Il Codice di Aleppo ed il testo biblico vocalizzato dai masoreti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /01 /2009 - 22:44 pm | Permalink | Homepage
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Nel segnalare il sito che mette integralmente a disposizione una riproduzione digitale del Codice di Aleppo, riprendiamo le schede sulla tradizione masoretica ed i suoi più importanti testimoni, ripresentate in occasione della mostra sulla Bibbia a Roma del novembre 2008.
Il Centro culturale Gli scritti 19/1/2009



IL TESTO MASORETICO

Il confronto fra i manoscritti ebraici e le antiche versioni, in particolare quella greca, mostra che il testo della Bibbia si è conservato sostanzialmente integro ed, al contempo, evidenzia i luoghi nei quali, al momento delle traduzioni, il testo non era ancora interamente stabilito, come, ad esempio, per i libri di Ester o del Siracide.

I diversi manoscritti ebraici permettono altresì di verificare le differenti varianti dovute agli errori dei copisti; proprio per valutare tali varianti e giungere ad un testo criticamente ricostruito, è necessario conoscere la storia della trasmissione del testo e valersi delle antichissime versioni in greco. In particolare la scoperta dei documenti di Qumran arricchisce enormemente la possibilità di comprendere quale fosse lo stato del testo al I secolo d.C. confermando quello che già si sapeva dai LXX e cioè che il testo ebraico era, per la stragrande maggioranza dei libri, sostanzialmente fissato.

Lo stadio precedente alla versione greca, ai manoscritti qumranici ed, in particolare, alla definitiva fissazione del testo consonantico operata dai rabbini del I secolo d.C., viene chiamato di libera trascrizione.

A questo stadio seguì, alla fine del I secolo d.C., uno stadio di unificazione del testo che dovette avvenire anche in reazione all’utilizzo che del testo veterotestamentario facevano i cristiani. La decisione che portò a questa definitiva fissazione viene collocata sul finire del I secolo d.C. quando, a motivo delle conseguenze della I guerra giudaica, gruppi di rabbini dovettero abbandonare Gerusalemme e dimorare in varie città, fra le quali viene più volte ricordata quella di Yavné (alcuni vorrebbero che lì sia esistito ancora, dopo l’anno 70, per un certo periodo di tempo il gran sinedrio). La Mishnà, nel trattato Iadaim III,5,26-30, fa riferimento alle discussioni sulla canonicità del Cantico dei Cantici e del Qoèlet, che portarono alla definitiva accettazione di questi libri, accogliendo la posizione di rabbi ‘Aqivà (ca. 50 d.C. - ca. 135 d.C.).

Gli scribi scelsero gli esemplari da loro ritenuti migliori, fecero eventualmente dei confronti e ne ricavarono un testo definitivo, che si sforzarono di ricopiare con la massima fedeltà. Tutti gli altri esemplari non conformi al testo così fissato andarono perduti (fanno ovviamente eccezione i manoscritti di Qumran).

Il testo biblico venne successivamente suddiviso in versetti e si formò tutta una complessa tradizione (in ebraico massorah) che portò alla fissazione della vocalizzazione del testo consonantico ed alla redazione di una serie di indicazioni (la massorah magna, la massorah parva e la massorah finalis) a commento del testo stesso. I masoreti (coloro che composero la massorah) furono così gli inventori, tra il VI e il X secolo d.C., dei segni per indicare le vocali e gli accenti del testo. Questi segni furono posti sopra o sotto le consonanti, per lasciare intatta appunto la loro grafia consonantica.

Sorse così il testo masoretico (abbreviato generalmente con la sigla TM) che è riprodotto oggi nelle diverse edizioni moderne della Bibbia ebraica.


IL PERIODO DEI SOFERIM

Sono detti soferim (letteralmente contatori) i rabbini e gli scribi che, dal I al VI secolo, si dedicarono a contare il numero di parole e di versetti del testo biblico per vigilare sulla fedeltà dei manoscritti che venivano copiati di generazione in generazione.

Essi hanno iniziato, ad esempio, la tradizione di scrivere a fianco di Lev 8,8 l’espressione “la metà della Torah secondo i versetti”, per indicare il versetto che cade esattamente al centro del Pentateuco.

Sono inoltre a loro attribuite le osservazioni conservate dal testo masoretico su alcune espressioni bibliche di difficile interpretazione, al fine di proporne una lettura conforme alla ortodossia ebraica. I commenti testuali dei soferim tendevano insomma a spiegare, o almeno a segnalare, parole o espressioni che creavano difficoltà. Dove hanno proposto alternative o integrazioni testuali, hanno,però, sempre lasciato intatto il testo consonantico.

