Frate Jacopa e la casa trasteverina del patrono d’Italia. I tesori di San Francesco a Ripa, di Silvia Guidi
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 7-8/10/2013 un articolo scritto da Silvia Guidi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione San Francesco d'Assisi.
Il Centro culturale Gli scritti (1/12/2013)
La chiesa trasteverina di San Francesco a Ripa Grande non custodisce solo la splendida statua in diaspro di Sicilia e marmo di Carrara della beata Ludovica Albertoni, capolavoro di un Bernini settantenne al culmine della maturità creativa e della perizia "scenografica"; contiene anche un ricco patrimonio di oggetti sacri - dalle reliquie ai paramenti liturgici ricamati - appena restaurati. La mostra dedicata all'intervento di recupero appena concluso è stata inaugurata mercoledì 2 ottobre dal cardinale Angelo Comastri, vicario generale del Papa perla Città del Vaticano: fino al 10 ottobre sarà possibile vedere da vicino un'ampia selezione delle più rare autentiche con le annesse reliquie e il prezioso parato dell'Immacolata Concezione, composto da tonacella, pianeta, borsa per corporale e due stole, che spicca sugli altri arredi sacri dell'allestimento per la ricchezza dei tessuti, la complessità dei ricami delle immagini e dei simboli presenti e la perizia della loro esecuzione.
Il percorso espositivo si sviluppa all'interno della chiesa: nella cappella in cui è sepolto il pittore Giorgio de Chirico sono in mostra le autentiche e le reliquie, mentre nella cappella dell'Immacolata Concezione si ammira il parato liturgico omonimo; il pubblico può anche visitare la cella di Francesco dove sono conservati il sasso che faceva da guanciale al Poverello d'Assisi e il suo ritratto su tavola, opera di Margaritone d'Arezzo (1262-1305).
«Il complesso monumentale - spiega il curatore Gianfrancesco Solferino - sorge sull'area dello xenodochium benedettino dedicato a San Biagio, luogo nel quale Francesco trovò più volte ospitalità durante i suoi soggiorni in città. L'ospedale-ospizio, posto a ridosso della porta Navale o Portuense, era stato fondato intorno al X secolo come grangia del vicino monastero dei Santi Cosma e Damiano, più comunemente detto San Cosimato: qui, oltre ad accogliere i pellegrini che raggiungevano la città dalla via ostiense e dal porto di Ripa Grande, i benedettini prestavano assistenza anche ai malati e ai lebbrosi».
Francesco avrebbe scelto questo luogo per i suoi brevi soggiorni romani su insistenza di una cara amica, Jacopa de' Sette Soli, che ben conosceva la sua predilezione per i luoghi poveri in cui si cercava di lenire la sofferenza dei malati, condividendone la vita.
«La stessa "frate Jacopa", come affettuosamente amava chiamarla Francesco - continua Solferino - ebbe un ruolo determinante nel passaggio di proprietà dell'ospedale trasteverino ai frati minori già qualche tempo dopo la morte del santo; donazione ratificata ufficialmente da Gregorio IX nel 1229 con la bolla Cum deceat vos attraverso la quale veniva imposto ai benedettini la cessione della chiesa di San Biagio, dell'omonimo nosocomio e delle adiacenze. Fu così che già nel 1231 venne eretta a fundamenta la prima chiesa romana dedicata a Francesco interamente finanziata dal conte Pandolfo dell'Anguillara, terziario francescano».
Il nuovo luogo di culto ricalcava la tradizionale pianta basilicale a tre navate divise da colonne e intersecate dal transetto; gli interni, descritti nei particolari dai cronisti cinquecenteschi, erano decorati da un ciclo pittorico ad affresco che illustrava la vita e i miracoli di Francesco, opera attribuita dal Vasari al pennello di Pietro Cavallini. Accanto alla chiesa sorgeva il convento dei frati, in gran parte frutto di un riadattamento della struttura benedettina, successivamente ampliata e trasformata.
La tradizione individua nell'area attualmente occupata dall'altare della cappella quello che fu il sottoscala in cui Francesco e i suoi compagni avrebbero trovato alloggio già a partire dal 1209.
Il Seicento cambiò sostanzialmente l'aspetto dell'edificio: nel 1603 - narrano le fonti - dovendosi ampliare la capienza del coro della chiesa, l'architetto Onorio Longhi aveva previsto l'abbattimento di gran parte delle strutture medievali adiacenti all'abside dell'Anguillara, tra cui la cella, sulla cui area sarebbe dovuta sorgere la nuova sacrestia.
Mentre si poneva mano alla demolizione, il cardinale Alessandro Peretti Montalto, esortato in sogno da Francesco, fermò i lavori. Nel 1708 la cappella raggiunse l'aspetto attuale con l'inaugurazione del monumentale altare ligneo, capolavoro dell'artigianato artistico del tempo.
L'arredo liturgico, posto sulla parete di fondo della cella, fu ideato ed eseguito dallo scultore francescano Bernardino da Jesi con l'assistenza tecnica di due confratelli ebanisti e la collaborazione di fra Tommaso da Spoleto. Fra Bernardino realizzò l'esedra dell'altare come un retablo mobile all'interno del quale collocò le tre tavole pittoriche
più antiche e ai lati le tele seicentesche dell'Angelo annunciante e della Vergine Annunziata.
All'interno dell'architettura lignea il frate marchigiano predispose una sorta di scrigno-forziere, un ingegnoso meccanismo a ingranaggi che, ruotando su se stesso, espone alla venerazione dei fedeli la collezione di reliquie, raccolte da fra Tommaso con il concorso di numerosi personaggi del tempo tra cui il granduca di Toscana Cosimo III de' Medici e il cardinale Alderano Cybo, ordinatamente classificata e suddivisa per cronologia e importanza.
Il minuzioso elenco è ancora oggi conservato nell'Archivio francescano insieme alla raccolta fascicolata delle autentiche e dei carteggi intercorsi tra Tommaso da Spoleto e gli oblatori delle reliquie. La documentazione canonica, rimasta integra tra le alterne vicende del convento, costituisce un unicum di grande valore che testimonia la genesi dell'altare-reliquiario e la perizia con la quale è stato realizzato.
San Francesco a Ripa Grande è anche il titolo di un racconto di Stendhal, scritto nel settembre 1831 e pubblicato postumo nella rivista «Revue des Deux Mondes» il l° luglio 1853. Un testo che di francescano ha davvero pochissimo: nella raffinata prosa di Marie-Henri Beyle, infatti, il complesso monumentale romano è poco più di un pretesto narrativo, una preziosa scenografia barocca che fa da sfondo a un noir sentimental politico piuttosto convenzionale, in cui il giovane cavaliere de Sénécé, nipote del duca di Saint-Aignan, ambasciatore di Luigi XV, cade vittima delle oscure trame di due principesse della famiglia Orsini.