Il corpo intramondano. Le mummie senza nome del Dottor Morte: quando il sonno della ragione si fa chiamare “scienza” e “arte”, di Giovanni Marcotullio [Una riflessione critica su Body arts di von Hagens]
In occasione – e come contestazione – della nuova presentazione a Bologna della mostra Body arts, riproponiamo sul nostro sito un articolo scritto da Giovanni Marcotullio per il sito La porzione il 30 novembre2011, inoccasione dell’esposizione della mostra a Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2013)
Sebbene il presumere di potersi pronunciare su qualcosa che non si conosce direttamente sia un principio inaccettabile, pare che si diano casi in cui ciò non solo è accettabile, ma risulta persino doveroso. A voler essere più precisi, tuttavia, si può aggiungere che già la previa dichiarazione della limitatezza delle fonti può dare – mentre la limita – legittimità a un discorso. A voler dirla tutta, infine, si dovrebbe aggiungere che quando si parla dei principî dell’agire morale e dell’etica non si è affatto tenuti ad aver sperimentato tutte le possibilità del libero arbitrio.
Per quest’unica ragione è legittimo che uno voglia pronunciarsi sulla mostra “Body Worlds”, recentemente allestita a Roma, pur senza averla visitata, ed è per lui un dovere etico dichiarare che, pur parlandone, non l’ha visitata.
Il problema è che “Ma come fa?” è quasi l’unica domanda che i passanti si fanno davanti ai manifesti pubblicitarî della mostra, allestita dalla metà di settembre (a chi conosce il calendario liturgico il 14 sembrerà un presagio) nelle Officine Farneto. La risposta è piuttosto semplice, specie per i non addetti ai lavori, i quali devono necessariamente accontentarsi di non scendere in tecnicismi: mediante un processo chiamato “plastinazione”, tutti i tessuti di un corpo animale possono essere resi asciutti e inodori, rigidi ma non immobili. Si tratta in sostanza della sostituzione di polimeri di silicone a tutti i liquidi corporei (il peso finale del corpo è infatti grossomodo identico a quello iniziale): il corpo viene spogliato della naturale guaina cutanea e i tessuti sottostanti (muscoli, nervi, ossa, organi) vengono lasciati in vista.
Nell’allestimento della mostra sono compresi i corpi integrali, i corpi semismembrati, i singoli organi, perlopiù seguendo un’idea direttrice – nel caso dell’allestimento romano quest’idea è il cuore. Sono visibili cuori di diverse età e di diverse condizioni di salute, anche muniti di peacemaker o valvole artificiali, e questo dato avrà il suo peso in un argomento che riprenderemo tra poco, dopo aver esposto la seconda delle (pochissime) domande che i passanti si fanno davanti al manifesto.
La seconda domanda è “chi è l’inventore del miracolo?” (la parola – infelicissima – non poteva che essere di Repubblica). La risposta è ancora più semplice della prima: si tratta di Gunther Von Hagens, un anatomopatologo (ma secondo l’onnisciente Repubblica un “anomatopatologo”!) «che dalla scienza ha deciso di passare all’arte mettendo in mostra le sue creature». La solerte Viola Giannoli (La Repubblica, 27 agosto 2011) ha inconsapevolmente cumulato in una sola frase la sintesi della stroncatura che il “dottor Morte” merita: già la parola “creature” in un simile contesto riecheggia il tetro mondo di Frankenstein; soprattutto, però, il lieve accenno al “passaggio dalla scienza all’arte” lascia sbigottiti. Von Hagens s’è detto emozionato d’essere finalmente approdato a Roma, (col suo abominevole bagaglio, n.d.r.): «Somiglia a un ritorno a casa perché la mostra si pone fermamente nella tradizione dello studio dell’anatomia umana, iniziato nel Rinascimento».
Insomma, il dottor Morte vorrebbe mettere la sua opera nella scia di intuizioni come quelle di Rembrandt, che nel XVII secolo rappresentava lezioni di anatomia: l’analogia, in effetti, potrebbe starci in quanto anche il pittore cercava d’inquadrare un progresso scientifico (i cui risultati, peraltro, sono di grandissima importanza per l’arte figurativa) all’interno di competenze e prospettive schiettamente artistiche. Quella di Rembrandt, del resto, non era una novità, visto che da sempre gli artisti hanno studiato il corpo umano, vivo o morto che fosse. Perché oggi si ha dunque ragione di sollevare tante polemiche contro un evento che ha attirato in tutto il mondo più di trenta milioni di visitatori?
Una considerazione si potrebbe farla a partire dalla constatazione dello stallo senza vie d’uscita in cui versa l’estetica contemporanea: priva di una direttrice condivisa dal grosso della rappresentanza artistica occidentale (perché è sempre questo che brachilogicamente intendiamo per “mondo”), uno dei più vistosi difetti dell’arte contemporanea è che essa è in un pesantissimo deficit di tecnica – non è che le foglie di lauro sprigionantisi dalle dita della Dafne di Bernini non piacciono più: è che non le si sanno fare, né ci si addestra a questo.
