"Lei è giovane, ma si ricordi sempre che la politica della Chiesa è quella di non fare politica e di andare sempre per la retta via". Tre articoli di Gianpaolo Romanato su Pio X ed il suo segretario di Stato Rafael Merry del Val
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1/ Il cardinale Rafael Merry del Val, segretario di stato di Pio X. Un profilo, di Gianpaolo Romanato
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 26/2/2010 un articolo scritto da Gianpaolo Romanato. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2013)
Pio X e Rafael Merry del Val. È difficile immaginare due personalità più diverse. Il primo era nato nella campagna veneta da una modestissima famiglia che conobbe gli stenti e probabilmente anche la fame. Studiò grazie a una borsa di studio e trascorse tutta la vita, prima dell'elezione al papato, in mezzo alla povera gente, tra canoniche di paese e curie di provincia, lontano dalla ribalta e dai luoghi del potere.
Il secondo veniva invece da una delle famiglie più blasonate del continente, aveva ricevuto un'educazione cosmopolita e poliglotta, era di casa nelle ambasciate e negli ambienti più esclusivi di ogni capitale d'Europa.
Le loro vite, che parevano fatte solo per divergere, si incrociarono quasi casualmente e finirono per intrecciarsi a un punto tale che è difficile disgiungerle anche oggi.
DA SEGRETARIO DEL CONCLAVE A SEGRETARIO DI STATO
L'incontro avvenne durante il drammatico conclave del 1903, quello del veto dell'Austria all'elezione del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, che nell'arco di quattro giorni, al settimo scrutinio, portò al papato, col nome di Pio X, il semisconosciuto patriarca di Venezia Giuseppe Sarto.
Una singolare coincidenza aveva fatto sì che il segretario della congregazione concistoriale, che era anche segretario del collegio dei cardinali e quindi del conclave, monsignor Alessandro Volpini, fosse deceduto quasi nelle stesse ore in cui era morto Leone XIII. In tutta fretta i cardinali scelsero come suo successore proprio Merry del Val, in quel momento presidente della pontificia accademia dei nobili ecclesiastici, da soli tre anni ordinato vescovo.
La scelta era avvenuta in una rosa di tre nomi. I due candidati scartati erano il sostituto alla segreteria di Stato Giacomo Della Chiesa, futuro Benedetto XV, e Pietro Gasparri, allora segretario agli affari ecclesiastici straordinari. La preferenza accordata al più giovane e al meno titolato dei tre fu interpretata come la prima sconfitta della linea Rampolla, preannuncio di quanto sarebbe avvenuto in conclave.
Su Merry del Val, privo del diritto di voto non essendo cardinale, cadde così la gravosa incombenza di preparare e condurre il più difficile conclave degli ultimi due secoli.
Sarto lo conobbe allora, ebbe modo di valutarlo mentre maturavano le circostanze della sua elezione e, poche ore dopo essere diventato papa, gli comunicò, lasciandolo stupefatto, la decisione di trattenerlo come pro-segretario di Stato. "Per ora non ho nessuno", gli avrebbe detto. "Rimanga con me. Poi vedremo".
La designazione per il ruolo chiave del pontificato di questo spagnolo – primo non italiano a guidare la segreteria di Stato – di soli trentotto anni, che avrebbe potuto essere figlio del papa sessantottenne, suscitò commenti e riserve che pesarono sulle vicende successive. Dopo soltanto due mesi di prova Pio X sciolse la riserva e il 18 ottobre 1903 lo nominò segretario di Stato, elevandolo anche alla porpora cardinalizia. Da quel momento la vita di Merry del Val non si sarebbe più disgiunta da quella del pontefice.
DA FIGLIO DI AMBASCIATORE AD AMBASCIATORE DEL PAPA
Chi era Rafael Merry del Val, di cui ricordiamo l'ottantesimo anniversario della morte? Nato nel 1865 a Londra, dove il padre era ambasciatore di Spagna, crebbe tra Inghilterra e Belgio e nel 1885 fu inviato a Roma dall'arcivescovo di Westminster, il cardinale Herbert Vaughan, per completare la preparazione al sacerdozio nel Pontificio Collegio Scozzese.
Qui iniziò una delle più rapide carriere di tutta la storia ecclesiastica. Secondo il suo biografo Pio Cenci, sarebbe stato Leone XIII in persona a imporlo all'accademia dei nobili ecclesiastici e a utilizzarlo per missioni diplomatiche in Inghilterra, Germania e Austria prima ancora della consacrazione sacerdotale. Conosceva perfettamente le principali lingue europee, ma non basta certo la perizia linguistica a giustificare tanta attenzione. In una curia che stava faticosamente cercando di recuperare ruolo e rango internazionali dopo la perdita dello Stato pontificio nel 1870, il rampollo dell'insigne famiglia inglese dei Merry e dell'ancor più illustre casata spagnola dei del Val doveva aver dato prova di capacità fuori dal comune per bruciare le tappe con tanta rapidità.
