«Io sto con Davide». Un’intervista a Giacomo Poretti di Gerolamo Fazzini e Stefano Femminis
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Riprendiamo da Avvenire del 17/9/2013 un’intervista a Giacomo Poretti di Gerolamo Fazzini e Stefano Femminis. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (27/10/2013)
L’intervista a Giacomo Poretti qui pubblicata è tratta dal nuovo numero del settimanale «Credere», in edicola da giovedì....
«Il prossimo film di Aldo, Giovanni e Giacomo? Stiamo lavorando attorno a un’idea, l’uscita è prevista per Natale 2014. Ma non siamo qui per parlare di questo, vero?». No, infatti. Giacomo Poretti, «il 33% del trio» (come lui si definisce) deve raccontare la sua vita e la sua fede.
Il tuo cammino è iniziato in parrocchia. Che cosa è stato per te l’oratorio da bambino e come lo vedi oggi, da papà?
«Sarà perché inizio a essere un po’ nostalgico, ma per me l’oratorio è stato davvero importante. Era il luogo del tempo libero, del gioco, del primo incontro con la fede e con il sacerdote, nel mio caso il mitico don Giancarlo. Rivisto adesso con gli occhi di un padre, è ancora più importante: proprio qualche giorno fa, insieme con altri genitori io e mia moglie ci siamo interrogati su quale oratorio nella nostra zona potesse accogliere nostro figlio. Ma il suo ruolo è minacciato perché noi genitori abbiamo la fissazione dell’eccellenza. Corsi di inglese, di judo, di pianoforte...: mettiamo addosso ai figli un’ansia da prestazione pazzesca. Ai miei tempi i genitori ti "dimenticavano" all’oratorio ed erano tranquilli».
Perché, allora, a un certo punto sei «fuggito»?
«Nell’adolescenza c’è una necessità psicologica di staccarsi dalla famiglia e dal mondo nel quale hai vissuto: ti dà tutto fastidio, hai bisogno di novità. Nel mio caso, poi, ho anche lasciato il paese in cui sono nato per la grande città, Milano. L’attività politica mi ha portato distante non solo dall’oratorio, ma anche dalla Chiesa. Mi ero convinto che la Chiesa non potesse dare risposte alle mie inquietudini e che la religione fosse un ferrovecchio».
Chi ti ha fatto cambiare idea?
«Un sacerdote. È andata così: quando abbiamo fatto il film "Chiedimi se sono felice", il cineforum dei gesuiti del San Fedele, a Milano, ci ha invitati a commentarlo. Io e i miei "soci" all’inizio ci abbiamo riso sopra – "cose da preti" – ma la persona che si occupava dell’ufficio stampa, atea convinta, ci ha detto: "Guardate che sono persone interessanti". Allora, incuriositi, siamo andati: il regista, io e mia moglie, che aveva una parte nel film. E lì abbiamo conosciuto il conduttore del cineforum, padre Eugenio Bruno. Diceva cose profonde, che mi colpivano, ma in un modo strano, come se ti stesse prendendo in giro. Qualche giorno dopo lo abbiamo invitato a cena, insieme ad altri amici con i quali da un po’ ci capitava di porci domande sul senso della vita e su Dio. Nella mia ingenuità ho pensato: l’unico che può darci una risposta definitiva su Dio è un prete. Questo poi ha una certa età ed esperienza...».
E padre Bruno ha corrisposto alle attese?
«A un certo punto della cena è venuta fuori la domanda: "Come possiamo sapere se Dio esiste davvero?". Lui ci ha guardato e ha detto: "Io mi sono fatto prete a vent’anni perché ho capito che Dio è amore". E si è rimesso a mangiare. Lo so, è una frase che può sembrare vuota, retorica, ma per noi è scoccata la scintilla. Da quel momento io e Daniela e un’altra coppia abbiamo iniziato un percorso di fede con lui e con un altro gesuita, fatto di preghiera e di conoscenza della Bibbia».
Nella Bibbia c’è qualche brano o personaggio che ti colpisce particolarmente?
«Sicuramente il Padre nostro, perché – come ci spiegava padre Bruno – c’è dentro tutto: la libertà, la misericordia... E poi mi ha sempre impressionato la storia di Davide e Betsabea, di una modernità incredibile. Parla dello sguardo: da come si orienta il tuo sguardo dipende il destino della tua vita. Adesso però mi fermo perché non vorrei fare danni teologici».
Ok, niente teologia. Stiamo sulla tua professione, allora: da attore come riassumeresti in una battuta quello che ti ha convinto a tornare a credere?
«Il fatto che Dio dà senso alle cose. Dentro l’orizzonte della fede c’è un senso per la vita. Poi, certo, resta la fatica di declinare questa scelta nel comportamento di tutti i giorni, con i dubbi e le paure che tutti noi abbiamo».
Ma Dio tu come lo vedi? Come un poeta, un comico, un centravanti dell’Inter...
«Secondo me lui è un grande artista. Se penso anche solo alla bellezza delle cose che ha fatto, non può che essere un artista. E il fatto che abbia sentito il desiderio di creare l’uomo, per mettersi in relazione con lui, è un mistero affascinante».
Cosa chiedi a Dio per tuo figlio?
«La salute, ovvio. Ma poi che trovi un bel gruppo di amici, perché è importante che a scuola e in oratorio faccia parte di un gruppo: in qualche modo, questo ti salva. Anche la scuola elementare, cattolica, l’abbiamo scelta con attenzione, per la stessa ragione».
Ti capita di parlare di fede con Aldo e Giovanni?
«Anche voi non riuscite a sottrarvi alla domanda: "Se tu credi, perché gli altri due no?". Rispondo che la fede è una fortuna, un regalo, ma uno ci deve mettere del suo. E questo è lasciato alla libertà personale. Recentemente sono stato invitato a una specie di festival in cui il tema è "Resistere a..." e ognuno lo può declinare come preferisce. A me è venuto spontaneo proporre un intervento su "Resistere alla tentazione di fare senza Dio". Questo per dire che ci sono domande di fondo che alla fine si fanno tutti, anche i miei "soci", poi ognuno trova il proprio approccio spirituale. Per esempio: Giovanni da alcuni anni è impazzito per la corsa, fa delle cose, tipo correre per 100 chilometri nel deserto, che sembrano quasi un’ascesi spirituale».
Troppo spesso i credenti sono tristi e un po’ musoni. Perché, secondo te?
«Penso sia l’effetto di un insegnamento della fede spesso ancora intriso di moralismo, in cui la religione si identifica con un elenco di divieti, con una mancanza di libertà. Invece, esiste – eccome! –una gioia della fede e credo sia soprattutto la gioia della relazione, con lui e tra noi. Dio, secondo me, va più d’accordo con chi si relaziona con Lui, anche se magari si arrabbia, come Giobbe. Bisogna avere il coraggio di fare delle domande a Dio, se no si vive tutto con paura».
Papa Francesco insiste molto su questo, invitandoci a vedere Dio come padre misericordioso. E lo fa con frasi e immagini che lasciano il segno.
«Sì, ma il punto è che molti non si sono accorti che quelle che sembrano "frasi da cioccolatino" sono le più tremende! L’invito a essere buoni pare banale, ma proviamo a viverlo nel concreto! Mi pare, insomma, che si debba ancora capire davvero chi è questo Papa. Io, poi, da lui mi aspetto anche, come papà, che mi aiuti ad orientarmi nel mondo di oggi. Quando sento che in Francia non ci sarà più la festa del papà o della mamma, ma del "genitore uno" o del "genitore due", sono curioso di sapere cosa ne pensa il Papa».