soteriologico, ma essa non raggiunge mai l'importanza e la diffusione della prima, sparendo dal repertorio figurativo in pratica con la fine del III secolo.

Proprio dall'epoca tetrarchica e poi in quella costantiniana il linguaggio figurativo si evolve e sopravvive solo la figura del Buon Pastore, che viene associata a contesti in cui sempre più prevalgono come fonte ispiratrice i libri vetero e neotestamentari.

Per quanto concerne ancora il periodo precostantiniano, non si può dimenticare che un altro caso significativo è costituito dalla decorazione del battistero della domus ecclesiae di Dura Europos, in Siria. Si tratta di un monumento di datazione sicura, poiché la città fu distrutta dai Sassanidi nel 256 e non fu più ripopolata[53]. Al di sopra della vasca battesimale, sormontata da un baldacchino, due scene in particolare sono da segnalare: un Buon Pastore con un grosso ariete sulle spalle e accanto il suo gregge e, quasi in secondo piano, racchiuso in un piccolo spazio rettangolare a sinistra in basso, l'episodio di Adamo ed Eva dopo la caduta nel giardino paradisiaco.

Evidentemente, non si tratta di un accostamento casuale fra i due soggetti: i Protoparenti rappresentano il peccato originale, ma il Buon Pastore allude a Colui che ha salvato l'umanità da quella felix culpa, cioè al Cristo. E nel contesto battesimale in cui sono inserite le due scene (sulla parete destra compare anche il significativo e raro episodio della pesca miracolosa), esse acquistano una valenza ancora più specifica.

A proposito dei temi neotestamentari del repertorio figurativo cristiano in cui si vuole sottolineare un significato soteriologico, sembra illuminante quanto ha osservato di recente il Bisconti: «Con i miracoli, le guarigioni e le storie di Cristo, l'espressione del concetto di salvezza diviene immediata, istantanea. Ecco, quindi, svolgersi sulle pareti delle catacombe, sui rilievi dei sarcofagi, sui mosaici delle basiliche, sugli oggetti della liturgia, su quelli della vita quotidiana, sulle lastre funerarie le storie dei miracoli più celebri e commoventi; ecco i ciechi, i paralitici, i lebbrosi, l'emorroissa; ecco che si ricrea la moltiplicazione dei pani, il prodigio di Cana; ecco che si ricordano i sorprendenti casi di resurrezione, da Lazzaro al figlio della vedova di Naim, alla figlia di Giairo; ecco che si ripercorre l'itinerario terreno di Cristo, dal battesimo alla sua condanna a morte»[54].

Infatti, seguendo per grandi linee lo sviluppo delle tematiche cristologiche nell'iconografia dal periodo tetrarchico alla fine del IV secolo, si rileva agevolmente che all'immagine di Cristo-Buon Pastore paradigma di salvezza si affiancano altre raffigurazioni, che vedono come protagonista il Logos, il benefattore dell'umanità, giovane con la capigliatura corta e riccia, in tanti episodi evangelici.

Compare e si diffonde anche il tipo del Maestro filosofo, barbato come nei frammenti policromi del Museo Nazionale Romano[55], e successivamente quella del basileus, il sovrano celeste al quale gli apostoli acclamano - come la corte all'imperatore - e che si contrappone a quello terreno, con i nuovi attributi relativi a questa carica: il nimbo e il globo. Si creano nuove scene, come quella, fortemente simbolica, della consegna della legge a Pietro (e talora a Paolo), che ha un suo splendido esempio in un sarcofago a colonne di San Pietro in Vaticano[56], oppure quella di Cristo «signore del mondo», seduto su un trono sopra la personificazione allegorica della volta celeste, come nel sarcofago di Giunio Basso, delle Grotte Vaticane[57], datato da un'iscrizione al 359.

Già in precedenza, a partire dal 340 circa, l'arte cristiana si era arricchita di un'ulteriore iconografia cristologica, fortemente simbolica, nelle scene di Anastasis, cioè di Resurrezione, dei cosiddetti «sarcofagi di passione»[58]. Qui la figura del Redentore era stata sostituita da un monogramma di Cristo inserito in una corona d'alloro, al di sopra di una croce gemmata, ai piedi della quale erano rappresentati i due soldati dormienti, allusivi a quelli posti a guardia del sepolcro.

Successivamente, l'arte cristiana svilupperà ulteriormente tutti gli aspetti ora brevemente ricordati in vari episodi connessi con l'iconografia cristologica, ma senza risalire al periodo delle origini molte componenti di questo processo rimarrebbero certamente oscure.

Note al testo

[1] Non è il caso di soffermarsi, in questa sede, sulla vastissima bibliografia inerente l'aspetto soteriologico del Cristo. Basti ricordare il classico lavoro di F. J. Dölger, Sol salutis, Munster 1925.

[2] I, 3.

[3] Sermones, 55.

[4] M. Guarducci, Epigrafia greca, vol. IV, Roma 1978, pp. 377-386 (con bibliografia precedente). Il lavoro più ampio su questo argomento resta quello di F. J. Dölger, IXΥΘΣ, 5 voll., Munster 1922-1943.