Dopo la laurea alla Pontificia Università Gregoriana, divenne uno dei personaggi più influenti e ascoltati della Roma pontificia, soprattutto per i problemi che riguardavano l'anglicanesimo. La perfetta conoscenza dell'ambiente e della lingua, i frequenti viaggi oltre Manica e la stima del cardinale Vaughan gli conferirono grande autorevolezza.
Investito da Leone XIII della spinosa questione della validità delle ordinazioni anglicane – si era agli inizi, ancora incerti e tentennanti, del cammino ecumenico – portò la Santa Sede al responso negativo, poi ufficializzato nel settembre 1896, con la bolla "Apostolicae curae", della quale fu lui il principale estensore. Sulla base di una prassi vecchia ormai di trecento anni e di una minuziosa indagine storica, Leone XIII confermava la "nullità" delle "ordinazioni compiute con rito anglicano", negando con ciò la successione apostolica di tali vescovi. Il riavvicinamento degli anglicani ai cattolici, che era in atto da tempo, subiva così una battuta d'arresto, mentre il giovane prelato si accreditava come il portavoce di una linea di austerità dottrinale diversa, se non alternativa, a quella politica di Rampolla, il segretario di Stato di allora.
L'anno seguente compì una lunga missione in Canada, in qualità di delegato apostolico. Contesa fra le opposte tentazioni dell'arroccamento e del cedimento, la giovane cattolicità canadese aveva chiesto aiuto a Roma. Merry del Val vi si mosse con equilibrio, soprattutto in relazione al problema delle scuole cattoliche nel Manitoba, e ne ebbe pubblico riconoscimento dal papa nell'enciclica "Affari vos" del dicembre 1897. Con parole del tutto inusuali in un documento ufficiale, Leone scrisse che "il nostro delegato apostolico ha adempiuto perfettamente e fedelmente ciò per cui lo avevamo mandato".
Rientrato a Roma fu posto a capo dell'accademia dei nobili ecclesiastici e nominato vescovo. La sua rapidissima ascesa era dovuta a una solida preparazione storico-giuridica, a un'innata capacità di relazionarsi con chiunque, alla "sveltezza", come dirà poi Benedetto XV, con cui risolveva i problemi.
Ma era noto a tutti che il capace diplomatico era un prete di grande pietà, con abitudini monastiche e un'austera, ascetica disciplina di vita.
Nel 1903, come si è prima ricordato, avvenne il balzo decisivo al vertice dell'organigramma vaticano, favorito prima dalla morte imprevista di monsignor Alessandro Volpini – non aveva ancora sessant'anni – e poi dalla scelta inattesa del neoeletto Pio X.
L'UOMO GIUSTO PER UN PAPA POCO POLITICO E MOLTO RELIGIOSO
Al nuovo papa, eletto proprio per mitigare l'eccessiva esposizione politica della Santa Sede avvenuta durante la gestione Rampolla, Merry del Val, notoriamente estraneo a quella gestione, apparve l'uomo adatto a imprimere la svolta.
Si muoveva con disinvoltura nel mondo diplomatico, maneggiava i problemi della politica internazionale, conosceva perfettamente la curia romana. Possedeva insomma tutto ciò che faceva difetto al papa. Nominandolo segretario di Stato, Pio X contava su tutto questo. Ma contava anche sulla sua giovane età e sulla sua illimitata devozione al papato: sarebbe stato un fedele collaboratore che mai gli si sarebbe contrapposto.
Sicuramente, però, Pio X aveva tenuto conto anche di un'altra qualità di Merry del Val: la sua vita di pietà. L'elogio che papa Giuseppe Sarto gli rivolse l'11 novembre 1903, giorno dell'imposizione della berretta cardinalizia, è talmente inusuale, anche nel linguaggio, che merita di essere riportato per intero: "Il buon odore di Cristo, signor cardinale, che avete diffuso in tutti i luoghi, anche nella vostra temporanea dimora, e le opere molteplici di carità, alle quali continuamente nei ministeri sacerdotali vi siete dedicato, specialmente in questa nostra città di Roma, vi acquistarono, con l'ammirazione, la stima universale".
La valutazione positiva del pontefice, più che alle capacità politiche del suo collaboratore, era rivolta al suo mondo morale, alle opere di carità fra i ragazzi del quartiere di Trastevere nelle quali si spendeva senza risparmio. Un papa essenzialmente religioso si scelse un segretario di Stato con le sue stesse caratteristiche.
Le vicende del pontificato di Pio X sono note. I rapporti con gli Stati si deteriorarono un po' dovunque, fino ad aperte rotture. Il caso più noto è quello della Francia, dove nel dicembre del 1905 fu votata la legge di separazione fra Chiesa e Stato. Sei anni dopo toccò al Portogallo, che varò una legge ancora più brutale. Tensioni analoghe si ebbero in vari paesi latino-americani. Il papa non fece molto per modificare il corso degli eventi. Protestò, scrisse encicliche molto forti, ma si guardò bene dal tentare vie diplomatiche.