Al contrario, l’area “scientifica” del sapere è in preda a un surplus di potenza tecnica senza precedenti nella storia dell’umanità, e in mille frangenti la si scopre letteralmente succube di un’ipertrofia parassitaria della tecnica. Questo, dunque, è il contesto in cui va compreso l’oracolo della solerte Viola Giannoli: von Hagens migra dal mondo scientifico a quello artistico piombando in quest’ultimo col pesante armamentario tecnico del primo, e produce così un’estetica ibrida, nella quale in un certo senso lo stallo di cui dicevamo poc’anzi viene superato, e tutte le vie che la storia dell’arte ha conosciuto (dal naturalismo mimetico al classicismo idealizzato all’erotismo lussureggiante del barocco, per finire alle “vecchie avanguardie” del cubismo e del dadaismo) tutte vengono ripercorse in un approccio che si potrebbe dire “ultramimetico”.
In che senso “ultramimetico”? Posto che il principio basilare classicamente individuato nell’arte è l’imitazione (in greco, mìmesis) della realtà (e qui, a seconda di ciò che s’è inteso con “realtà”, si generavano varianti più o meno divaricate) – e puntualizzando che lo stesso Rembrandt, come già gli studî anatomici di Leonardo, Michelangelo e di tutti gli altri, non escono da questo solco – ciò che von Hagens compie è una risemantizzazione estrema del concetto di “natura morta”.
In parole povere, viva o morta che fosse la natura, essa era destinata a restare una cosa altra dall’opera che – con una certa tecnica e secondo una certa visione della realtà imitata – veniva realizzata. Questo, nell’opera del “dottor Morte”, non sussiste più: le opere finali, la materia di lavoro e la realtà rappresentata coincidono. È chiaro che la condizione per cui tutto questo è possibile è che la coincidenza dei suddetti tre concetti produca semplicemente e invariabilmente una cosa, un oggetto, un “ente intramondano” (direbbe Heidegger).
Ecco che in filigrana fa immediatamente capolino la Weltanschauung della plastinazione, che è caratterizzata da un materialismo diretto a breve distanza nel nichilismo più freddo: per nessun’altra visione del mondo si può ammettere che l’uomo sussista nel suo solo corpo, ma che questo suo corpo gli sia a disposizione completa. Non basta a questo punto richiamarsi alle prassi della cremazione – socialmente accettate e diffuse in moltissime culture di tutti i tempi – e della moderna donazione degli organi (lecita a certe condizioni e in taluni casi perfino eroica): la cenere della cremazione viene sempre e comunque concepita, custodita o dispersa in quanto resto mortale di un “qualcuno”. Il risultato della plastinazione è un id, un it, un es senza genere e senza diritti – è una mera cosa.
La questione dell’anonimato è un tantino più complessa di come la spacciano le pubblicità, perché essa sembra essere più una prassi che un diritto: il documento di dichiarazione della volontà donatoria (interessantissimo leggerlo) lascia che il donatore scelga se restare anonimo o no, ma di fatto gran parte di quanto riguarderà il suo corpo viene dichiarato indipendente dalla volontà di chiunque (perché legato a cose come la cartella clinica e lo stato del corpo al decesso).
Uno degli aspetti per cui il “contratto” (non è vincolante per il firmatario, il quale può – finché resta in vita – recedere anche senza dichiarare una causale) è molto interessante è l’elenco dei principali moventi di un simile testamento: perché mai uno dovrebbe voler diventare una cosa? Resta altresì aperta la questione etica se una simile volontà (soprattutto date le prospettive didattiche di massa) sia da considerarsi ammissibile o no, ma il dato dei 13000 iscritti alle liste dell’Istituto di Plastinazione è comunque enorme e deve far riflettere.
Nella pagina del sito dell’Istituzione dedicata alle FAQ si rimanda volentieri a una dichiarazione sull’eticità del progetto, risultante da «un esame etico indipendente, stilato da un prestigioso comitato di teologi, esperti di etica, accademici e medici». Al di là delle altisonanti dichiarazioni, e senza pretesa d’essere esaurienti, è il caso di annotare in margine a questa famosa dichiarazione che
a) quelli che l’hanno stilata non hanno alcuna autorità oltre a quella che li ha costituiti in commissione (forse intendevano questo, con “indipendente”);
b) essi stessi, di conseguenza, dichiarano di non pretendere (bontà loro!) di vincolare alcun altro ente con le loro dichiarazioni;
c) si riferiscono sempre e solo alla dimensione didattica di un’esposizione di corpi plastinati (tralasciando inspiegabilmente, per una commissione etica indipendente e seria, le considerazione che si sono fatte poco sopra) e non accennano mai alla pretesa estetica di von Hagens;
d) richiedono alcune precauzioni, nell’àmbito delle mostre, che risultano ampiamente disattese, ad esempio la non esposizione dei feti morti.
