1/ Oltre l'atterrito guardare: qual è la nostra parte? L'immane catastrofe di Tacloban, di Davide Rondoni 2/ Onore ai filippini italiani. Popolo che ancora conosce il poderoso senso della parola “fede”, di Marina Corradi
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1/ Oltre l'atterrito guardare: qual è la nostra parte? L'immane catastrofe di Tacloban, di Davide Rondoni
Riprendiamo da Avvenire del 12/11/2013 un articolo scritto da Davide Rondoni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (17/11/2013)
Cosa fare, ma ancora prima, cosa pensare... O forse nemmeno a pensare si riesce. Dove, come organizzare una riflessione? Forse più giù nella gola o dove si forma il magone, nel cuore, si riesce a muovere qualcosa che non sia solo un atterrito guardare. Cosa fare o pensare dinanzi alla immane catastrofe di Tacloban, dove cause naturali, inadempienze e disattenzioni portano morte e panico in mole così sterminata?
Ci sono modi diversi di reagire. Ci sono modi diversi di affrontare quanto accade, specie quando accadono cose, come questa, nelle Filippine, che colpiscono l’attenzione di tutti. Sì, ci sono tanti modi. Ma quello più giusto è chiedersi: e ora quale è la mia parte? In questo teatro strano e drammatico che è il mondo quale è la mia parte?
Se non ci si fa questa domanda, cruda, essenziale, gli altri unici atteggiamenti di fronte a una così immane sventura che accade, per così dire, nella zona lontana del palco, nella zona periferica, sono due: la bestiale disumana indifferenza, quella per cui dopo un’occhiata che pur si riempie di lacrime si tira dritto uguali a prima. Oppure, l’altro atteggiamento che investe chi non si chiede davvero quale sia ora la propria parte è l’allargare le braccia, il fatalismo, il dire che va bene, la sventura è una giostra impazzita e cieca, a chi tocca una volta, a chi un’altra.
Invece l’uomo che sta nella scena del mondo con il desidero di comprendere sempre di più quale sia la parte che può e deve recitare, si lascia interrogare dai grandi fatti, (e dai piccoli, tanto più è vivo). Si lascia mettere in questione. E questo tremendo tifone che ha sventrato città e case, rapito esistenze, spezzato cuori e destini, non porterà un po’ di scompiglio nei nostri pensieri? Non li costringerà almeno per rispetto agli infiniti volti di bambini e persone colpite, a inquietarsi, a diventare più interrogativi, più profondi? Occorre mormorare almeno tra i denti stretti: ora qual è la mia parte? Occorre chiederselo di fronte alle vittime, chiedendosi se qualcosa si può fare.
E fare si può. Per soccorrere. E occorre chiederselo di fronte ai propri figli che vedono queste cose in tv, o di fronte ai colleghi che più di un: "Poveracci" non riescono a dire. Se si smette di chiedersi quale sia la propria parte, si finisce per recitare solo copioni prefissati. Che quasi nulla riesce più a scuotere, nemmeno il tifone più potente. Copioni prefissati da un potere che, come diceva un personaggio di Shakespeare, preferisce avere persone addormentate, che non si fanno domande. Chiedersi quale sia la propria parte in questo grande e strambo teatro, mette invece in moto. Movimenta il pensiero, il cuore, la fantasia. Di fronte alla tragedia come di fronte alla bellezza.
Se la mia, se la nostra parte su questo palco è solo passare casualmente cercando di cavarsela, allora ogni fatto grande o piccolo sarà letto solo in funzione del proprio piccolo interesse. E persino una tragedia immane potrebbe valere dunque zero. Valere zero, per noi, tutte quelle morti, quelle immense sofferenze. Non "servirci" a nulla. Se invece sto cercando davvero, quale sia la mia parte, ecco la cosa che avviene nel più sperduto luogo, mi fa cercare più intensamente, più seriamente, più audacemente quale sia la parte che mi spetta. Che è adeguata alla mia vita. Tutto il grande dolore che avviene dall’altra parte del mondo, come il più invisibile dolore che avviene vicinissimo, e così anche la gioia e la speranza che avvengono lontane o vicine, mi chiedono di mettere a fuoco meglio quale sia la mia parte.
Così ogni cosa che accade mi movimenta. Mi riguarda. Mi tocca veramente, e non solo nella parte superficiale della reazione sentimentaloide, nella reazione immediata, che spesso sono tanto sollecitate quanto rapidamente archiviata dal mondo dei media, dallo strepito di pochi giorni.
Mentre in una parte lontana del palco del mondo si alza il lamento e l’invocazione, occorre che da questa parte si alzi la domanda, seria, movimentata. È il primo modo per concepirsi insieme, sulla stessa scena. Il primo modo per restare umani e per diventarlo sempre di più.