Nel caso francese, la legge prevedeva che le cosiddette associazioni di culto, dalle quali era esclusa la gerarchia ecclesiastica, gestissero le proprietà della Chiesa, diventando un polo alternativo ai vescovi. L'obiettivo di scardinare la costituzione gerarchica della Chiesa era evidente, anche se non tutti l'avevano percepito.
Il papa colse perfettamente il nocciolo del problema e oppose un netto rifiuto. Fu un vero e proprio "legal suicide", come è stato detto, dal momento che la Chiesa di Francia, costretta da Roma a non accettare la legge – il pontefice scrisse in meno di un anno, tra il 1906 e il 1907, ben tre encicliche dedicate al caso francese – perdette la personalità giuridica e con essa l'intero suo patrimonio, a partire dalle chiese dove si svolgevano quotidianamente le funzioni religiose.
Ma così la Chiesa di Francia riguadagnò la propria libertà e il pieno controllo delle nomine vescovili, fino a quel momento demandato allo Stato in forza del concordato napoleonico. La scelta di Pio X – tra il "bene" e i "beni" della Chiesa ho scelto il primo, avrebbe detto il papa – che otterrà a posteriori il plauso di Aristide Briand, l'ispiratore della legge – "il papa è stato il solo a vederci chiaro" – aveva cancellato d'un solo colpo tre secoli di gallicanesimo, di Chiesa nazionale, riportando la cattolicità francese, anche disciplinarmente, alla piena fedeltà a Roma.
Fu una svolta fondamentale – "evento doloroso e traumatizzante", l'ha definita Giovanni Paolo II nella lettera ai vescovi francesi scritta in occasione del centenario della legge – che spiazzò i contemporanei e continua a dividere gli storici. Fu questa l'occasione che fece emergere quell'idealismo antitemporalistico che, a giudizio di vari studiosi, sarebbe l'aspetto veramente rivoluzionario del pontificato, la grande novità nel rapporto tra Chiesa e mondo emersa nel decennio di Pio X e di Merry del Val.
Con Pio X finisce insomma un'intera stagione nella storia della Chiesa, quella delle interferenze con la politica, degli intrecci diplomatici, delle tardive connessioni fra troni e altari, dei "vescovi in cilindro" e dei "cardinali di corte", delle contrapposizioni verso alcuni Stati e delle concessioni ad altri.
Diversamente dal suo predecessore, Pio X non fece mai "politica estera", non tentò mai di indebolire sul piano internazionale i paesi che si dimostravano avversi alla Chiesa, non cercò mai di sfruttare a proprio vantaggio le rivalità, gli interessi e le alleanze delle varie nazioni. E questa linea, che non ha ancora ottenuto dagli storici l'attenzione che merita, non era un ripiegamento tattico ma una precisa scelta strategica, come disse un giorno papa Sarto al futuro cardinale Nicola Canali, allora giovane minutante di curia: "Lei è giovane, ma si ricordi sempre che la politica della Chiesa è quella di non fare politica e di andare sempre per la retta via".
TRA RINNOVAMENTO DELLA CHIESA E RIFORMA DELLA CURIA
Merry del Val coadiuvò lealmente e convintamente questa politica, come pure le scelte di Pio X di radicale rinnovamento della Chiesa: dalla soppressione del diritto di veto in conclave, alla riforma della curia, alla codificazione del diritto canonico.
Il rifacimento della curia romana, varato nel 1908, riguardò direttamente le sue competenze, che vennero ampliate, ma all'interno di un disegno di governo nel quale la segreteria di Stato era solo il penultimo dei cinque uffici vaticani. Il cuore della curia di Pio X non era la segreteria di Stato, come avverrà con la riforma di Paolo VI, sessant'anni dopo. Il cuore era rappresentato dalle undici congregazioni, in cima alle quali era posto il Sant'Ufficio.
Forse è questa la ragione per cui il ruolo di Merry del Val coincide fin quasi a confondersi con quello del papa, diversamente da quello dei suoi predecessori e successori. Facendo poca o nessuna politica e badando a governare e rinnovare la Chiesa, Pio X tolse alla segreteria di Stato molto di quello spazio che la rendeva un attore autonomo e ne rafforzò il legame con il papato stesso.
Questo legame divenne ancora più serrato nel corso della vicenda del cattolicesimo modernista, apparsa finora agli storici il vero "punctum dolens" del pontificato di Giuseppe Sarto.
Su questo snodo si è scritto molto, e uno dei punti finora irrisolti riguarda proprio l'operato del segretario di Stato. Ma che Merry del Val sia stato protagonista o comprimario, esecutore o ispiratore non sembra un elemento decisivo di giudizio. Decisivo è il fatto che fu pienamente partecipe della linea antimodernista del papa, convinto sostenitore della necessità di fermare quelle istanze di rinnovamento nelle quali entrambi vedevano il rischio incombente di una catastrofica crisi di fede.
CON PIO X ANCHE VERSO GLI ALTARI
Era inevitabile che un segretario di Stato così strettamente identificato con il pontefice che aveva servito non venisse confermato dal suo successore.
