Il redentore fin dalla matrice e un’adunanza senza difetti. L’eresia di Francesco Pucci (1543 – 1597) [avversata da cattolici e protestanti], di Gabriele Vecchione
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Il Centro culturale Gli scritti (3/11/2013)
Il fiorentino Francesco Pucci fu studioso umanista marcatamente neo-platonico, savonaroliano convinto, per qualche tempo (dopo esser stato testimone oculare della strage di san Bartolomeo) protestante per solidarietà, nicodemita, profeta inquieto, teologo largiorista, cattolico di ritorno, continuo cercatore di spazi di libero dibattito teologico, eretico relapso, “esule senza chiesa”[1], sostenitore di Enrico IV e conseguentemente esplicito avversario di Gregorio XIV, speranzoso di guadagnare Clemente VIII (e non solo) alla sua causa; la complessità della sua dottrina e la rete di amicizie (ma soprattutto di radicali ostilità) trans-nazionali difficilmente permettono che sia incasellato in qualche schema storiografico o in qualcuna delle categorie ereticali cinquecentesche.
Nell’opera per cui più di tutte si batté per la diffusione e che pure ebbe una capillare diffusione europea, De Christi servatoris efficacitate (1592), compendio della sua teologia, sostenne che “mediante il beneficio e la grazia universale del sommo Padre tutti gli uomini e ciascuno sono salvati per mezzo del Cristo”[2], giacché la sua resurrezione è già “contenuta in modo latente nei lombi di Adamo”[3]. Cristo, “in una vertiginosa dilatazione spiritualista della sua persona”[4], non è altro che “la stessa ragione che illumina ogni uomo che viene in questo mondo”[5], di cui tutti partecipano sufficientemente ed efficacemente, come anche aveva scritto nell’Informatione della religione christiana (1579), opera che aveva suscitato i furori dell’Inquisizione e che Pucci avrebbe rinnegato quando, a Praga, nel 1585, sarebbe tornato nella Chiesa cattolica: “Tutti hanno il Messia redentore fin dalla matrice”[6], dal momento, cioè, in cui “semo forniti d’anima”[7], in ipso matris utero. Ci si può dannare non per l’inosservanza dei precetti o la mancata partecipazione ai sacramenti, ma per “ostinazione e perversità”[8] contro la ragione. Si può ben dire che Pucci “propose la soluzione più radicale del problema della salvezza tra quante ne furono formulate durante i dibattiti teologici del Cinquecento”[9] in quanto sostenne, “con tutte le sue forze, in ogni occasione, lungo tutta la sua vita avventurosa e fino alla morte sul patibolo”[10], che “la ratio naturalis fa tutt’uno con la rivelazione divina nel cuore dell’uomo, e con la religio naturalis, al di là del principio scritturalistico”[11].
Il secondo fondamentale assunto della teologia pucciana è l’avviso profetico che di lì a qualche mese o anno, cioè “tra non molto”[12], o meglio, come scrisse in una lettera del 1584 al fratello, in “questi anni prossimi fino al ‘90”[13], il Padre sarebbe venuto col suo Cristo e col bianco concistoro e avrebbe svelato e debellato l’Anticristo e i nemici della verità. Satana sarebbe stato incatenato, i cristiani defunti sarebbero risorti, ci sarebbe stato un regno di pace e di concordia dove sarebbero accorsi tutti i popoli “per formare un’adunanza senza difetti”[14]. Al termine del regno millenario ci sarebbe stato il giudizio universale ed i beati avrebbero concorso “alla bellezza et allo ornamento di questo gran palazzo dell’universo”[15]. Al tema millenaristico, già presente frammentariamente in tutti gli scritti pucciani, sono dedicate almeno due intere opere: De regno Christi (scritta tra il 1589 ed il 1590) e Del regno di Christo (1586 – 1591), poema biblico, dove all’argomento millenaristico s’affianca il generoso tentativo di “facilitare la conversione di molti Giudei”[16]. Versificando - talvolta con fedele corrispondenza al testo, talvolta sintetizzando ampiamente, talvolta omettendo delle parti - il Pentateuco ebraico (più il libro di Giobbe), disseminando qua e là il voluminoso poema di sue proprie opinioni teologiche, presentando i patriarchi come fondatori della Chiesa, Pucci sperò nell’adesione degli ebrei ad un “cristianesimo razionalizzante e ottimista”[17].
