Ricevere la grazia: l’iniziazione cristiana ed il suo rinvio nelle epigrafi dei primi cristiani, di Carlo Carletti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /04 /2009 - 21:00 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 12 aprile 2009 l’articolo Epigrafia e iniziazione dei cristiani. Quando i battezzati non si chiamavano così, di Carlo Carletti. Segnaliamo anche il volume, appena apparso in libreria, C. Carletti, Epigrafia dei cristiani in Occidente dal III al VII secolo. Ideologia e prassi, edito da Edipuglia, Bari, 2008.
Su questo stesso sito è on-line un precedente articolo del prof. Carletti sulla speranza nelle iscrizioni delle catacombe al link Le epigrafi funerarie delle catacombe e dei sarcofagi romani e la speranza dei pagani e dei cristiani. Una riflessione in margine alla "Spe salvi", a partire dalle iscrizioni di età imperiale, di Carlo Carletti.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi testi non fosse gradita qualcuno degli aventi diritto.





Nel corso dell'età costantiniana l'epitaffio dei cristiani perde progressivamente l'aspetto arcaico che lo aveva caratterizzato per oltre un secolo e accresce rapidamente la sua estensione testuale, ritornando ai modelli della prassi funeraria romana, all'interno dei quali si inseriscono termini, espressioni, "segni", direttamente o indirettamente evocativi del credo religioso dei committenti.

Tra questi elementi specificamente identitari speciale rilievo assume la menzione del rito dell'iniziazione, l'unico tra i sacramenti cristiani che tra il IV e il VI secolo viene espressamente ricordato nelle iscrizioni. Queste testimonianze, cronologicamente circoscritte tra circa il 330 e la metà del V secolo, raggiungono allo stato attuale circa trecento attestazioni: un centinaio, per la gran parte latine e dunque afferenti alla parte occidentale dell'orbis christianus antiquus, si riferiscono espressamente all'azione battesimale; poco più di una decina ricordano il periodo del catecumenato, cioè lo status dell'istruzione prebattesimale, con i termini cathecumenus, audiens, candidatus, katechoùmenos, akroatès; le rimanenti, molto più numerose - circa duecento - ricordano i neobattezzati, con le forme neophytus o, secondo l'uso greco, neophòtistos (neo illuminato) già attestato nel II secolo in Giustino, che spiegava (I Apologia, 61, 12): "Questo lavacro si chiama illuminazione (photismòs) poiché sono illuminati quelli (photizòmenoi) che imparano queste cose".

L'ambito di diffusione di queste ricorrenze si circoscrive pressoché esclusivamente all'epigrafia funeraria e ciò ne giustifica pienamente le motivazioni d'uso: non solo o non soltanto la memoria dell'atto formale di ingresso nella comunità cristiana, ma per lo più l'incidenza di circostanze occasionali, peraltro molto frequenti: l'irruzione della morte a poca distanza dal battesimo, ovvero - in deroga alla disciplina dell'antichità cristiana - la sua amministrazione in articulo mortis ai bambini o agli adolescenti, il cosidetto "pedobattesimo".

Nel lessico epigrafico relativo all'iniziazione - salvo pochissime eccezioni - si registra la pressoché totale assenza delle forme specificamente tecniche bàptisma, baptìzein, dei relativi calchi baptisma, baptismus, baptizare, degli equivalenti e concorrenti latini tinctio, tingere, lavacrum, e ciò in controtendenza con una ininterrotta tradizione, documentata fin dalle origini cristiane sia nella letteratura neotestamentaria - Paolo in primo luogo - sia in quella patristica. Allo stato attuale, nell'arco dei secoli IV e V, la menzione dei termini "battesimo", "battezzare" ricorre soltanto in sette esemplari sulle circa trecento iscrizioni che ricordano i vari momenti dell'iniziazione.