Appena eletto papa, il 3 settembre 1914, Benedetto XV nominò, infatti, segretario di Stato prima il cardinal Domenico Ferrata, che morì quasi subito, e poi Pietro Gasparri. Ritroviamo così alla guida della Chiesa i due vescovi – Della Chiesa e Gasparri – che erano stati scavalcati da Merry del Val alla vigilia del conclave del 1903.
Per l'ex segretario di Stato, i sedici anni che gli rimasero da vivere dovettero essere un periodo difficile. Da Benedetto XV ebbe lo stesso trattamento che Pio X aveva riservato dieci anni prima a Rampolla: divenne segretario del Sant'Ufficio – la prefettura di questa congregazione era allora prerogativa del pontefice – funzione che conservò fino alla morte improvvisa, avvenuta il 26 febbraio del 1930.
Nei confronti di Pio X, Merry del Val conservò una devozione illimitata: fu lui all'origine della petizione che ne avviò la canonizzazione. Il 20 di ogni mese, giorno del decesso del papa, celebrava una messa in suo suffragio. Chiese di essere sepolto "il più vicino possibile al mio amatissimo padre e pontefice Pio X".
Ma il suo tempo era ormai tramontato, anche se nel 1953, durante il pontificato di Pio XII – che aveva iniziato la carriera proprio alle sue dipendenze – fu avviato anche per lui il processo canonico di beatificazione, in coincidenza con l'ascesa agli altari di Pio X, proclamato beato nel 1951 e santo nel 1954.
2/ La Santa Sede tra la fine del diritto di veto e del gallicanismo e le origini del Codice di diritto canonico. E Pio X si sbarazzò dell'«ancien régime», di Gianpaolo Romanato
Pubblichiamo un estratto di una lezione tenuta mercoledì 24 febbraio all'università di Opole in Polonia sul tema «La sede Apostolica e l'Europa Orientale da Pio X alla nunziatura di Achille Ratti in Polonia», riprendendola da L'Osservatore Romano del 25 febbraio 2010.
Il Centro culturale Gli scritti (8/9/2013)
L'espressione "Europa orientale" divenne un concetto politico dopo la prima guerra mondiale, con la scomparsa dei grandi Imperi sovrannazionali - Reich tedesco, Austria-Ungheria asburgica, Russia zarista - e la nascita, sanzionata dalla Conferenza di pace di Parigi, di ben nove nuovi Stati nazionali - Finlandia, Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Austria, Jugoslavia - nessuno dei quali era mai esistito prima con i confini stabiliti allora. A questi nuovi Paesi si aggiunse la Romania che incamerò regioni già asburgiche a nord - la Transilvania e la Bucovina - e zariste a est - la Bessarabia, cioè in larga misura l'attuale Moldavia - con il risultato di raddoppiare la superficie e di modificare radicalmente la propria configurazione territoriale. La geopolitica europea ne risultò sconvolta, con il risultato di innescare un processo di destabilizzazione degli equilibri continentali durato per tutto il secolo scorso e che neppure oggi possiamo considerare concluso. Fino ad allora l'Europa orientale era stata soltanto un'espressione geografica priva di significato politico.
Ma per la Santa Sede l'oriente europeo aveva cominciato a essere un problema ben prima del 1918. Già all'inizio del XX secolo, nel pieno di quella che chiamiamo la belle époque, e quindi molto in anticipo sui tempi della politica, questa parte dell'Europa aveva fatto sentire la sua voce e i suoi diritti all'interno della Chiesa in forme talmente dirompenti che condizionarono il futuro del cattolicesimo per tutto il Novecento. Mi riferisco al conclave che ebbe luogo dopo la morte di Leone XIII, nell'agosto 1903, e dal quale uscì eletto Papa il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto che assunse il nome di Pio X.
Quel conclave fu caratterizzato infatti dal drammatico episodio del veto posto dal Governo austriaco all'elezione a Papa del segretario di Stato di Leone XIII, il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. Il veto imperiale determinò l'esito del conclave e molto probabilmente cambiò il corso della Chiesa: Rampolla, infatti, grande favorito della vigilia e secondo tutti gli osservatori quasi certo della tiara, fu sconfitto. La sua sconfitta rimescolò le carte, sconvolse tutte le previsioni e portò al pontificato il semisconosciuto patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, che divenne Pio X (1903-1914). Latore in conclave del veto dell'Imperatore d'Austria-Ungheria fu l'arcivescovo di Cracovia, allora austriaca, cardinale Jan Puzyna, un "cardinale di corte", come si definivano allora i cardinali imposti alla Chiesa dalla volontà politica dei governi. Puzyna era insomma un prelato che doveva la nomina cardinalizia più a Francesco Giuseppe che alla Santa Sede. A Roma la sua azione fu giudicata con grande severità e su di lui furono espressi giudizi pesanti: Rafael Merry del Val e Pietro Gasparri, che diventeranno segretari di Stato di Pio X e di Benedetto XV - complessivamente dal 1903 al 1930 - lo definirono "disgraziato" (Merry del Val) e "povero uomo di triste memoria" (Gasparri).
