Leggiamo una poesia alle baby-squillo. Contro il disprezzo dei sentimenti, di Giorgio Israel
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Riprendiamo da Il Messaggero del 19/11/2013 un articolo scritto da Giorgio Israel. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2013)
Nello sgomento di fronte all’esplodere dei casi di baby-prostituzione, si rincorrono le solite diagnosi tra cui campeggia quella della crisi della famiglia. Siccome nessuno ha la più pallida idea di come si dovrebbe curare la crisi di questa istituzione – la cui natura, oltretutto, assume contorni sempre più sfuggenti – la proposta più banale, come un rifugio disperato, è affidare la terapia alla scuola. Come se non sapessimo da anni che anche qui germinano i semi della mala pianta, nelle prime forme di baby-sesso nei bagni, con il contorno efferato di filmini ripresi con il cellulare e diffusi in rete. Del resto, quale ipocrisia pensare che un problema del genere possa essere risolto da un’istituzione esausta, stremata che, con mezzi sempre più modesti, è chiamata a far fronte a tutti i mali sociali, sempre anteposti all’esercizio della sua funzione istituzionale, l’istruzione! Eppure, tra le varie ricette è circolata persino quella di introdurre nella scuola nuovi corsi di una materia che dovrebbe fornire gli elementi di un corretto comportamento – diciamo così – “morale”.
Il carattere sgangherato e irresponsabile – nel senso testuale della parola, ovvero della fuga dalle responsabilità – di queste proposte suggerisce che siamo ancora molto lontani dall’aver fatto una diagnosi accurata dei mali che affliggono i nostri giovani e, soprattutto, i principali responsabili: gli adulti, che dovrebbero educarli. Non è certo possibile fare questa diagnosi in un articolo di giornale ma, visto che impazza la mania dei test, ne proporremo uno molto semplice e che a qualcuno potrà apparire buffo. Si prenda un giovane, e anche i loro genitori, e si proponga loro la lettura di una poesia (meglio se molto commovente), o un brano letterario intenso, o un brano musicale, non necessariamente classico, anche una bella canzone; e si veda cosa succede.
Se spunterà un sorrisino di sufficienza, o di noia, o ancor peggio la smorfia sarcastica di chi la sa lunga e non ha da perdere tempo dietro alle romanticherie, la diagnosi è fatta. La timidezza e il pudore dei sentimenti sono una caratteristica adolescenziale, ma quando sono esaltati da un clima generale di disprezzo dei sentimenti – roba da perditempo o da rimbecilliti – tracimano rapidamente nel cinismo.
Ed è proprio questo il male che dilaga per responsabilità degli adulti: il cinismo, che si manifesta nel proporre come modello il furbo, colui che la sa lunga e va all’essenziale e al “pratico”, e non ha tempo da perdere dietro ai “sentimenti”. Purtroppo, facendo il nostro test, è da scommettere che si constaterà che pochi reagiranno con partecipazione e commozione, i più con un risolino annoiato e sardonico.
Del resto, come potrebbe essere diversamente? Quale educazione sentimentale può trasmettere un adulto che a un funerale commenta che la soluzione migliore sarebbe buttare tutti i morti nella discarica? Cosa può discendere da orientamenti educativi che hanno ridotto le antologie dispensate nelle scuole non a raccolta di testi letterari, bensì di “testi informativi” che, quando contengono qualche concetto, si tratta per lo più o di incitare all’emancipazione da ogni forma di autorità o di propinare lezioni di politicamente corretto improntate al più arido ideologismo? I sentimenti no, da quelli meglio tenersi alla larga, quasi fossero un segnale di immaturità.
Tuttavia, la scuola non è la principale responsabile di un male che pervade tutta la società. È il veleno quotidiano che incita al successo e al consumismo, e tratta le persone come mero “capitale umano” da “ottimizzare”. Come se una società potesse progredire sulle spalle di persone senza ideali, senza aspirazioni, senza emozioni, senza cultura. E come se la formazione di persone autonome e capaci di rigenerare la società si potesse fare imbeccandole con manuali d’istruzioni per l’uso, come se fossero macchine.
Il carattere si forgia creando interesse, suscitando la passione ad apprendere, scoprire e fare, trasmettendo l’idea che la cosa più importante di tutte è costruire con tenacia, giorno dopo giorno, un senso per la propria esistenza. Chi scrive ha una formazione scientifica ed è convinto che anche il modo con cui si apprendono le scienze e le tecniche può e deve essere orientato in senso umanistico, eppure è arrivato a pensare che sia tale il livello di disumanizzazione cui stiamo giungendo che la prima azione di emergenza deve essere ricominciare a leggere poesie.
Qualcuno ridacchierà di fronte a questa affermazione: dovrebbe piuttosto chiedersi se egli non sia un triste esito positivo del test, un esempio del declino della capacità di avere sentimenti ed empatie. Occorrerebbe parafrasare il famoso invito di Martin Luther King “vi supplico di indignarvi”, nella forma “vi supplico di commuovervi”. Difatti, la sorgente del disastro è l’incapacità di commuoversi, la corazza di indifferenza, scetticismo e cinismo che stiamo elevando attorno a noi e trasmettendo ai nostri figli. Il farmaco da impartire è una massiccia “educazione sentimentale”.
Ma – sia ben chiaro a scanso di equivoci – questo è l’esatto contrario di un invito a inventare qualche corso di “educazione sentimentale” da far impartire agli “specialisti”. Ricominciamo piuttosto a leggere poesie nelle scuole ed anche a casa.
[Sul suo Profilo FB Giorgio Israel ha aggiunto questa considerazione:]
Aggiungo solo un'osservazione. Anni fa mi resi conto che ormai non si dice più che una persona è triste: si dice che è depressa. La tristezza di una persona normale è bandita: si tratta sempre e solo di una malattia, la depressione, eventualmente da curare con psicologi o pillole. È un male della nostra società: la medicalizzazione di tutto e il conferimento della soluzione di ogni problema psicologico agli psicologi o psichiatri. Per questo ho voluto parlare di "sentimenti" ed evitare termini ormai di gergo come "anaffettività”. Non è una malattia, e la cura non sono psicologi e psichiatri.