Appunti per l'omelia della IV domenica di Quaresima, anno B (di Andrea Lonardo)
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Questi appunti sono stati preparati per il sito www.omelie.org
Alcuni autori del nostro tempo domandano provocatoriamente alla chiesa: Giovanni e Paolo presentano il Gesù reale o ne costruiscono un altro?
Ma, in questa insinuazione, trascurano di tematizzare il tema dell’amore, dell’agape, che è chiave di lettura in Paolo ed in Giovanni. Essi ci parlano del Figlio e del Padre, essi annunziano la filiazione divina del Cristo, la sua condizione di essere nella forma divina, nella “morfè” di Dio, ma al contempo sintetizzano l’opera del Figlio e del Padre che in lui agisce, nella manifestazione dell’amore eterno.
Questo puntare più direttamente gli occhi sulla sintesi, sull’essenziale, rispetto ai sinottici che sono più narrativi, caratterizza lo sguardo di Giovanni e di Paolo, come nel vangelo e nella seconda lettura della liturgia odierna.
Viene in mente quell’esperienza semplice che talvolta abbiamo vissuto quando, ascoltando qualcuno a noi caro che parlava, abbiamo intuito che dietro le parole che stava esplicitamente dicendo, egli aveva ben chiaro qualcosa che faceva trapelare solamente con pudore. Ad esempio, mentre un giovane aveva già deciso nel suo cuore di entrare in Seminario e raccontava di ciò che sarebbe avvenuto nell’anno a venire, era evidente, a chi gli stava vicino e lo aveva visto pregare e donarsi nella vita parrocchiale, che quel passo di donazione al Signore era ormai maturo, anche se egli non lo affermava ancora esplicitamente.
Ci siamo ritrovati a dire poi, l’anno successivo: «Lo sai? Io lo avevo già capito da un anno che tu saresti entrato in seminario, anche se non lo avevi ancora detto pubblicamente! L’ho capito in quel momento in cui ti ho sentito parlare in quel modo». Lo stesso avviene nell’amore di una persona che si intuisce, prima che sia esplicitamente dichiarato in forma verbale.
Chi vive momenti come questi, capisce di più o di meno la storia della vita dell’altro? È sufficiente limitarsi a ripetere verbalmente le parole udite per aver capito la vita di qualcuno ed essere fedeli alla sua verità? Giovanni e Paolo hanno intuito la realtà profonda del Cristo, la sua storia reale, sia quando parlano del suo amore che dona se stesso al mondo, sia quando testimoniano del rapporto unico del Figlio con il Padre (ed, in fondo, i due aspetti sono indissolubili!). E di questo parlano continuamente.
Potremmo fare riferimento alla categoria della sponsalità, del dono totale di sé, eterno ed irrevocabile: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Così in Giovanni. Ed, in Paolo, similmente: “Fratelli, Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, ci ha fatti rivivere con Cristo”.
Non per niente, Giovanni racconterà delle nozze di Cana, nelle quali il vero sposo, il Cristo, celebra le sue nozze, come primo segno, meglio come “inizio dei segni”, e Paolo od un suo discepolo annunzia nella lettera agli Efesini che il mistero grande, il grande sacramentum, è quello dell’amore di Cristo per la sua chiesa.
La fede, nella sua adesione al Gesù reale, ha bisogno di sentir raccontare i mille particolari della sua vita ed, insieme, di saperne capire il cuore. Ed è la ricchezza della complementarietà dei sinottici, da un lato, e di Giovanni e Paolo, dall’altro. Come avviene tuttora nella catechesi, dove la Parola di Dio è testimoniata insieme dall’ampiezza della Sacra Scrittura e dalla sintesi del Simbolo di fede che ne racchiude i tratti essenziali.
La novità dell’utilizzo del termine “agape” per indicare la totalità della vita del Cristo e l’amore che il Padre ha per lui ed, in lui, per noi, porta alla scelta del termine latino “carità” ad indicare Dio stesso: Dio è carità, Dio è amore.
“Carità”, sebbene il termine sia poi stato piegato ad usi diversi, proviene dall’aggettivo latino “carus”, ciò che è “caro”, “che costa molto”, “che vale molto”, che “è pagato a caro prezzo” (solo tardivamente, anche se a ragione da un punto di vista teologico e non storico, si connetterà l’espressione piuttosto con il greco “charis”, che vuol dire invece “grazia”).
Ora tutta l’opera del Padre che invia il Cristo nel mondo è comprensibile alla luce dell’amore, della carità, che egli ha per l’umanità. Per questo Cristo, che pure è il giudice, non viene nel mondo per giudicare, ma per salvare il mondo.
E proprio il suo amore diviene, però, ciò che, di fatto, differenzia. L’amore, infatti, chiede di essere accolto. L’amore giunge per amare, ma può essere rifiutato. Fu già così all’inizio della storia della salvezza ed ora si ripete nella venuta del Cristo.
Si rivela qui che il male non è originario, poiché esiste in principio solo l’amore. Ma dove esso, che è la sorgente di ogni vita, viene gettato via, ecco che l’uomo si ritrova senza quell’amore del quale necessita per vivere. Tornano in mente le parole straordinarie di una Lauda di Jacopone da Todi che scrisse, cantando l’amore di Cristo: “L’amore non ei’ amato”, l’amore non è amato!
Il rifiuto di quell’amore comporta che l’uomo entri nelle proprie tenebre non più illuminate dalla luce del Cristo e dal suo calore. Un grande teologo contemporaneo ha parlato del principio del “terzo incluso”: per capire e vivere l’amore, non basta l’amore dell’io e del tu umano, ma questo amore deve aprirsi alla rivelazione ed alla grazia che vengono dall’amore di un Terzo, deve accogliere l’amore di Dio stesso, misura e purificazione nella verità di ogni amore.
Per questo, in Giovanni, come ha affermato il grande esegeta Ignace de la Potterie, alla fine dei conti esistono solo due virtù, la fede e l’amore, e solo due peccati, il rifiuto di Cristo e l’odio del fratello.