Ma Puzyna giudicava in tutt'altro modo la sua azione e ai cardinali che lo apostrofavano con l'espressione pudeat te («vergognati»), replicava a testa alta con le parole honor meus ("ne sono fiero"). L'ambivalenza del giudizio sul suo operato non si è dissolta con il trascorrere del tempo e la sua memoria rimane tutt'ora controversa, anche se i pesanti giudizi dei contemporanei oggi si sono molto attenuati. È tuttavia significativo che le spoglie di Puzyna riposino con tutti gli onori nella cattedrale di Cracovia, mentre il suo nome è stato citato senza nessuna menzione negativa nelle memorie di Giovanni Paolo II, che lo indica senza imbarazzi fra i suoi predecessori nella cattedra episcopale di Cracovia.
Tralasciamo allora la questione, storiograficamente ancora aperta ma che non interessa in questa sede, se si sia trattato di una "congiura polacca" - questa espressione viene usata nella storiografia italiana - o di una legittima difesa di interessi nazionali minacciati dall'elezione al papato di un cardinale notoriamente filorusso - cioè il Rampolla. Quest'ultima più benevola interpretazione oggi sembra prevalere ed è fatta propria anche da Roger Aubert, recentemente scomparso, il quale, nella sua Nouvelle Histoire de l'Eglise si limita a segnalare che secondo Puzyna "l'elezione del Rampolla sarebbe stata nefasta per la Chiesa", e aggiunge che il cardinale di Cracovia rimproverava a Rampolla "di aver sacrificato a una politica filorussa gli interessi polacchi". Secondo Aubert, Puzyna avrebbe chiaramente affermato che l'iniziativa del veto non era partita dall'Austria ma era stata una sua idea, per cui, disse, "non sono stato strumentalizzato dall'Austria ma sono stato io a strumentalizzarla". Quel che sembra insomma accertato è che fu la lobby polacca, tutt'altro che ininfluente allora presso il governo imperiale austriaco - il conte Agenor M. Goluchowski, ministro degli Esteri, era un polacco di Leopoli, la stessa città dove era nato Puzyna - a convincere l'Imperatore Francesco Giuseppe a esprimere il veto a Rampolla.
Parlando in Polonia ho affrontato il tema di questa conversazione partendo da quel lontano episodio perché credo che esso abbia contribuito più di quanto non si sia detto finora a cambiare la storia della Chiesa cattolica. A Roma ci si rese conto che la Santa Sede, che aveva perduto nel 1870 lo Stato pontificio, era drammaticamente disarmata davanti all'avanzare delle contrapposte aspirazioni nazionali e all'imminente sfacelo della vecchia Europa ottocentesca. Da questa consapevolezza derivò la decisione di Pio X, il pontefice eletto nel conclave del 1903, di rafforzare al massimo il centralismo romano. Ciò avvenne soprattutto attraverso tre passaggi assolutamente fondamentali.
Il primo fu la soppressione del diritto di veto. La norma fu emanata nella forma più solenne il 20 gennaio 1904 - non erano passati nemmeno cinque mesi dall'elezione - con la Costituzione Commissum nobis. Si tenga presente che nell'ordinamento canonico la Costituzione è il documento più alto e solenne. Nessun soggetto giuridico può modificare una Costituzione. Solo un Papa, in futuro, ha il potere di cambiarla. Durante il regno di Leone XIII si era presa in considerazione l'ipotesi di abrogare il diritto di veto, ma si era sempre ritenuto il passo molto rischioso e si era preferito accantonare il problema. Decidendo per l'abrogazione, Pio X poneva fine definitivamente all'unione fra trono e altare. In pratica, poneva fine all'ancien régime della Chiesa, che così si riappropriava del proprio destino, escludendo per il futuro ogni possibilità di interferenza politica.
Il secondo passaggio fu il grandioso progetto del rifacimento del diritto canonico, della sua rifusione in un unico codice, pensato in forme simili ai moderni codici civili. Il progetto, come è noto, si concluse nel 1917 con il varo da parte del successore di Pio X, Benedetto XV, del Codex iuris canonici. Perché è importante il Codex? Perché rafforzò al massimo l'autocoscienza della Chiesa come soggetto giuridico autonomo e non derivato dal potere civile, come personalità internazionale sovrana, come ordinamento originario, libero e indipendente. Ma soprattutto perché rafforzò il centralismo romano facendo venir meno i diritti particolari, o locali, delle antiche chiese nazionali. In altre parole: dal 1917 in poi la Chiesa latina operò uniformemente e allo stesso modo nell'Europa dell'Est come dell'Ovest, in America come in Africa e in Asia. Il Codex fu insomma un fondamentale strumento della riconversione verso Roma del cattolicesimo, prima diviso in un pulviscolo di chiese nazionali, che obbedivano ai rispettivi governi più che al Sommo Pontefice.