In concreto, almeno sei indicazioni più importanti, fra le molte che si ritrovano nel successivo testo masoretico, vengono fatte risalire a loro:

-I nequdoth (“punti straordinari” o puncta extraordinaria): sono 15 passaggi, segnalati con alcuni puntini sopra lettere o parole, per indicare che i soferim avevano dubbi sul testo (es. Is 44,9).
-I nunim haphukah o nunim menuzarot (“nun inversi”): sono 9 passaggi nei quali gli scribi segnalano che i versetti sono probabilmente da invertire (es. Nm 10,34.36).
-I sebirin (dall’aramaico “supporre”; singolare sebir). Sono 350 passi nei quali si segnala che ci si aspetterebbe una parola migliore che è indicata a margine (es. Gen 19,8).
-I qere-ketib (“detto-scritto”). L’espressione indica che il vocabolo è scritto in un modo, ma deve essere letto in un altro (es. Gs 6,7).
-Gli hapax legomena (dal greco, “detti una sola volta”). Con la lettera lamed puntata si segnalano le parole, le espressioni o semplicemente le vocalizzazioni che ricorrono una sola volta. Alcune di esse possono essere di difficile traduzione, poiché non si conosce il significato esatto del termine.
-I tiqquné soferim (“emendazioni degli scribi”). Sono 18 punti in cui gli scribi propongono emendamenti del testo, dovuti, ad esempio, alla volontà di non mancare di rispetto a Dio. In Genesi 18,22 si legge così “Abramo stava ancora dinanzi al Signore”. Prima dell’intervento dei soferim si leggeva “Il Signore stava dinanzi ad Abramo”. Probabilmente il testo veniva percepito come irriverente, poiché è l’ “inferiore” che deve stare dinanzi al “superiore” e non viceversa.

Queste tecniche, usate dagli scribi, mostrano un atteggiamento di grande rispetto del testo consonantico che, anche dove non è compreso, non viene alterato.


I PIÙ ANTICHI MANOSCRITTI MASORETICI

Nel corso dei secoli si affermò nel giudaismo il sistema di vocalizzazione masoretica detto tiberiense. Il nome deriva dalla “scuola” di Tiberiade, la città sull’omonimo lago nella quale venne sviluppato.

Non fu, però, l’unico sistema di vocalizzazione esistente. Infatti, i maestri della Torah che risiedevano a Babilonia elaborarono, a loro volta, un sistema che è detto babilonese ed è noto altresì un terzo tipo di vocalizzazione detto palestinese, perché sviluppato nelle località della Giudea e della costa. La vocalizzazione palestinese è testimoniata in alcuni degli scritti rinvenuti nella gheniza (il magazzino adibito alla conservazione dei manoscritti sacri non più in uso) della sinagoga del Cairo, costruito nell’882 d.C.

La scoperta recente di questi manoscritti, copiati tra il VI ed il IX secolo d.C., ha portato, fra l’altro, alla scoperta dell’originale ebraico del libro Siracide che si riteneva perduto.

I testimoni più antichi della vocalizzazione tiberiense sono, invece, il Codice dei Profeti del Cairo e il Codice di Aleppo.

IL CODICE DEI PROFETI DEL CAIRO

Il Codice dei profeti del Cairo è stato trascritto nell’895-896 d.C.
È attribuito agli scribi della famiglia ben Asher, considerata dai rabbini medioevali come detentrice della migliore tradizione nella trasmissione del testo vocalizzato della Bibbia. In particolare, il Codice del Cairo è stato trascritto, come afferma il suo colophon, da Moses ben Asher, padre dell’ancor più famoso Aaron ben Asher che è lo scrittore del cosiddetto Codice di Aleppo (l’attendibilità del colophon, che tradotto significa compimento ed è l’indicazione del luogo, della data e dell’autore del manoscritto posta generalmente al termine di esso, è discussa dagli studiosi).

Il Codice del Cairo contiene i “profeti anteriori” (quelli che la Bibbia cristiana chiama “libri storici”) ed i “profeti posteriori” (quelli che sono noti nella Bibbia cristiana con la semplice designazione di “libri profetici”), da Giosuè a Zaccaria.


IL CODICE DI ALEPPO

Il Codice di Aleppo è ritenuto il miglior manoscritto esistente della Bibbia ebraica, pur essendo incompleto a motivo della sua travagliata storia. Venne copiato da Shlomo ben Buya’a nel suo testo consonantico e vocalizzato da Aaron ben Asher, figlio di Moses ben Asher, come afferma esplicitamente il suo colophon, che però è stato redatto circa un secolo dopo la scrittura del manoscritto, quando il Codice venne affidato alla comunità caraita di Gerusalemme.

