Sacrosanctum Concilium e gli altri documenti conciliari: i nodi fondamentali dell’esperienza liturgica oggi nella suggestiva lettura proposta da Andrea Grillo
Sacrosanctum Concilium e gli altri documenti conciliari: i nodi fondamentali dell’esperienza liturgica oggi nella suggestiva lettura proposta da Andrea Grillo
Mettiamo a disposizione una breve presentazione da noi curata dell’articolo di Andrea Grillo, I nodi fondamentali dell’esperienza liturgica oggi, in “Come ad amici”: incontrare il Dio Vivente nell’ascolto della Parola e nel mistero celebrato. Scritti dedicati al cardinale Carlo Maria Martini per il suo ottantesimo compleanno, a cura di M. Maccarinelli, Il Poligrafo, Abbazia di Praglia, 2007. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2008)
In questo breve ed intenso articolo il liturgista Andrea Grillo rilegge le grandi questioni della liturgia cristiana. Con un’espressione fulminante descrive le false contrapposizioni che inopportunamente emergono sotto i riflettori della cronaca:
«Gli uni rimpiangono Trento, gli altri Ambrogio; gli uni vogliono che non si capisca niente perché ci sia mistero, gli altri che si capisca tutto perché non ci sia più mistero» (p. 51).
Grillo propone, invece, quattro nodi decisivi perché l’esperienza liturgica sia se stessa. Il primo riguarda il rapporto della liturgia con le altre dimensioni teologali ed ecclesiali:
«La formazione liturgica è certo una formazione che la Chiesa deve dare sulla liturgia, ma è innanzitutto la formazione che la liturgia sa dare alla Chiesa» (p. 47).
L'autore continua poi proponendo una riscoperta del nesso che unisce le quattro costituzioni del Concilio Vaticano II:
«La logica di Gaudium et Spes non è semplicemente la logica di Sacrosanctum Concilium, ha bisogno di lasciarsi integrare da Sacrosanctum Concilium, da Lumen Gentium e da Dei Verbum: in fondo un errore è stato quello di aver appiattito il Concilio su una delle quattro grandi costituzioni. Se siamo liturgisti leggiamo tutto come se fosse detto nell’ambito liturgico, mentre i quattro ambiti sono quattro dimensioni della vita ecclesiale che hanno le loro regole particolari, per cui il rapporto con il mondo che Gaudium et Spes riscopre e illumina, non smentisce il fatto che per quel rapporto con il mondo occorra una forma di vita particolare come quella celebrativa. Oggi forse capiamo che, dopo quarant’anni di tentazione e di grande esperienza di liberazione, siamo tentati di tornare indietro o di fuggire verso il futuro, mentre “stare qui” vuol dire stare in mezzo a un guado in cui ritrovare le connessioni tra queste quattro prospettive, diverse, ma non alternative» (p. 47).
Verrebbe da aggiungere che le quattro costituzioni ripropongono tre delle quattro colonne del catecumenato antico, su cui si struttura anche il Catechismo della Chiesa Cattolica. In esso, infatti, la I parte affronta la questione della fede (da porre in relazione con la Dei Verbum), la II parte quella della liturgia (vedi Sacrosanctum Concilium), la III quella della vita in Cristo (qui il riferimento va ovviamente alla Gaudium et spes) e solo la IV parte, quella che riguarda la vita interiore e la preghiera personale, non ha una costituzione dogmatica conciliare di riferimento. Poiché è possibile vivere queste quattro dimensioni solo nella Chiesa, si potrebbe dire che il tema della identità della comunione ecclesiale conferisce l’orizzonte delle quattro specifiche parti (ed il Concilio ha sentito l’esigenza, attraverso la Lumen gentium, di soffermarsi lungamente sulla Chiesa).
Tornando al testo di Andrea Grillo, il liturgista propone come secondo nodo quello della comprensione di cosa si debba effettivamente intendere per partecipazione e soggettività nell’agire liturgica:
«Ecco allora il secondo nodo, che risulta molto importante perché ha a che fare con il termine “esperienza”: il soggetto liturgico e la partecipazione attiva di questo soggetto, non sono anzitutto il controllo che il soggetto ecclesiale acquisisce della celebrazione a tutti i livelli – se è presidente, se è ministro, se è semplice battezzato che celebra anche lui -; la partecipazione attiva non consiste nel fatto che ognuno controlla bene quello che fa, ma piuttosto nella ipotesi che tutti insieme riescano a perdere il controllo. La partecipazione attiva è questo entrare nel mistero come qualcosa che rinnova, trasforma il proprio controllo dell’esistenza. La partecipazione attiva dovrebbe tendere alla perdita del controllo, all’affidamento, a quella che Louis-Marie Chauvet chiama demaitrise (“perdita di controllo”): la mediazione liturgica serve a perdere il controllo sulla rivelazione, sulla propria fede, per lasciarsela di nuovo donare, in modo sorprendente. In liturgia, alla luce della riforma, dobbiamo prendere le iniziative – anche fare convegni, insegnare in seminario, fare formazione, lasciarsi formare – per perdere l’iniziativa. È essenziale un “prendere” l’iniziativa di perdere l’iniziativa” (Jean-Luc Marion)» (p. 47-48).