Il terzo passaggio è costituito dalla rottura dei rapporti diplomatici fra la Santa Sede e la Francia. Tale rottura, facendo venir meno il vecchio concordato napoleonico del 1801, in base al quale la scelta dei vescovi era una prerogativa dello Stato, restituiva alla Chiesa, cioè al Papato, il pieno controllo delle nomine vescovili in Francia. A partire dalla Francia, insomma, cioè dalla "figlia prediletta della Chiesa", il papato si riappropriava del diritto di scegliere e nominare i vescovi, escludendone il potere statale, al quale era stato demandato durante i secoli dell'ancien régime.
La storiografia su Pio X ha finora dedicato più attenzione alla questione del modernismo che a questa riconversione verso Roma che avviene durante il pontificato dell'ex patriarca di Venezia. A me sembra, invece, che sia questo secondo punto il nodo focale del pontificato, quello che ha influito in forma decisiva e irreversibile sul futuro del cattolicesimo.
Pio X morì pochi giorni dopo l'inizio della Prima guerra mondiale. La guerra acuì nella Curia romana la sensazione e la consapevolezza della propria debolezza. Tale sensazione era dovuta certamente all'irrisolta Questione romana, cioè alla mancanza di una piena e compiuta sovranità internazionale della Santa Sede. Ma era dovuta anche, e forse di più, al fatto che i vari episcopati nazionali, quasi tutti ancora di scuola ottocentesca, si sentivano vincolati ai rispettivi governi e alle politiche nazionali che questi perseguivano, molto più che alla causa della Chiesa e alla sua visione politica che andava oltre gli interessi dei singoli Stati. Ne è prova l'accoglienza che ebbe la celebre Nota di Benedetto XV alle potenze in guerra, emanata il 1° agosto 1917. In tale Nota si auspicava la cessazione immediata delle ostilità, lo sgombero dei territori stranieri occupati, la risoluzione delle vertenze di confine mediante arbitrato, il disarmo internazionale simultaneo. Oggi la leggiamo come uno dei documenti più lungimiranti, e addirittura profetici, della storia novecentesca; ma allora fu respinta da tutti, inclusi molti cattolici, al punto che il predicatore domenicano padre Antonin-Dalmace Sertillanges la commentò con l'arcivescovo di Parigi dicendo di non volerne sapere della "sua pace", cioè della pace proposta dal Papa, che sembrava ispirata agli interessi del nemico. Nella tragedia di quegli anni e nel gorgo degli opposti nazionalismi trionfanti, sfuggì a tutti che il Papa non faceva gli interessi di nessuna potenza, ma parlava in nome dell'umanità, difendeva gli interessi non delle singole nazioni ma della civiltà e dell'Europa, prevedendo che l'"inutile strage" della guerra, come si espresse Benedetto XV, sarebbe stato il "suicidio" del continente.
Il processo di riconversione verso Roma avviato da Pio X proseguì perciò con la massima decisione dopo la guerra. Esso culminò nel 1929 con la stipula dei Patti Lateranensi, che chiudendo la Questione romana e dando vita alla Città del Vaticano restituirono alla Santa Sede la piena e completa sovranità internazionale, cioè la natura e il rango di Stato fra Stati, ciò che permise al Papato di essere un interlocutore diplomaticamente e giuridicamente alla pari con i governi dei nuovi Stati sorti nell'Europa orientale.
3/ L’unico parroco che divenne papa. Pio X tra storia e aneddotica, di Gianpaolo Romanato
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 21/8/2013 un articolo scritto da Gianpaolo Romanato. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/9/2013)
Ci sono non poche somiglianze tra la figura di Francesco e quella di Pio X, il suo predecessore che un secolo fa, all'alba del Novecento, occupò per undici anni la cattedra di Pietro (1903-1914).
Ad avvicinare i due Pontefici sono le umili origini, la provenienza periferica rispetto a Roma, l'estraneità all'ambiente curiale, l'insofferenza per il trionfalismo ecclesiastico, il tratto diretto e immediato, lo stile di vita sobrio e dimesso, l'interpretazione più pastorale che magisteriale del ruolo petrino. Potremmo aggiungere a queste affinità anche la circostanza eccezionale che per entrambi determinò l'elezione: per Francesco le dimissioni del predecessore, per Pio X il veto dell'impero d'Austria, che sbarrò la strada al favorito della vigilia, il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. Naturalmente le somiglianze si fermano qui, troppo lontani essendo i tempi di Pio X rispetto a quelli di oggi. Ma valgono se non altro a ricordarci che il papato, che vive da duemila anni senza essere mai stato interrotto da veri momenti di discontinuità, è in realtà un'istituzione più mobile di quanto non sembri a chi la osservi dall'esterno.