2/ Onore ai filippini italiani. Popolo che ancora conosce il poderoso senso della parola “fede”, di Marina Corradi
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Marina Corradi ri-pubblicato dalla rivista il 12/11/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (17/11/2013)
I loro uomini sono i nostri “tuttofare”, le loro donne le nostre domestiche e baby sitter. In questi giorni in cui si parla dei tremendi guasti che il tifone Haiyan ha provocato nel loro paese, anche noi italiani siamo portati ad accorgerci di queste solitamente silenziose presenze che abitano nel nostro paese. Colpisce il loro non solo essere una comunità molto coesa e del tutto integrata nella società italiana, ma anche la loro orgogliosa appartenenza ad un popolo dal quale non hanno reciso i legami. Per questo, nei giorni in cui molte comunità di “filippini italiani” si stanno dando da fare per aiutare i loro fratelli vittime del tifone, noi abbiamo pensato di ripubblicare un articolo che, dieci anni fa, nell’agosto 2003, Marina Corradi scrisse su Tempi. Eccolo di seguito.
Caravaggio (Bergamo) – La canicola toglie il fiato, e non c’è scampo al sole allo zenith nel mezzogiorno di una domenica di agosto. Pochi pellegrini accaldati scendono al Sacro Fonte. Là sotto, dove un giorno di maggio del 1432 la Madonna «materna apparve, nunzia di conforto e di pace», nella penombra sgorga l’acqua miracolosa. I fedeli riempiono le bottiglie, si segnano devoti.
Improvvisamente, come un subbuglio, una folata di vento: entrano veloci, quasi di corsa, tre filippini in tenuta da ciclisti. Giovanissimi, sudati come da una lunga pedalata, si precipitano alla Fonte. Prima si fanno il segno della Croce; poi con quell’acqua si bagnano i corti capelli nerissimi, la faccia sudata, e infine la bevono con un’avidità gioiosa e innocente – con la sete che si ha, a vent’anni, d’estate, dopo una corsa in bici. Si segnano di nuovo, e già sono andati.
Alla messa (in anticipo) per trovare posto
Il santuario di Caravaggio ogni domenica è pieno di filippini. Forse perché è santuario mariano, e i filippini sono devoti da sempre alla Madonna. Forse per un’eco di miracoli che li ha raggiunti, e in cui a loro volta sperano. Si presentano alle Messe di metà mattina con un buon anticipo: perché per trovare posto a sedere per famiglie di dieci o quindici persone non si può arrivare in ritardo. Li vedi entrare e allineare nei vecchi banchi di legno scuro file di sei o otto bambini tra fratelli e cugini.
Tutti vestiti bene, “della domenica”, come si diceva una volta da noi, quando non esisteva il week end, e non si usavano le tute da jogging. Le madri e i padri ai due capi della panca, fieri di tutti quei figli. I più piccoli, annoiati dalla Messa, fissano i loro immensi occhi neri sugli angeli scolpiti sui portali, sugli stucchi d’oro delle colonne; ridono, ma di nascosto e a bassa voce, perché il padre non gli toglie lo sguardo severo di dosso. Osservi queste famiglie interminabili di fratelli e cugini e nipoti, traboccanti di bambini, e i loro capelli neri e lucenti e gli occhi asiatici, e capisci che una nuova Europa è già in silenzio cominciata, e non importa se parla tagalog. Sa il Padre Nostro, ed è abbastanza.
Quando avevamo noi la valigia di cartone
Per don Giancarlo Quadri, responsabile per la diocesi di Milano della pastorale dei migranti, l’immigrazione cristiana in Italia è una «costellazione di rinascita: accanto ai filippini, che sono oltre ventimila solo in Lombardia e fortemente praticanti, ci sono i latinoamericani, per i quali abbiamo riaperto al culto, accanto all’Università Statale, l’antica chiesa di Santo Stefano, che ogni domenica è gremita. E c’è la nuova onda dell’Est, i rumeni, i moldavi, le ucraine, che cominciano ad avere le loro cappellanie. Spesso mi trovo a pensare che cominciamo ad assistere a una sorta di ritorno di ciò che l’Europa ha seminato coi suoi missionari, nei secoli passati».
Non tutto è oro. Don Quadri racconta di come sette di ogni tipo assedino le popolazioni immigrate, ghermendo adepti grazie alla loro ignoranza. Come le seconde generazioni, nell’impatto con l’Occidente, facilmente perdano l’eredità dei genitori. E quanto sulle facce di certe bande di adolescenti filippini che ciondolano attorno al sagrato del Duomo tutto il giorno, «si legga già tutta un’altra storia». D’altra parte, ti chiedi, pensando alla Milano di quarant’anni fa, quanti dei figli di quelli che arrivavano dal Sud con le valige di cartone se ne andavano girando sbandati in piazza Duomo? Comunque, ora è gente di Milano, e “terroni” li chiama solo Bossi.