In terzo luogo, l’esperienza liturgica non può che essere compresa alla luce della grazia che schiude la prospettiva del dono che solo la fede è capace di riconoscere come tale:
«Dobbiamo ricordare che l’agire liturgico non è semplicemente coordinabile con i “doveri” dell’uomo. Come l’antico comandamento della festa, il precetto è un comandamento perché si esca dalla logica dei comandamenti, cioè dalla logica dei doveri e dei lavori. La liturgia, con tutte le sue doverose rubriche, ci libera dal primato del dovere e ci mostra e ci fa vivere secondo il primato dell’indicativo del dono rispetto all’imperativo del compito. Per questo gli scivolamenti di carattere pedagogico, morale, moralistico, che spesso possiamo trovare in un’omelia, sono l’indizio principale che si è perso questo primato. Ciò è gravissimo perché impedisce di fare l’esperienza liturgica. Sono un preterintenzionale contraddittorio rispetto all’intenzione di fare davvero bene la celebrazione, nella quale non abbandono un rapporto produttivo con il tempo, con le mansioni, con le cose da fare, con le rubriche da rispettare e con tutti i doveri che incombono su di me. Tutti quei “doveri” ci sono perché il dovere non sia più la prima parola. Questa forse è una delle sfide più radicali della riforma liturgica nel contesto moderno e post-moderno, anche perché la stessa Chiesa sembra sentirsi chiusa nell’alternativa: assecondo queste infinite richieste di diritti del mondo di oggi o contrappongono qualche buon dovere per far la gloria di Dio? Se questa è la logica, è una logica in cui la liturgia non ci sta più. Se la liturgia ha ancora un senso è perché è possibile osservare questa logica anche da un altro (più alto) punto di vista, dal quale si vedono sia i diritti che i doveri alla luce dei doni» (p. 48).
È questo che schiude il passaggio alla quarta sottolineatura, quella della non riducibilità della liturgia alla dimensione etica o politica:
«Il quarto e ultimo nodo riguarda la modalità necessaria per evitare queste derive etico-politiche della liturgia, ossia ciò che tende a confondere l’agire rituale con l’agire morale e politico e che riesce a cogliere il rito al massimo come mezzo o come punto d’arrivo.
Dunque, solo alla fine celebriamo, ma mai come punto di partenza! Perché se il rito è un punto di partenza, dovremmo ammettere che è strumentalmente capace di relativizzare l’agire morale e politico: c’è poco da fare! E siccome abbiamo paura di relativizzare l’etica, che ci sembra l’ultima spiaggia, anche e soprattutto per la Chiesa, allora non possiamo più celebrare davvero. Mentre “relativizzare l’etica” non significa affatto finire nel dominio del politico, nel consenso della maggioranza che avrà sempre vinta, ma consiste nel provare l’esperienza di dono che apre su una dialettica di diritti e di doveri, serenamente e luminosamente. Per questo è paradossale che a volte si parli dei sacramenti soprattutto in termini di diritti: “Io ho diritto di fare la comunione anche come divorziato e risposato, e mio figlio ha diritto ad essere battezzato”. Entrare nei sacramenti con la logica dei diritti è la strada peggiore, si può sempre recuperare, ma se c’è una cosa chiara è che nessuno ha diritto ad alcun sacramento, nei termini di “diritto” in senso stretto. Poi il diritto canonico parlerà anche di questo, ma lo fa già nell’ottica della fede. La logica del diritto – dovremmo ricordarcelo – uccide e sopprime ogni possibile esperienza liturgica. L’esperienza liturgica troverà anche il modo di parlarne, ma per la soglia; l’esperienza del sacramento è un esperienza radicale di dono e questo è possibile solo recuperando l’agire simbolico-rituale della liturgia come vera e seria fonte» (pp. 49-50).