Pucci fu dunque uno di quegli “esponenti di un cristianesimo radicale… visto come un pericolo per il potere politico e religioso costituito”[18]. È stato scritto, a ragione, che “il suo latitudinarismo presupponeva la negazione della legittimità delle strutture istituzionali delle chiese”[19]. Una dottrina simile non poteva trovare spazio “nel processo di modernizzazione e di confessionalizzazione”[20] che si stava definendo in quegli anni e lo rese inviso a tutte le Chiese costituite: a causa della negazione del valore delle opere, dello svuotamento soteriologico dei sacramenti, della predicazione millenaristica condannata al Concilio Lateranense V, fu “un temibile eretico agli occhi della Chiesa cattolica”; per il totale sovvertimento del concetto di predestinazione, fu “un terribile nemico delle Chiese riformate”[21]. Dopo aver studiato, dibattuto e pubblicato a Lione, Parigi, Oxford (dove – a seguito di dispute con la Chiesa riformata francese – il 15 marzo 1575 fu sospeso dai sacramenti), Basilea, Londra, Anversa, Cracovia, Praga, Norimberga, fu catturato dall’Inquisizione a Salisburgo. Il 27 maggio 1594 entrò nelle carceri del Sant’Uffizio, il 14 luglio fu emesso il procedatur ad ulteriora in causa, segno che la fase istruttoria del processo fosse già ben avanzata, il 27 maggio ’96 fu confermato tra gli autori di I classe nell’Indice dei libri proibiti, il 31 dicembre fu ufficialmente dichiarato eretico formale, ostinato ed impenitente, il 23 marzo ‘97 iniziò un digiuno di protesta interrotto forzatamente il 28 marzo, il 7 maggio fu formalizzata la sua condanna a morte, il 18, a Santa Maria sopra Minerva, davanti ad una numerosa folla di popolo e di ecclesiastici, rifiutò l’abiura (che d’altro canto non gli avrebbe salvato la vita, ma risparmiato soltanto d’essere arso vivo) che invece di lì a qualche giorno pronunciò. Il 5 luglio fu così decapitato nel carcere di Tor di Nona e le sue spoglie furono poi bruciate a Campo de’ Fiori.
Se ancora qualche decennio addietro di lui “si poteva parlare come di un oscuro e bizzarro Carneade, poco meno che un ignoto anche nella cerchia degli specialisti”[22], oggi si sottolinea “il concreto impatto storico che il pensiero religioso di Francesco Pucci ebbe nella cultura del suo tempo” e la sua “sotterranea vitalità”[23] negli anni a seguire. Probabilmente conobbe Giordano Bruno ed influenzò l’opera di Tommaso Campanella, con cui condivise qualche mese di prigionia; fu ripetutamente citato nella polemica antipredestinazionista tra i secoli XVI e XVII e nella tradizione sociniana; fu ritenuto un deista; nel secolo XVIII fu inserito nella battaglia contro il naturalismo come uno dei suoi sostenitori. Nel ‘900 insigni studiosi come Delio Cantimori, Giorgio Radetti e Luigi Firpo hanno dato alla luce suoi fondamentali ritrovamenti.
Note al testo
[1] Mario Biagioni, Prospettive di ricerca su Francesco Pucci, in Rivista storica italiana, 1995, p. 133.
[2] Francesco Pucci, L’efficacia salvifica del Cristo, a cura di Giannandrea Isozio, Edizioni del Cerro, Pisa, 1991, p. 6.
[3] Ibidem, p. 9.
[4] Mario Biagioni, Francesco Pucci e l’Informatione della religione christiana, Claudiana, Torino, 2011, p. 50.
[5] Ibidem, p. 22.
[6] Ibidem, p. 103.
[7] Francesco Pucci, Lettere, documenti e testimonianze, vol. I, a cura di Luigi Firpo e Renato Piattoli, Olschki editore, Firenze, 1955, p. 26. Si tratta dell’importante lettera che il Pucci scrisse a Niccolò Balbani nell’autunno 1578 da Basilea.
[8] Ibidem, p. 21.
[9] Mario Biagioni, Francesco Pucci, in Fratelli d’Italia. Riformatori italiani nel Cinquecento, a cura di Mario Biagioni, Matteo Dumi, Lucia Felici, Claudiana, Torino, 2012, p. 103.
[10] Luigi Firpo, Scritti sulla Riforma in Italia, Prismi, Napoli, 1996, p. 219.
[11] Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Einaudi, Torino, 1992, p. 369.
[12] F. Pucci, L’efficacia salvifica di Cristo, cit., p. 72.
[13] F. Pucci, Lettere, I, cit., p. 64.
[14] M. Biagioni, Francesco Pucci e l’Informatione della religione christiana, cit., p. 66.
[15] Ibidem,p. 128.
[16] L. Firpo, Gli scritti di Francesco Pucci, cit., p. 158. Pucci scrisse di questo suo tentativo in una lettera del gennaio 1593 da Salisburgo destinata a Giovanni de’ Bardi, “considerato in Roma il più intimo e domestico confidente del Papa” (ibidem).
[17] Luigi Firpo, Scritti sulla Riforma in Italia, cit., p. 228.
[18] Paolo Prodi, La storia moderna, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 67.
[19] M. Biagioni, Prospettive di ricerca su Francesco Pucci, cit., p. 134.
[20] P. Prodi, La storia moderna, cit., p. 67.
[21] Giorgio Caravale, Né Roma né Ginevra. Francesco Pucci nell’Europa del Cinquecento, in Francesco Pucci. Un eretico figlinese nell’Europa del Cinquecento, Edizioni Feeria, Figline Valdarno, 2010, p. 13.
[22] F. Pucci, Lettere, I, cit., p. 5.
[23] M. Biagioni, Francesco Pucci e la sua eredità: temi pucciani in età moderna, in Francesco Pucci. Un eretico figlinese nell’Europa del Cinquecento, cit., p. 45.