Un dato non irrilevante al quale non sembra sia stata riservata adeguata attenzione nelle ricerche sul lessico battesimale nei secoli dell'antichità cristiana: apodittica, e dunque non documentata, appare così l'affermazione - forse affrettata - ed esclusivamente fondata sulla scorta della documentazione letteraria, liturgica e documentaria che "le più antiche comunità cristiane di lingua latina, per designare il battesimo adottarono... la denominazione greca" (Vincenzo Loi).

Ma la comunità cristiana, nella sua dimensione più pienamente ecclesiale dei Christi fideles laici, manifesta la sua esistenza non soltanto attraverso la selezione e la mediazione delle testimonianze letterarie, ma anche e soprattutto per il tramite di quella documentazione che per sua natura si propone come specchio di rifrazione immediato e genuino del suo "vivere" e del suo "sentire". È infatti proprio nella prassi epigrafica funeraria che, non a caso, proprio la menzione del battesimo, almeno sul piano espressivo, viene formulata in maniera affatto diversa rispetto a quella del "prescritto religioso", così come veicolato dai testi letterari e documentari.

Nei semplici epitaffi non si parla di "battesimo" e "battezzare" ma, con perifrasi, si dice gratiam dei accipere, gratiam dei percipere, gratiam sanctam consequi, fidem accipere, fidem percipere, fide constituere e in greco lambànein, paralambànein, pìstin, tèn chàrin toù theoù, cioè "accogliere la grazia", "ricevere la grazia", "consolidarsi nella fede", "conquistare la grazia di Dio". In alcuni casi la pregnanza di queste formule raggiunge il livello massimo di sintesi espressivo-concettuale, laddove a significare che il defunto ha ricevuto il battesimo si usa soltanto la forma verbale, si dice cioè, ellitticamente, "raggiunse", "conseguì", "volle", "conquistò", "accolse", "ricevette", sottintendendo naturalmente "la grazia", "la fede".

Esemplificativa della diffusione di questo linguaggio battesimale è l'iscrizione di una certa Iulia sepolta a Roma nella stessa area cimiteriale della via Ardeatina dove Damaso aveva fatto deporre la sorella Irene: "Nacqui a Roma. Giulia - se lo chiederai - è il mio nome. Vissi pura accanto al mio uomo Florenzio, al quale ho lasciato tre figli. Ricevetti poi la grazia di Dio e, neofita, fui accolta nella pace": Giulia - è chiaro - morì pochissimo tempo dopo aver ricevuto il battesimo, probabilmente in seguito al parto.

Se questo linguaggio era penetrato così in profondità nei testi delle iscrizioni se ne deve legittimamente dedurre che, negli stessi termini, esso fosse diffuso e recepito nella comunicazione orale e che, dunque, ciò che rimaneva fissato sulla pietra delle "scritture ultime" altro non era che la riproposizione di un parlare comune, di una lingua d'uso, che filtrava e volgarizzava (dal punto di vista della lingua) quanto recepito nella catechesi prebattesimale o nell'ascolto della predicazione.

Ma la ricchezza della documentazione epigrafica sul battesimo non si limita allo stereotipo formulare sopra ricordato, ma si allarga all'intera prassi rituale dell'iniziazione e talvolta ricorda aspetti e circostanze particolari meritevoli per la loro eccezionalità di essere ricordati nell'iscrizione.

È il caso di una certa Foedula (morta a Vienne in Gallia tra il 386 e il 389) che - recita il suo epitaffio - Martini quondam proceris sui dextera tinta (cioè tincta), crimina deposuit fonte renata: qui il procer Martinus è certamente da individuare con il celebre Martino vescovo di Tours, che soggiornò a Vienne tra il 386 e il 389 in occasione della deposizione delle reliquie dei santi Gervasio e Protasio come si apprende da Sulpicio Severo (Vita Martini, 19, 3) e da Paolino di Nola (Epistulae, 18). Evidentemente in questa circostanza Martino amministrò a Foedula il battesimo, qui definito con una sequenza di espressioni che nell'ordine si riferiscono alla forma rituale, cioè alla materia, con la forma tipicamente latina tingere ("immergere"), alla rinascita spirituale ("rinata nella sorgente divina"), ai suoi conseguenti effetti ("si spogliò dei suoi peccati").