Libera a malo
Lombardi, “terroni”, filippini. La stratificazione delle immigrazioni si vede bene a Caravaggio, luogo di popolo per eccellenza. Vedi i bergamaschi, e quelli di Lodi e di più giù con la parlata più larga; e poi le ampie famiglie con i vecchi che conservano gli accenti del Sud, e i nipoti in tutto milanesi; e poi questi cortei di filippini coi ragazzini che già balbettano in italiano. E questa gente si mescola tra i banchi del santuario consumati e lisciati dalle ginocchia di generazioni di pellegrini, sotto le volte dove c’è scritto: «Libera a malo», che è l’essenziale. Scendono tutti assieme pigiandosi l’un l’altro al Sacro Speco, accendono una candela, dicono un’Ave Maria nella lingua che sanno, s’alzano, vanno. Ardono tutte assieme le candele.
Fuori, nella grande corte, sono eleganti e belle, le filippine nel giorno di festa. Qualche famiglia ha già una Fiat di seconda mano, come gli operai italiani negli anni Sessanta. Hanno alle spalle anni di stenti da dimenticare; anni di cui, orgogliosi, non parlano volentieri. Il viaggio clandestino da Manila a qui è costato ad ognuno molto caro. Anni e anni di lavoro. Dieci anni fa, oltre sei milioni di lire, quando uno stipendio in patria era di 200mila lire al mese. «Si vendeva tutto, la casa, i piccoli gioielli, tutto» racconta Louise. «Il percorso più frequente passava per Medjugorje. Dopo il pellegrinaggio, un taxi ti portava vicino alla frontiera con l’Italia. Poi erano quattro o cinque ore a piedi, di notte, per le montagne. Quando sono arrivata io, c’era la neve. Non l’avevo mai vista. Avevo freddo, e una grande paura. Non so come, siamo passate. Ma per mesi, ogni volta che vedevo un vigile, e persino i controllori dei treni, io tremavo per la paura».
Siamo in 97
Sono arrivati nascosti nei vagoni letto dei treni e nei bauli dei taxi, terrorizzati, come criminali colpevoli di chissà quali delitti. Lasciando a casa figli bambini per venire a curare i nostri, vecchie madri che non hanno più rivisto, per venire a curare le nostre. Sono arrivate e si son messe a lavorare tanto. «Gli italiani l’hanno visto, e ci rispettano» dice Eva «noi, qui, ci stiamo bene».
Han facce forti, da matriarche, le donne più anziane. Ce n’è, tra loro, di quelle che hanno portato in Italia un pezzo intero di mondo. Eden ha 58 anni. Ne aveva 38, e cinque bambini, quando decise di lasciare il suo paese, nel Nord delle Filippine, perché non riusciva a dargli da mangiare. «Un giorno ho detto: vado. Sono partita da sola e sono arrivata a Palermo, con il visto turistico. Mi ricordo quel mattino, sola e così lontana dai miei figli, senza nessuna certezza se non quella di essere, dopo pochi mesi, una clandestina. Ho trovato un lavoro, naturalmente in nero, 200mila lire d’allora per tutto il mese a servizio. Mia madre è morta, e avrei voluto tornare per il funerale ma la signora me lo ha impedito: se parti, m’ha detto, non ti riprendo. Poi sono andata a Milano e lì mi ha assunta un sacerdote che mi ha aiutato molto. Ho fatto arrivare mio marito e i miei figli, che ora sono tutti sposati. Ho nove nipoti. Tutta la mia famiglia, sorelle, zii, cugini, tutti poveri come eravamo noi, si è appoggiata a me per venire in Italia. Sono tutti qui, lavorano tutti. Siamo in 97. Io sono andata a Lourdes. Non per chiedere nulla. Solo per ringraziare».
Dio (per i filippini) non è morto
A Caravaggio vedi che è arrivato un popolo. Da molto lontano, è arrivato un popolo cristiano. Povero ma ricco di figli, quanto noi siamo ricchi e avari di bambini. Altri ne vengono, ne verranno, più disperati, dall’Est, dalla Romania, dalla Moldavia, dall’Ucraina. Ci sarà chi griderà allarmato che bande di miserabili stanno invadendo la civile Europa – il che sotto certi aspetti potrebbe anche esser vero. Sembra però che alcuni almeno di questi poveracci in cerca di pane, naufraghi della tragedia del socialismo reale, dopo decenni di ateismo di Stato abbiano conservato vivo un desiderio. Chissà che l’Europa in cui vent’anni fa Dio era dato per morto, non ridiventi cristiana grazie all’invasione degli ultimi dei poveri.