Pranzo di Natale, manuale di conversazione. Cosa direbbe Chesterton a Beppe Severgnini, di Annalisa Teggi
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Annalisa Teggi pubblicato il 24/12/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (24/12/2013)
Ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera è apparso un articolo di Beppe Severgnini intitolato “Ma di cosa parleremo al cenone? Piccolo manuale di sopravvivenza socio-natalizia a tavola”. Nell’articolo, l’editorialista del Corriere offre una serie di argomenti di cui non parlare: fatti personali, nozze gay, tasse, eredità, catastrofi, stipendi, politica. Cioè praticamente tutto quel che ci interessa e di cui riempiamo, solitamente, le nostre discussioni quotidiane. Se il signor Chesterton avesse mai avuto l’occasione di incontrare un Beppe Severgnini, probabilmente lo avrebbe ben volentieri inviato a casa sua per il cenone di Natale. Solo che, anziché parlare del nulla, avrebbe conversato con lui amabilmente - cioè seriamente – di quel che più gli stava a cuore. Soprattutto a Natale.
Tendenzialmente, il pranzo di Natale è tutt’altro che un evento sobrio. Si può avere la propria mensa più o meno ricca di portate, ma non è tanto e solo il contenuto della tavola a generare effervescenza (e in certi casi stordimento congestionato); il più delle volte sono i commensali il vero e proprio banchetto. Si dice Natale con i tuoi e questo, per tradizione ma spero anche nella realtà, evoca l’immagine di una tavolata di mamma, papà, fratelli, bambini, zie, nonni e cugini chiassosi. Si tratta di quella tipica aggregazione che un occhio alieno e oggettivo troverebbe appropriato definire «una banda di matti». Eppure Dio si è proprio fatto uomo, per questo facciamo festa e, probabilmente, nel farlo insieme alla nostra famiglia trasgrediamo al principio che regna sovrano nel periodo natalizio.
Dovremmo essere tutti più buoni; dovrebbe pervaderci quella celeste predisposizione mentale ad accogliere con sentimento di benevolenza e comprensione l’universo intero. Forse nei confronti dell’intero universo siamo ben disposti, ma nei confronti di certi particolari individui la cosa si fa più difficile. Il ritornello Aggiungi un posto a tavola suona bellissimo, detto tanto per dire, ma se viene pronunciato in senso letterale, perché implica che al pranzo di Natale si unirà anche il-tal-parente, forse l’appetito un po’ si guasta. Ma proprio perché la virtù che si festeggia a Natale è la carità (e non l’armonia universale), non mi stupisco che il signor Chesterton ne abbia parlato usando come orizzonte del discorso quel frastuono di forchette, chiacchiere e stordimento che è il pranzo di Natale:
«C’è un modo di dire molto appetibile a proposito del “vedere del buono in tutti”, come se fosse una cosa facile, che chiunque riesce a fare senza alcuno sforzo. Senza sforzo non solo non si vede il buono, ma non si vede proprio niente. [...]. Non so quante discussioni tra amici o familiari si siano scatenate anche questo Natale, cominciate con un parente che arriva furioso per lo sdegno e tira fuori che la zia Susan ha detto questo o quello; quando è più probabile che lei abbia detto qualcosa che qualsiasi uomo ragionevole avrebbe recepito in modo totalmente diverso. La zia Susan, come sappiamo, non appartiene ai pensatori di indiscussa lucidità e precisione, ma ha il diritto di essere giudicata per quel che ha detto, e non per quello che qualcun altro, infuriato, crede possa suonare vagamente simile a quel che lui ha capito.
La confusione non è semplicemente dovuta al peccato dell’ira, cioè al fatto che la gente perde la pazienza nei confronti degli altri. È anche dovuta al peccato dell’accidia; al fatto che la gente non si sforza di ascoltarsi reciprocamente, o di prestare attenzione a ciò che reciprocamente viene effettivamente detto. La mia prima conclusione, dunque, è che l’accidia, l’accidia intellettuale, così come la pura ira emotiva, sono i grandi nemici moderni della carità» (da I libri della settimana, 4 gennaio 1933).
