La vita è un pronto soccorso (e i libri di Chesterton servono a tenere sollevata la testa: letteralmente e metaforicamente), di Annalisa Teggi
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Annalisa Teggi pubblicato il 18/7/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (28/7/2013)
La saggezza deve pur fare i conti con l’imprevisto (da La croce azzurra, in Il candore di Padre Brown)
Aprendo la mail qualche giorno fa, ne ho vista una il cui oggetto aveva per titolo Chesterton e pronto soccorso; d’istinto ho pensato che fosse uscito un nuovo saggio su Chesterton e che qualcuno avesse avuto davvero una gran bella idea nello scegliere il titolo. Invece, proveniva da una lettrice, divenuta amica, che ho conosciuto grazie a questo blog, che mi raccontava la lieta notizia di essere stata finalmente assunta come medico e che il reparto in cui si trovava a lavorare era il Pronto Soccorso. Un reparto d’emergenza per chi ci arriva, ma non meno per chi ci lavora.
A questa mail ha fatto seguito un’altra dal titolo ancora migliore Chesterton sotto la testa … e dentro il cuore?. Oltre a consigliare alla lettrice/amica in questione di non escludere una carriera letteraria, condivido il contenuto di questa storia di ordinaria emergenza che mi ha raccontato … e che comincia, come nei migliori copioni di Grey’s Anatomy o ER, con una dottoressa stanca che ha finito il turno di notte.
«Cara Annalisa, voglio raccontarti brevemente la giornata di ieri quando ho smontato il turno e finalmente dopo 32 ore sono andata a dormire. L’altra sera avevo il turno di notte e lungo l’autostrada, andando al lavoro, sentivo riemergere le mie tenebre interiori, cioè le mie paure: “Non sei adatta al pronto soccorso, ma chi te lo fa fare che sei lontana dai tuoi” etc. etc. Poi, grazie a Dio, la notte è stata piena di lavoro senza tregua e ho avuto a che fare con pazienti vivi ed in discrete condizioni e questo è quello che conta sempre per me. La mattina dopo, ho fatto un sonnellino in autogrill e shopping di DVD; sono arrivata a casa e ho pranzato guardando Titanic: mentre sgranocchiavo frutta secca, sento un dolore a un dente e “crunch”…mi ero mangiato un pezzo di dente ed anche ingoiato (genio che sono)….sento subito la dentista e programmo appuntamento per oggi, ma poi mi dico perché aspettare? La richiamo e fisso per il giorno stesso, cioè ieri. Ero stanca, zero sonno, ma ho rimesso i vestiti da “borghese” e mi son messa in strada e di corsa…camminavo correndo e a un certo punto sento un “crunch”, ma ben più forte del mio dente … delle grida… e una donna a terra; mi avvicino e cerco d’aiutarla: la faccio distendere e tanti astanti cominciano a dare i loro consigli …tipo il tizio che la vuol farla bere (e lo scaccio) etc etc…
Ad un certo punto perde conoscenza (ed io perdo…”il controllo degli sfinteri” perché non avevo con me nessuno strumento) la chiamo, poi dico di sollevare le gambe e si riprende. Mi rendo conto che una ragazza le stava iperestendendo il collo e dico (pur vedendo la sua espressione contrariata) di no, che non va bene perché il collo va tenuto in asse ed allora estraggo dalla borsa il libro che avevo portato via con me ed è di Chesterton Il candore di padre Brown e glielo metto sotto la testa, giusto per non lasciarla proprio sopra i sampietrini che già le avevano causato la caduta. Ero lì che tenevo il polso della paziente e c’era un mio neurone che pensava: “No, non va bene neppure così, ma forse quel detto di Chesterton sul fatto che l’importante è fare le cose, anche se non perfettamente, forse va bene anche così”. Poi è arrivata l’ambulanza e la paziente era stabile, e grazie a Dio sono pure arrivata anche in tempo dalla dentista!
Dopo questo fatto ne ho discusso con un’amica psicologa e le dicevo della mia paura di perdere i pazienti e della paura della morte, lì al Pronto Soccorso, e dicevo che sospettavo che tutta questa ansia fosse per il mio orgoglio e moralismo e sindrome da perfezionismo e lei mi confermava la Bellezza di quella frase di Chesterton. Che ne dici?».
La frase a cui la lettrice/amica (che desidera restare anonima) si riferisce è uno degli aforismi più celebri di Chesterton: «se vale la pena fare una cosa, vale la pena farla male». In inglese il corrispettivo di «male» è badly e io da un po’ di tempo sospetto che il genio funambolesco del signor Chesterton abbia giocato con tutti i sensi che questa parola ha in inglese: non significa solo «male», ma in certi contesti anche «intensamente», qualcosa di simile a quello che in italiano noi intendiamo dicendo frasi del tipo «mi è piaciuto di brutto». Ed è vero che se vale la pena fare una cosa vale la pena farla male e di brutto; perché la vita non è una scrivania comoda su cui c’è l’agenda ordinata delle attività quotidiane programmate da svolgere. È più un pronto soccorso, nel senso che devi essere «pronto» (c’è bisogno di te) e devi «soccorrere» (non solo correre, ma proprio correre sotto, piegare la schiena e via).
«Un’avventura è solo un incidente considerato nel modo giusto; un incidente è solo un’avventura considerata nel modo sbagliato», ho pensato a queste parole di Chesterton mentre, leggendo la mail, mi immaginavo la mia amica in mezzo alla strada (senza strumenti idonei, il dente che duole, gli occhi che cadono dal sonno e i disturbatori di turno che danno fastidio) a soccorrere una donna svenuta, mettendole il libro di Padre Brown sotto la testa.
Non era l’eccellente intreccio costruito dallo sceneggiatore di Grey’s Anatomy. È la quotidiana trama di tutti. Ci siamo e facciamo; quasi mai siamo al meglio, quasi sempre più la cosa da fare è importante meno siamo preparati nel momento in cui ci troviamo a farla. Sarebbe bello – in senso metaforico – essere sempre dei medici in ambulatorio: col camice giusto, nel posto attrezzato adeguatamente. Allora sì che ci sentiremmo bravi.
Invece il più delle volte siamo e basta. Come la mia amica dottoressa, il più delle volte siamo in borghese a fare quel che vale la pena fare. E tanto meglio così. Dare agli eventi il nome di avventure anziché di incidenti non significa metterci quel tocco di esotico per “abbellirle”, significa – di tanto in tanto, quando ce ne ricordiamo – guardarci presenti nel fare le cose.
PS: credo che nessuno più del signor Chesterton sarebbe stato entusiasta nell’ascoltare questo episodio; e avrebbe anche fatto una qualche strepitosa battuta sul fatto che i suoi libri servono davvero a qualcosa. Quel libro sotto la testa forse non era uno strumento perfetto parlando in termini strettamente medici, ma in molti altri sensi è decisamente una delle migliori cose che conosca per sostenere la testa.