Pio X - che la storiografia, a giudizio di chi scrive, ha troppo appiattito sulla vicenda modernista - fu uno di questi momenti di mobilità, cioè di novità, dell'istituzione. Dopo due lunghissimi pontificati - quello drammatico di Pio IX, protrattosi per trentadue anni (1846-1878), e l'altro, ieratico, di Leone XIII, che durò poco meno, venticinque anni (1878-1903) - l'elezione d'un uomo che era stato parroco per quasi un ventennio, veniva dal popolo, conosceva solo le periferie della Chiesa e
riusciva a far sentire a suo agio qualsiasi interlocutore, fu una novità che sconvolse le placide abitudini vaticane e affascinò i contemporanei.
Su Giuseppe Sarto, questo il suo nome, fiorì perciò una sterminata aneddotica - a cominciare dal cognome, Sarto, troppo simile a "santo" per non tentare gli apologeti - che è diventata parte della sua immagine storica. Un'aneddotica che è stata poi largamente confermata dalle centinaia di testimoni de visu chiamati a deporre nel corso del processo di canonizzazione, conclusosi, come è noto, con la beatificazione, avvenuta nel 1951, e con la santificazione, a opera di Pio XII, tre anni più tardi.
È a questa tradizione - intessuta di battute, facezie, piccoli episodi, ricordi personali, brani di discorsi e citazioni da lettere private - che ha attinto Nello Vian (1907-2000), autore di uno dei migliori libri sul Pontefice veneto. Un libro apparso nel 1977 a Treviso, presso un piccolo editore, Marton, e ripubblicato ora, in vista delle celebrazioni del centenario della morte: Avemaria per un vecchio prete. Intermezzi aneddotici lungo la vita di san Pio X (Padova, Edizioni Messaggero, pagine 207, euro 16).
Segretario per venticinque anni della Biblioteca Apostolica Vaticana, ma di famiglia veneziana, come rivela chiaramente il cognome, Vian ha potuto attingere sia alle fonti romane, scritte e orali, sia a quelle venete. Pio X infatti nacque a Riese, in diocesi di Treviso, nel 1835 e trascorse tutta la vita nel Veneto, prima come studente nel seminario di Padova, poi come cappellano e parroco in due piccoli paesi, Tombolo e Salzano, poi come cancelliere di curia a Treviso e infine come vescovo, cardinale e patriarca di Venezia. Lasciò la sua regione una sola volta, quando fu designato vescovo di Mantova. Nella città che era stata dei Gonzaga rimase dal 1885 al 1894. Nove anni importanti, in una terra inquieta, dove i fremiti risorgimentali avevano squassato non poco le strutture ecclesiastiche. È qui che Sarto imparò a governare una diocesi, fuori dal Veneto, ma solo di poco, appena al di là del confine.
Fu il Veneto, insomma, e parliamo del Veneto povero e contadino di allora, da dove si emigrava in massa verso le Americhe (anche Francesco è figlio di emigranti), ben diverso dalla regione ricca e produttiva di oggi, l'ambiente che forgiò questo futuro pontefice. Un ambiente dove conservò innumerevoli riferimenti e molte amicizie, testimoniate dallo sterminato epistolario, di cui Nello Vian aveva già offerto una silloge preziosa nella raccolta delle Lettere, apparse in prima edizione nel 1954 (Belardetti editore) e in una seconda edizione più ampia nel 1958 (Gregoriana).
Il libro ora ripubblicato accompagna perciò con penna lieve ma scrupolosa precisione di riferimenti l'ascesa di questa singolare carriera, unica nella storia del papato (nessun Pontefice è stato parroco), soffermandosi su particolari minori, generalmente trascurati dagli storici. Particolari utili però a tratteggiare il ritratto morale, la figura interiore di Sarto, un uomo che seppe sempre adattarsi ai ruoli cui fu chiamato rimanendo sempre uguale a se stesso.
Un «parroco di campagna», come lo definì Pio XII nel discorso pronunciato nel giorno della canonizzazione, che dominò ogni situazione della sua vita anziché esserne dominato. Scrutare la sua anima profonda, a partire da episodi apparentemente secondari, come avviene nella pagine di questo libro, non è meno importante dello studio degli atti di governo per comprendere il senso di un pontificato che ha inciso a lungo sulla Chiesa novecentesca, fino al Vaticano II e anche oltre.
Attraverso la narrazione di Vian, intessuta di citazioni e anche di memorie vive (i genitori di Vian furono uniti in matrimonio dal patriarca Sarto, poco prima della sua elezione a Papa), vediamo così come questo povero giovane di campagna, che poté studiare soltanto grazie a una borsa di studio, primeggiò sempre in uno dei seminari più celebri dell'alta Italia, rivelando fin da giovane singolari capacità di giudizio e una maturità che colpì tutti i suoi insegnanti.
Nei vent'anni in parrocchia, in mezzo a una popolazione miserabile e analfabeta, seppe porsi al livello dei suoi fedeli senza lasciarsi trascinare verso il basso dalla pochezza dell'ambiente che lo circondava. Da cancelliere di curia e di fatto vicario generale, a Treviso, servì tre vescovi godendone sempre la stima e l'incondizionata fiducia. A Mantova, una diocesi nella quale erano falliti i suoi due predecessori, dove il livello del clero era molto basso e il prestigio delle istituzioni ecclesiastiche quasi azzerato, riportò ordine e disciplina, imponendosi per autorevolezza anche alle autorità civili.