Ci sono molte declinazioni di bontà che il mondo civile esterno alla famiglia può offrire. Ad esempio, la zia Susan avrà senz’altro incontrato molti giovani gentili che, vedendola in là con l’età, le avranno ceduto il posto sull’autobus. Ma per riuscire a starle accanto a tavola a Natale, probabilmente l’unico modo è quello di riempirsi di molta carità. Che è il contrario di una virtù silenziosa, perché non è una tolleranza arrendevole.
Fintanto che si tratta di aver a che fare con chi sta nel tavolo accanto al nostro al ristorante ci si può vestire di un buonismo sorridente o di un rispetto inamidato. Si sposta cortesemente la sedia o il cappotto, si parla a voce bassa e si mangia educatamente. Fintanto che resta una qualche forma di distanza ed estraneità ci si può accontentare di virtù morigerate, politicamente corrette e formalmente generose. È solo l’esasperazione di cui sono capaci i vincoli parentali a dirci che la bontà e la tolleranza, armoniosamente ed edulcoratamente intese, non bastano. Perché non bastano quando riguardano quelli che stanno a tavola con noi.
C’è qualcosa di misterioso e santo in quella bufera di contraddizioni che sono i vincoli di sangue, perché non è il puro e gentilissimo affetto che tiene unite persone, che a volte onestamente si detestano e litigano in modo tutt’altro che decente. Vero è che, quanto più i vincoli sono stretti e irrevocabili, tanto più le virtù che li sostengono devono farsi ardenti ed energiche come la carità. Quando, invece, le relazioni diventano flessibili, cucite e scucite su misura, la debolezza del vincolo si estende alla virtù, che può così limitarsi a celebrare un quieto e inerme pacifismo. E questo, però, espone il nostro fianco a un serio pericolo: quello di rimanere un paese in guerra, senza volerlo più vedere. Vedere del buono in tutti è un compito arduo (vederlo nella zia Susan probabilmente è una missione impossibile); sicuramente è meno impegnativo dire che tutto è buono. Ma è una bugia.
Prima di riferirmi a qualsiasi altra cosa, mi riferisco al conflitto irrisolto che c’è in ciascuno di noi. Perché, fino all’ultimo istante di vita, nessuno di noi è un problema svolto, risolto ed etichettato come «buono» o «cattivo». La pienezza della nostra persona è tutta da conquistare nell’impegnativo percorso di scelte, azioni e pensieri che facciamo di giorno in giorno. Dire che è una battaglia non è metaforico, ma onesto. I coniugi Daniel e Christina Perdue hanno avuto un’idea semplice ed efficace per fare gli auguri di Natale: Daniel è impegnato come militare in Afghanistan, la moglie Christina è a casa a New York; essendo lontani, hanno ribadito in modo visibile la loro unità assemblando due foto (una metà ritrae lui in Afghanistan, nell’altra metà c’è lei a New York) in cui sorreggono lo stesso cartello di auguri. Uno modo semplice per esprimere il vigore di un vincolo che persiste, in mezzo alla guerra delle cose.
L’azione del combattere, che spesso riduciamo all’idea deviata della violenza aggressiva, è anche questa sana capacità costruttiva di scegliere una parte e difenderla. Su questo terreno l’abisso fra il buonismo e la carità si fa incolmabile: perché c’è una forma di tolleranza che pur di accettare ogni stravaganza umana ne esclude una parte fondamentale; e c’è una forma di accoglienza che è completamente umana, proprio perché non censura questa parte fondamentale, che è l’opposto dell’ignavia. Lo spiega bene Chesterton, sempre a proposito delle sfuriate generate dalle zia Susan al pranzo di Natale:
«Tu, che dici che la carità accetta ogni cosa umana: finché essa non avrà accettato anche lo spirito combattivo, non avrà accettato ogni cosa umana. C’è un grande vuoto in quasi tutti gli schemi di pace e di riconciliazione. Io penso che possiamo considerare essenziale in ogni grande religione il fatto che debba contemplare come inerente all’idea di carità l’idea di essere capaci di sdegno e indignazione. Altrimenti la carità sarà qualcosa di non completamente umano, e quindi di non completamente divino. Anche a Natale non saremmo cristiani se non vedessimo la differenza tra San Giorgio e il drago».