I conti non tornano, dunque, ed è lecito sospettare che “i conti” (bancarî) non siano del tutto estranei al non tornare dei conti; né si tratta di una questione confessionale (sarebbe bello far rifare il De universo a quei “teologi” e “filosofi” che hanno stilato e sottoscritto la dichiarazione etica), altrimenti Louis-Marie Raingeard, Giudice del Tribunale della laicissima Capitale di Francia non avrebbe dichiarato (21 aprile 2009) che la mostra di quei cadaveri-cose costituiva «una violazione del rispetto ad essi dovuto» – argomentando, per di più, che «secondo la legge il posto proprio dei cadaveri è il cimitero».
In realtà, nessuno si scandalizza che i morti non stiano sotto terra, né che i loro corpi siano usati per motivi di ricerca e d’insegnamento: il nodo problematico della faccenda sta nell’esposizione massiva di queste “cose” e nella torbida confusione di tecnica, etica ed estetica. Prendono una cantonata colossale quelli che argomentano a favore del “movimento plastinazionista” rifacendosi agli esempî storici del Cimitero delle Fontanelle e della Cappella di San Severo a Napoli: nel primo dei casi abbiamo un normale processo di mummificazione (analogo, anche se diverso, a quello praticato nell’antico Egitto) persino mosso da una (bizzarra) fede nella risurrezione dei corpi; nel secondo, invece, abbiamo un mistero della scienza ben più impenetrabile del pacifico silicone di von Hagens, e i due cadaveri che testimoniano questo mistero non sono affatto conservati in pose di vita quotidiana, comme si de rien n’était.
È senz’altro degno di grande attenzione che il brevetto della plastinazione e l’attività del relativo Istituto (mostre comprese) siano arrivati proprio in decennî di grande e pervasiva negazione della morte: dopo aver negato ai bambini per più di mezzo secolo il diritto a vedere un morto, ora i genitori li portano a vedere i macabri giochi estetici di uno scienziato pazzo che insegna come «la morte sia normale e faccia parte della vita»? Perché?
In realtà, scontrarsi frontalmente con un tabù può ben essere molto redditizio (in termini di fama e di conto in banca), ma un tabù non è una baracca – ha radici più profonde delle fondamenta di un grattacielo… Proprio perché non mancano gli storici e gli antropologi che dicono che per la paura della morte l’uomo sarebbe arrivato addirittura a inventarsi il divino (e si sbagliano), si argomenta tuttavia a ragione che la morte ha sempre, dovunque e comunque informato tutta la vita di quell’animale che, solo, fa la vera esperienza della morte.
D’altro canto, idea della morte, concezione dell’uomo e rapporto con il corpo (che ha un ruolo evidente nel mostrare i sintomi della morte) sono inevitabilmente intersecati, e se per un platonico la morte doveva rappresentare semplicemente la liberazione dalla prigionia dei sensi (per un platonico, quindi, gli sforzi di von Hagens sarebbero privi del benché minimo interesse), già per un aristotelico il corpo smetteva di essere semplicemente una “cosa” che “ha” il vero uomo (ossia l’anima) e al contempo “ne è avuta”: se l’anima (ossia la vita personale, psichica) è “forma del corpo”, pensare il corpo di una persona come un mero oggetto è un’aberrazione abominevole (con buona pace del “prestigioso comitato”).
Si obietterà forse che anche i santi vengono spesso rappresentati in stretto contatto con teschî, e che teschî si potevano anche trovare (fino a non molti decennî or sono) nei bugigattoli dei confessori: vero, ma – ancora una volta – ciò che a quegli oggetti non veniva mai negata era la natura di entità personale, la cui funzione non era sembrare ciò che non era, alienando così l’osservatore (ci si riferisce ora alla sola dimensione estetica dell’opera di von Hagens), anzi era precisamente quella di con-solare l’osservatore nella meditazione della morte come evento umano e prossimo del vivente. L’esatto opposto.
E che dire dei laboratorî, che dall’alba dell’età moderna a oggi si sono popolati di resti umani conservati in modi più o meno raffinati (ed efficaci)? Chiunque è stato in un simile laboratorio sa bene quanto sia grave l’atmosfera che quegli oggetti dànno all’ambiente, e la loro presenza in quel luogo è sempre stata ritenuta un’eccezionale circostanza, in cui la necessità della sorte umana (la morte) viene rispettosamente e senza danno sfruttata per l’opportunità del progresso scientifico (bene grande, ma non superiore alla dignità umana, che anzi dovrebbe servire).
Insomma, von Hagens dovrebbe decidere se la sua opera è vera scienza, e quindi volta a un fine di ricerca e d’insegnamento, o se è vera arte, e quindi svincolata da ogni fine che non sia la gratuita celebrazione della gratuita bellezza delle cose. Nel primo caso, le mostre non dovrebbero essere a pagamento, i corpi non dovrebbero essere “messi in posa” come se non fossero che manichini, il brevetto della plastinazione dovrebbe essere ceduto all’intera comunità scientifica (in attesa, forse, di un Nobel). Nel secondo caso (il caso di cui il “prestigioso comitato etico indipendente” non parla mai) il nodo tra tecnica, etica ed estetica dovrebbe essere affrontato e risolto (fosse anche “per via gordiana”), perché la degradazione della persona a oggetto non celebra altro che un indistinto odio per il genere umano.