Pennac, la mia domenica è sacra, di Daniel Pennac
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Riprendiamo da Avvenire dell’1/1/2013 un testo dello scrittore Daniel Pennac. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (22/12/2013)
Ho sempre adorato le domeniche. «Il settimo giorno» il Creatore si riposa… Prendo il testo biblico alla lettera. Mi piace quella sensazione di giornata libera, in assenza di gravità, tappa metafisica. La domenica Parigi non fa il solito rumore. Anche la città si riposa. Anche il cimitero di Père Lachaise, mio placido vicino.
Nel cortile accanto a me i bambini giocano. È la mia musica della domenica. Gridano, costruiscono il loro mondo. Hanno quella capacità di stare completamente in ciò che fanno, pur cambiando gioco ogni cinque minuti. I bambini sono dei metafisici. A tre o quattro anni fanno domande che ci stupiscono. Gli adolescenti, invece, sono al tempo stesso dei moralisti – sia quando si ribellano contro la morale sia quando la preconizzano – e degli psicologi che cercano di delucidare l’enigma degli adulti. Noi adulti, per forza di cose, siamo degli epistemologi, dei ragionieri, dei logici. Nella vita ci sono queste tappe e mi piace molto la breve tappa metafisica.
La domenica mattina accompagno mia moglie al mercato di Place de la Réunion, accanto a casa, vicino al Père Lachaise. Da non confondere con il mercato di Belleville dove si svolgono alcune scene della Saga Malaussène. È un tempo a parte. Vi si incontrano gli amici davanti a un bar. Talvolta trovo il mio amico Thomas Fersen, il cantante. Mi piace molto quel ragazzo, lo trovo molto avvincente. Ha una sorta di calma, un distacco, un modo molto placido di prendere le cose come vengono. È molto spirituale, con un’ironia che non è mai aggressiva. È un sacro poeta. Mi piacciono molto i suoi versi «Io che mi credevo un santo / mi è apparso / che ho un lato malsano / che dà sulla strada…».
Ho pochissimi ricordi d’infanzia. Sono nato a Casablanca durante la guerra, il tempo di uno scalo. Mentre mia madre partoriva, mio padre, soldato, sbarcava sulle coste della Provenza. La nostra casa di famiglia si trova a La Colle-sur-Loup, nelle Alpi Marittime, ma abbiamo viaggiato molto seguendo le città di guarnigione, a Savigny-sur-Orge, in Germania, a Gibuti, in Indocina, a Chalons-sur-Marne… Ricordo, un giorno che eravamo a messa con i miei quattro fratelli, di aver ricevuto una sberla da mio padre perché, nonostante i suoi richiami, continuavo a battere i piedi. Quel rumore risuonava, si propagava in tutta la chiesa… Lo sento ancora. Eppure mio padre era un uomo gentile. Le domeniche della mia infanzia sono legate anche al ricordo di mio fratello Bernard, più grande di cinque anni. Né io né lui ricordiamo di avere litigato nemmeno una volta. Eravamo molto uniti.
La domenica, con il nostro cane, facevamo lunghe passeggiate in montagna al colle di Vence, nell’entroterra nizzardo. Crescendo, sono andato a fare i campi con l’oratorio, in Alta Savoia. Il direttore era un ex marinaio, un duro. La tradizionale passeggiata domenicale era, in realtà, un gioco straordinario che durava l’intero fine settimana. Venivamo sguinzagliati a squadre nel bosco. L’obiettivo era quello di recuperare il gagliardetto di un’altra squadra lanciandosi alla sua ricerca. Per un ragazzino di 13 anni era l’avventura, un’incredibile sensazione di spazio, il silenzio, la penombra… Oggi non sarebbe più possibile, i genitori andrebbero su tutte le furie! Però era anche un po’ violento. Una volta sono stato appeso a un albero e abbandonato in mezzo al bosco, mi hanno trovato alcuni gitanti. Nel mio libro Storia di un corpo (Feltrinelli) m’ispiro a quell’esperienza piuttosto terrificante.
Quando si è bambini la domenica è spesso guastata dai compiti da finire. Dopo un quarto di secolo d’insegnamento ho inoltre il ricordo degli ultimi compiti rimasti da correggere a fine pomeriggio. Mia figlia mi chiedeva di giocare con lei e io dovevo rifiutare. Molti figli di insegnanti hanno il ricordo di genitori poco disponibili la domenica sera.
Oggi trovo che le domeniche abbiamo una certa grazia. Quel giorno ha qualcosa, anche se si è poco dotati per la noia. Il tempo non è scandito dagli obblighi, non scorre alla solita maniera. Anche la pipa che fumo ogni giorno non ha lo stesso gusto e gli stessi tempi. Mia moglie, che ha il senso dei rituali, ha stabilito «il pollo della domenica». Quel giorno la porta è aperta a una categoria particolare di nostri amici. Oggi hanno tra i 30 e i 50 anni, una ventina in meno di noi. Li abbiamo conosciuti bambini, li abbiamo visti crescere e, con il passare del tempo, ci hanno «adottato». Veder crescere i bambini consola d’invecchiare. Talvolta mi chiedo che cosa abbia cementato quel legame. Riflettendo, mi rendo conto che con tutta la loro fantasia e la loro gioia di vivere sono persone scrupolose, serie in ciò che fanno, e questo mi piace. Deve dipendere dalla mia etica di artigiano, l’amore per il lavoro ben fatto. In fondo, credo di essere anch’io una persona seria. Noioso come una domenica…
(per gentile concessione del quotidiano “La croix” - testo raccolto da Marie Auffret-Pericone; traduzione di Anna Maria Brogi)