Il suo segreto era l'immediatezza del rapporto con ogni interlocutore, qualunque fosse la sua estrazione sociale, umile o elevata, la rara capacità di adattarsi agli altri rimanendo sempre fedele a se stesso e al proprio ruolo. La forza con cui affrontò le situazioni veniva da una vita intemerata, da una rigorosa disciplina interiore, da un senso di appartenenza alla Chiesa che non conobbe mai tentennamenti. Fu prete e vescovo in anni difficili, dopo l'unità d'Italia, quando il conflitto fra lo Stato ela Chiesa raggiunse livelli altissimi.
Ebbene, tutte le testimonianze ci dicono che, pur appartenendo alla scuola dell'intransigenza antiliberale, seppe moderare le proprie rigidezze fino ad apparire molto più duttile di quanto fosse in realtà.
Il trasferimento a Venezia, in una città decaduta e impoverita rispetto al suo glorioso passato ma che rimaneva fra le sedi più prestigiose della cristianità, ne affinò il tratto senza snaturarne la spontaneità. In riva alla laguna imparò le astuzie della politica e accrebbe il credito di cui godeva anche a Roma, anche se a Roma andava di rado, quasi di malavoglia. Il suo primo viaggio nella capitale (qui efficacemente ricostruito) lo fece nel 1877, quando aveva già quarantadue anni.
Vian accompagna la sua ascesa della scala ecclesiastica privilegiando sempre l'aspetto umano sulla funzione di governo. E a tale ottica rimane fedele anche quando affronta il nodo del papato. Le grandi riforme di Pio X, come la questione del modernismo, rimangono nell'ombra. Anche da Papa, successore di due Pontefici che avevano segnato un'epoca, rimane il prete che era sempre stato, insofferente della "prigionia" vaticana, ma rassegnato a viverla, benché a modo suo, ben consapevole, tuttavia, che la funzione di governo cui era stato chiamato andava esercitata fino in fondo.
Gli undici anni del suo pontificato furono infatti un ciclone riformatore che modificò profondamente la Chiesa, attrezzandola in vista dei problemi che si sarebbero posti dopo la guerra, con l'avvento dei regimi totalitari. Soppresse il diritto di veto (l'istituto cui doveva l'elezione), rivoluzionò la curia, varò il Codex iuris canonici, riformò i seminari e la musica liturgica, modificò profondamente la pietà cristiana incoraggiando la comunione frequente e abbassando a sei-sette anni l'età minima per accostarsi all'eucarestia, lasciò andare al suo destino il concordato con la Francia, pago di recuperare il pieno controllo dell'episcopato transalpino. Con Pio X si estinse definitivamente la tradizione gallicana e iniziò quella felice stagione dell'intellettualità cattolica francese che si protrasse fino al Vaticano Il.
A queste riforme di struttura, che seppellirono definitivamente la Chiesa d'ancien regime, si aggiunse una sterzata disciplinare non meno energica, che cominciò proprio dai vertici: mandò visite apostoliche (cioè ispezioni) a tutte le diocesi e ai seminari d'Italia, destituì numerosi vescovi, ripulì Roma dai preti sfaccendati che vi si erano imboscati, rispedendoli alle diocesi d'origine, fece del cardinalato un titolo di merito e non una promozione automatica per ruoli curiali o sedi ricoperte (durante il suo pontificato divenne cardinale il vescovo di Padova e non lo divenne mai l'arcivescovo di Firenze), ridimensionò e scavalcò la Curia romana, di cui diffidava, governando la Chiesa attraverso la sua segreteria personale.
Sotto la bonomia veneta e le frequenti battute in dialetto si nascondevano insomma un carattere di ferro e una volontà indomita, che seppero sempre tenere a bada opposizioni e resistenze, molte più forti di quanto non appaia dalla sovrabbondante letteratura agiografica fiorita dopo la sua morte. La vicenda modernista - sulla quale, come dicevo all'inizio, si è prevalentemente soffermata la storiografia recente - pose per la prima volta con forza il problema del rapporto culturale fra la Chiesae la modernità, che sarà poi al centro di tutti i pontificati novecenteschi. Il Papa lo risolse a suo modo: con un pesante, probabilmente eccessivo, irrigidimento disciplinare. E, infatti, la questione, sopita allora, si è riproposta con forza dopo il Vaticano II.
Ma la discussa, e certamente discutibile, repressione del modernismo non può diventare l'unico metro di giudizio di un pontificato e di un uomo che impose alla Chiesa una brusca e salutare sterzata, rendendosi credibile con l'austerità della vita, la disarmante trasparenza, il totale disinteresse, opportunamente riproposti da questo libro, che ha il merito di ricordare a biografi e studiosi come la dimensione umana di Giuseppe Sarto sia un'imprescindibile chiave interpretativa anche del sommo Pontefice che volle chiamarsi Pio X.