A Spoleto ad amministrare il battesimo di Picentia Legitima, definita nell'epitaffio neophyta, è il vescovo di Roma Liberio (consignata a Liberio papa): la sua azione rituale è qui sintetizzata nella consignatio, cioè il signum crucis che il vescovo o il presbitero imprimeva sulla fronte del neobattezzato successivamente all'abluzione.

A Roma in una iscrizione del cimitero di Castulo si tramanda, quasi in forma di cronaca per la dovizia dei dettagli, la vicenda di un bambino di sei anni: dal momento della nascita, al battesimo, alla morte: "Pascasio, nato con nome di Severo, giovedì quattro aprile dell'anno 457, visse sei anni. Ricevette (percepit, sottinteso la grazia, la fede) il 21 aprile e depose le sue (vesti) bianche nel sepolcro l'ottava di Pasqua, il 28 aprile dell'anno 463". Il giovane defunto aveva assunto alla nascita il cognomen di Severus, ma al momento del battesimo al suo nome anagrafico fu aggiunto quello di Pascasius, un vero e proprio agnomen (soprannome) ex baptismate: al sopraggiungere della morte indossava ancora la veste bianca (et albas suas octabas pascae ad sepulcrum deposuit), che, contra votum, dovette deporre non nell'assemblea della domenica in albis, ma nel sepolcro.

Dalla documentazione epigrafica relativa ai diversi momenti della iniziazione cristiana emerge implicitamente una questione di ordine più generale, per lo più trascurata dalla critica, almeno in relazione alla documentazione epigrafica: quella cioè della palpabile differenza di densità tra la dottrina e la disciplina predicata dalla Chiesa e il suo impatto sul cristiano medio.

Nello specifico del nostro problema il dislivello tra "prescritto" e "vissuto" emerge soprattutto in quelle numerose testimonianze epigrafiche nelle quali l'età matura di defunti neobattezzati (dai 20 agli oltre 70 anni) fa legittimamente supporre un deliberato rinvio del battesimo fino all'approssimarsi della morte; sicché non pochi fedeli giungevano al battesimo nello status di audientes e non di electi, come, per esempio, il vir clarissimus Iunius Bassus o l'eunuco Aedesius iniziati rispettivamente a 42 e 25 anni.

È la situazione, indotta dalle adesioni di massa, cui fanno esplicito riferimento quasi con rassegnazione alcuni vescovi tra la metà del IV e il V secolo, soprattutto - come sta a indicare la cronologia di molte iscrizioni - all'indomani di un evento capitale quale fu la promulgazione dell'editto de fide catholica di Teodosio (380), in cui si proclamava come religione di Stato quella "che l'apostolo Pietro anticamente insegnò ai romani e che ora è professata dal pontefice Damaso e da Pietro vescovo di Alessandria".

Molti - frettolosamente avvicinatisi alla Chiesa - iniziavano il percorso catecumenale ma non altrettanti lo conducevano coerentemente a termine e, nella migliore delle ipotesi, lo rimandavano sine die fino all'approssimarsi della morte: una atipica categoria di aspiranti al battesimo, i procrastinantes, energicamente condannata da Cirillo di Gerusalemme (Catechesi, 17, 35 - 36), Ambrogio (In Psalmos, 118, 20, 48 - 49), Agostino (De catechizandis rudibus, 5, 9), quando il percorso che conduceva al rito di iniziazione era lungo, impegnativo e contrassegnato da frequenti verifiche: soprattutto induceva al rinvio il rigore (con relative penitenze e temporanee sospensioni) nel concedere la remissione dei peccati postbattesimali.

(©L'Osservatore Romano - 12 aprile 2009)