In un altro passaggio folgorante del testo, che può essere preso a sigla della sua proposta di lettura dell’attuale situazione, Andrea Grillo scrive:
«Inizio zampillante, lampo inarrivabile e sorprendente, piuttosto che strumento o punto d’arrivo, inevitabilmente frettoloso e affrettato: questo deve essere il rito cristiano» (p. 50).
Mettiamo a disposizione una breve presentazione da noi curata dell’articolo di Andrea Grillo, I nodi fondamentali dell’esperienza liturgica oggi, in “Come ad amici”: incontrare il Dio Vivente nell’ascolto della Parola e nel mistero celebrato. Scritti dedicati al cardinale Carlo Maria Martini per il suo ottantesimo compleanno, a cura di M. Maccarinelli, Il Poligrafo, Abbazia di Praglia, 2007. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2008)
In questo breve ed intenso articolo il liturgista Andrea Grillo rilegge le grandi questioni della liturgia cristiana. Con un’espressione fulminante descrive le false contrapposizioni che inopportunamente emergono sotto i riflettori della cronaca:
«Gli uni rimpiangono Trento, gli altri Ambrogio; gli uni vogliono che non si capisca niente perché ci sia mistero, gli altri che si capisca tutto perché non ci sia più mistero» (p. 51).
Grillo propone, invece, quattro nodi decisivi perché l’esperienza liturgica sia se stessa. Il primo riguarda il rapporto della liturgia con le altre dimensioni teologali ed ecclesiali:
«La formazione liturgica è certo una formazione che la Chiesa deve dare sulla liturgia, ma è innanzitutto la formazione che la liturgia sa dare alla Chiesa» (p. 47).
L'autore continua poi proponendo una riscoperta del nesso che unisce le quattro costituzioni del Concilio Vaticano II:
«La logica di Gaudium et Spes non è semplicemente la logica di Sacrosanctum Concilium, ha bisogno di lasciarsi integrare da Sacrosanctum Concilium, da Lumen Gentium e da Dei Verbum: in fondo un errore è stato quello di aver appiattito il Concilio su una delle quattro grandi costituzioni. Se siamo liturgisti leggiamo tutto come se fosse detto nell’ambito liturgico, mentre i quattro ambiti sono quattro dimensioni della vita ecclesiale che hanno le loro regole particolari, per cui il rapporto con il mondo che Gaudium et Spes riscopre e illumina, non smentisce il fatto che per quel rapporto con il mondo occorra una forma di vita particolare come quella celebrativa. Oggi forse capiamo che, dopo quarant’anni di tentazione e di grande esperienza di liberazione, siamo tentati di tornare indietro o di fuggire verso il futuro, mentre “stare qui” vuol dire stare in mezzo a un guado in cui ritrovare le connessioni tra queste quattro prospettive, diverse, ma non alternative» (p. 47).
Verrebbe da aggiungere che le quattro costituzioni ripropongono tre delle quattro colonne del catecumenato antico, su cui si struttura anche il Catechismo della Chiesa Cattolica. In esso, infatti, la I parte affronta la questione della fede (da porre in relazione con la Dei Verbum), la II parte quella della liturgia (vedi Sacrosanctum Concilium), la III quella della vita in Cristo (qui il riferimento va ovviamente alla Gaudium et spes) e solo la IV parte, quella che riguarda la vita interiore e la preghiera personale, non ha una costituzione dogmatica conciliare di riferimento. Poiché è possibile vivere queste quattro dimensioni solo nella Chiesa, si potrebbe dire che il tema della identità della comunione ecclesiale conferisce l’orizzonte delle quattro specifiche parti (ed il Concilio ha sentito l’esigenza, attraverso la Lumen gentium, di soffermarsi lungamente sulla Chiesa).
Tornando al testo di Andrea Grillo, il liturgista propone come secondo nodo quello della comprensione di cosa si debba effettivamente intendere per partecipazione e soggettività nell’agire liturgica:
«Ecco allora il secondo nodo, che risulta molto importante perché ha a che fare con il termine “esperienza”: il soggetto liturgico e la partecipazione attiva di questo soggetto, non sono anzitutto il controllo che il soggetto ecclesiale acquisisce della celebrazione a tutti i livelli – se è presidente, se è ministro, se è semplice battezzato che celebra anche lui -; la partecipazione attiva non consiste nel fatto che ognuno controlla bene quello che fa, ma piuttosto nella ipotesi che tutti insieme riescano a perdere il controllo. La partecipazione attiva è questo entrare nel mistero come qualcosa che rinnova, trasforma il proprio controllo dell’esistenza. La partecipazione attiva dovrebbe tendere alla perdita del controllo, all’affidamento, a quella che Louis-Marie Chauvet chiama demaitrise (“perdita di controllo”): la mediazione liturgica serve a perdere il controllo sulla rivelazione, sulla propria fede, per lasciarsela di nuovo donare, in modo sorprendente. In liturgia, alla luce della riforma, dobbiamo prendere le iniziative – anche fare convegni, insegnare in seminario, fare formazione, lasciarsi formare – per perdere l’iniziativa. È essenziale un “prendere” l’iniziativa di perdere l’iniziativa” (Jean-Luc Marion)» (p. 47-48).