Poiché è noto un manoscritto del Pentateuco copiato da Shlomo ben Buya’a nel 929 (attualmente custodito a San Pietroburgo), la datazione del Codice di Aleppo viene unanimemente fissata dagli studiosi agli anni 925-930 d.C.

Nei secoli il manoscritto giunse infine alla comunità ebraica di Aleppo che lo ha gelosamente custodito, rifiutando anche che esso venisse riprodotto fotograficamente, fino al secondo dopo-guerra. Il 2 dicembre 1947, durante un tumulto anti-ebraico, la sinagoga di Aleppo venne assalita e data alle fiamme. Si pensò, in un primo momento, che il manoscritto fosse andato perduto, perché alcuni degli ebrei fuggiti affermarono di averlo visto in terra, al momento della fuga.

Il Codice era stato, invece, parzialmente messo al sicuro e giunse di nascosto nel 1958 in Israele dalla Siria, attraverso la Turchia, nascosto in una tela all’interno di una vecchia lavatrice, per essere consegnato simbolicamente al presidente di Israele, che lo ricevette a nome dello Stato, e, successivamente, all’Israel Museum.

Il Codice mancava delle prime sette pagine con il commentario masoretico (diqduq ha-massorah), delle centodiciotto pagine comprendenti la Torah fino a Dt 28,17, di tre pagine dei Re (2 Re 14,21-18,13), di tre pagine di Geremia (29,9-31,34), di tre pagine dei Dodici profeti (da Am 8,13 a Mic 5,1, con la perdita dei libri di Abdia e Giona), di quattro pagine al termine dei Dodici profeti (dalla fine di Sofonia fino a Zac 9,17 con la perdita di Aggeo), di due pagine dei Salmi (Sal 15,1-25,1), di trentasei pagine dei Ketuvim (da Ct 3,11 fino alla fine degli Scritti, con la perdita di Qoèlet, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra, Nehemia e Cronache), della pagina contenente il colophon e delle venti pagine finali con annotazioni masoretiche.

Il manoscritto, però, non presentava tracce di bruciature. Alcune pagine sono successivamente ricomparse ad opera di discendenti di ebrei di Aleppo che, probabilmente, nella precipitosa fuga, le avevano strappate al fine di conservarle o, forse, poiché le ritenevano come talismani capaci di salvaguardare coloro che le avessero portate con sé. In particolare è giunta nel 1982 in Israele la pagina contenente 2 Cr 35,7-36,19 e, nel 1988, sono state pubblicate in copia fotografica negli Stati Uniti otto righe di una pagina del capitolo ottavo dell’Esodo, noto come frammento Sabbagh perché in possesso di Sam Sabbagh, anch’egli fuggito da Aleppo. Anche questo frammento è stato poi ceduto all’Israel Museum. Esistono inoltre copie fotografiche, scattate un centinaio di anni fa, della pagina che contiene Gen 27 e del testo dei Dieci comandamenti nella versione del Dt.

Il Codice di Aleppo è considerato il manoscritto più fedele della scuola della famiglia ben Asher, la stessa a cui appartiene il Codice dei Profeti del Cairo. È il manoscritto utilizzato per l’edizione critica The Hebrew University Bible (la pubblicazione è iniziata con Isaia 1-44).

IL CODICE DI LENINGRADO

Il Codice di Leningrado, noto anche con le abbreviazioni di Codice B 19a o Codice L, risale al 1008-1009 d.C., come appare dal colophon del copista al termine del libro. Samuel ben Jacob vi dichiara di aver copiato in quell’anno il manoscritto da un esemplare scritto da Aaron ben Asher, l’autore della massorah del Codice di Aleppo.

È il più antico manoscritto della Bibbia ebraica conservatosi integralmente ed è stato utilizzato nell’edizione critica del TM a partire dalla Biblia Hebraica (3ª edizione) del Kittel (1937) e successivamente nella Biblia Hebraica Stuttgartensia (1966 ed edizioni successive). Pur non essendo scritto direttamente da un membro della famiglia ben Asher, rappresenta, però, l’esemplare meglio conservato di quella tradizione testuale.

È attualmente conservato a San Pietroburgo in Russia, presso la Biblioteca Nazionale Russa (Saltykov-Schedrin) nella quale è custodito dalla metà dell’ottocento. Deve il suo nome al fatto che, al momento della pubblicazione, la città di San Pietroburgo era stata ribattezzata dal regime comunista con il nome di Leningrado.

Il testo della pagina di Es 15,14b-16,3, poiché contiene il Canto del Mare, l’inno degli Israeliti dopo l’attraversamento del Mar Rosso, ha la caratteristica di avere le note masoretiche alla sommità della pagina disposte in modo da formare delle onde.