[5] M. Guarducci, Epigrafia, cit., pp. 487-494.

[6] G.B. De Rossi, Inscriptiones Christianae Urbis Romae septimo saeculo antiquiores, II, Roma 1888, p. XX; cfr. P. TESTINI, Archeologia cristiana, Bari 1980, pp. 422-423.

[7] A. Silvagni - A. Ferrua - D. Mazzoleni - C. Carletti, Inscriptiones Christianae Urbis Ramae septimo saeculo antiquiores (= ICUR), Roma - Città del Vaticano 1922-1992, IX, 26237.

[8] ICUR V, 12889; Guarducci, Epigrafia, cit., pp. 545-547. Fra le prime due lettere è inserita una T, in cui si è voluta un'ulteriore allusione alla croce.

[9] ICUR IX, 26083.

[10] ICUR II, 4246.

[11] ICUR V, 12892.

[12] ICUR X, 26497.

[13] ICUR V, 12891.

[14] ICUR V, 12900.

[15] ICUR IV, 10981.

[16] ICUR X, 26499.

[17] C. M. Bandy, The Greek Christian Inscriptions of Crete, Athens 1970, n. 99, p. 128.

[18] M. Guarducci, Epigrafia, cit., pp. 473-475.

[19] ICUR V, 15413.

[20] ILCV, 1524; ICUR VI, 15634.

[21] M. Bandy, Christian Inscriptions, cit., n. 77, pp. 104-105.

[22] M. Bandy, Christian Inscriptions, cit., n. 76, pp. 103-104.

[23] ICUR VI, 15842.

[24] ILCV, 1719 A; N. Gauthier, Recueil des inscriptions chrétiennes de la Galle, I, Première Belgique, Paris 1975, n. 219, pp. 518-521.

[25] ILCV, 1613 adn; C. Carletti, Inscriptiones Christianae Italiae septimo saeculo antiquiores, I, regio VII, Volsinii, Bari 1985, n. 20.

[26] ILCV, 1104.

[27] ILCV, 1835.

[28] Y. Duval, Loca sanctorum Africae, Rome 1982, n. 112, pp. 231-239.

[29] Y. Duval, Loca cit., II, p. 567.

[30] ILCV, 1822; Y. Duval, Loca cit., n. 167, pp. 351-353.

[31] E. Diehl, Inscriptiones Latinae Christianae Veteres (=ILCV), Berlino 1925-1931 (II ed. 1961, III ed. 1970), 802.

[32] ILCV, 2498.

[33] 2,10.

[34] ILCV, 1841.

[35] ILCV,1958 a.

[36] Gli studi sull'iconografia cristologica in generale, o su particolari aspetti di questo tema, sono molto numerosi. Come riferimento, per un'informazione sintetica, basti consultare le voci Gesù Cristo nella iconografia, di G. Kollwitz, nell'Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1949-1954, VI, cc. 273-282 e Gesù Cristo (iconografia), di R. Giordani, nel Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Casale Monf. 1983, II, cc. 1498-1505.

[37] Sulle origini dell'arte cristiana si veda, da ultimo, F. Bisconti, Genesi e primi sviluppi dell'arte cristiana: i luoghi, i tempi, i modi, in Aa.Vv., Dalla Terra alle Genti. La diffusione del Cristianesimo nei primi secoli, Milano 1996, pp. 71-93.

[38] Paed. 1,7,53.

[39] F. Bisconti, Genesi, cit., p. 89.

[40] J. Wilpert, I sarcofagi cristiani antichi, Città del Vaticano 1929-1936 (= Ws), 1,1; F. W. Deichmann - H. Brandenburg - G. Bovini, Repertorium der christlich antiken Sarkophage. I. Rom und Ostia, Wiesbaden 1967 (= Rep.), '66.

[41] J. Wilpert, Le pitture nelle catacombe romane, Roma 1903 (= Wp), 25; 35,2; 38; 66,2.

[42] Wp. 17.

[43] Wp. 21,1.

[44] Wp. 25.

[45] Wp. 27,1; 28.

[46] Wp. 38.

[47] Wp. 26,3.

[48] Ws. 1,3.

[49] Ws. 3; Rep. 747,1.

[50] Ws. 19,6; Rep 777,1,2,3.

[51] Ws. 9,3; Rep. 35.

[52] Paed., 3,101,3.

[53] C.H. Kraeling, The excavations at Dura Europos, final report, II. The christian Building, New Haven 1967.

[54] F. Bisconti, Genesi, cit., pp. 92-93.

[55] Rep. 773 a-b.

[56] Rep. 677,1. Sui diversi tipi iconografici del Cristo si vedano, per un'informazione sintetica, le voci già citate dell'Enciclopedia Cattolica e del Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane.

[57] Rep. 680,1-3.

[58] A. R. Saggiorato, I sarcofagi paleocristiani con scene di Passione, Bologna 1968.