In terzo luogo, l’esperienza liturgica non può che essere compresa alla luce della grazia che schiude la prospettiva del dono che solo la fede è capace di riconoscere come tale:
«Dobbiamo ricordare che l’agire liturgico non è semplicemente coordinabile con i “doveri” dell’uomo. Come l’antico comandamento della festa, il precetto è un comandamento perché si esca dalla logica dei comandamenti, cioè dalla logica dei doveri e dei lavori. La liturgia, con tutte le sue doverose rubriche, ci libera dal primato del dovere e ci mostra e ci fa vivere secondo il primato dell’indicativo del dono rispetto all’imperativo del compito. Per questo gli scivolamenti di carattere pedagogico, morale, moralistico, che spesso possiamo trovare in un’omelia, sono l’indizio principale che si è perso questo primato. Ciò è gravissimo perché impedisce di fare l’esperienza liturgica. Sono un preterintenzionale contraddittorio rispetto all’intenzione di fare davvero bene la celebrazione, nella quale non abbandono un rapporto produttivo con il tempo, con le mansioni, con le cose da fare, con le rubriche da rispettare e con tutti i doveri che incombono su di me. Tutti quei “doveri” ci sono perché il dovere non sia più la prima parola. Questa forse è una delle sfide più radicali della riforma liturgica nel contesto moderno e post-moderno, anche perché la stessa Chiesa sembra sentirsi chiusa nell’alternativa: assecondo queste infinite richieste di diritti del mondo di oggi o contrappongono qualche buon dovere per far la gloria di Dio? Se questa è la logica, è una logica in cui la liturgia non ci sta più. Se la liturgia ha ancora un senso è perché è possibile osservare questa logica anche da un altro (più alto) punto di vista, dal quale si vedono sia i diritti che i doveri alla luce dei doni» (p. 48).
È questo che schiude il passaggio alla quarta sottolineatura, quella della non riducibilità della liturgia alla dimensione etica o politica:
«Il quarto e ultimo nodo riguarda la modalità necessaria per evitare queste derive etico-politiche della liturgia, ossia ciò che tende a confondere l’agire rituale con l’agire morale e politico e che riesce a cogliere il rito al massimo come mezzo o come punto d’arrivo.
Dunque, solo alla fine celebriamo, ma mai come punto di partenza! Perché se il rito è un punto di partenza, dovremmo ammettere che è strumentalmente capace di relativizzare l’agire morale e politico: c’è poco da fare! E siccome abbiamo paura di relativizzare l’etica, che ci sembra l’ultima spiaggia, anche e soprattutto per la Chiesa, allora non possiamo più celebrare davvero. Mentre “relativizzare l’etica” non significa affatto finire nel dominio del politico, nel consenso della maggioranza che avrà sempre vinta, ma consiste nel provare l’esperienza di dono che apre su una dialettica di diritti e di doveri, serenamente e luminosamente. Per questo è paradossale che a volte si parli dei sacramenti soprattutto in termini di diritti: “Io ho diritto di fare la comunione anche come divorziato e risposato, e mio figlio ha diritto ad essere battezzato”. Entrare nei sacramenti con la logica dei diritti è la strada peggiore, si può sempre recuperare, ma se c’è una cosa chiara è che nessuno ha diritto ad alcun sacramento, nei termini di “diritto” in senso stretto. Poi il diritto canonico parlerà anche di questo, ma lo fa già nell’ottica della fede. La logica del diritto – dovremmo ricordarcelo – uccide e sopprime ogni possibile esperienza liturgica. L’esperienza liturgica troverà anche il modo di parlarne, ma per la soglia; l’esperienza del sacramento è un esperienza radicale di dono e questo è possibile solo recuperando l’agire simbolico-rituale della liturgia come vera e seria fonte» (pp. 49-50).
In un altro passaggio folgorante del testo, che può essere preso a sigla della sua proposta di lettura dell’attuale situazione, Andrea Grillo scrive:
«Inizio zampillante, lampo inarrivabile e sorprendente, piuttosto che strumento o punto d’arrivo, inevitabilmente frettoloso e affrettato: questo deve essere il rito cristiano» (p. 50).