Alla morte del bibliotecario ebreo Salomone Morpurgo il fascismo impose il silenzio sulla stampa. Ma chi informò il giornale vaticano?, di Roberto Pertici
Riprendiamo da L’Osservatore Romano dell'11/7/2013 un articolo scritto da Roberto Pertici. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (11/8/2013)
Salomone Morpurgo fu uno dei maggiori bibliotecari italiani della sua generazione (concluse la sua carriera alla fine del 1923 come direttore della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze). Ma era stato anche uno dei primi esponenti dell'irredentismo triestino, fin da quando, a diciassette anni, aveva lasciato la città giuliana con l'amico Albino Zenatti per venire a studiare a Roma: correva l'anno 1877.
Negli ambienti studenteschi della capitale, entrò nel giro dei giovani seguaci di Giosuè Carducci, appassionati ricercatori ed editori di testi italiani dei primi secoli: tra questi Edoardo Scarfoglio, Giulio Salvadori e Gabriele D'Annunzio. Lo scoppio della guerra europea nell'estate del 1914 aveva riacceso la sua passione politica: naturalmente si era dichiarato interventista e aveva stretto legami di stima e di amicizia con Cesare Battisti, di cui organizzò il comizio fiorentino del 20 ottobre 1914. E in guerra aveva perduto il figlio Giacomo, partito volontario e caduto alla Busa Alta in Val di Fiemme il 6 ottobre 1916.
Il suo risentito nazionalismo emerge in un episodio narrato nell'autobiografia dello storico tedesco Karl Julius Beloch, suo maestro a Roma dopo il 1879, che durante la grande guerra era rimasto in Italia (nel 1918 venne internato in Toscana): «Nel gran numero dei miei scolari ce ne sono naturalmente anche alcuni, che non mi hanno serbato fedeltà. Come l'ebreo triestino Salomone Morpurgo (...). Quando nell'estate del 1919, quindi già dopo la conclusione della pace, ero internato a Firenze, egli non si vergognò di impedire al suo antico maestro l'accesso alla Biblioteca Nazionale, di cui era direttore. Nonostante che durante la guerra tutte le biblioteche romane mi fossero rimaste aperte, egli giunse al punto di fare una circolare, con la quale si vietava a tutti i tedeschi l'accesso alle biblioteche». Fra i tanti che allora gli avevano voltato le spalle, non è casuale che l'antisemita Beloch cercasse di mettere in cattiva luce proprio l'ebreo Morpurgo: il grave gesto dell'allievo (ammesso che egli sia veramente responsabile di quella esclusione) si spiega d'altronde anche come reazione alle posizioni antisemite assunte ripetutamente da quel "maestro avverso".
Eppure, pur con questo passato di studioso e di patriota, quando Morpurgo morì a Firenze l'8 febbraio 1942, i giornali italiani non gli dedicarono neppure un rigo. Circolari del ministero della Cultura popolare e provvedimenti attuativi della legislazione razziale del 1938 impedivano la pubblicazione di necrologi e commemorazioni di ebrei su giornali e riviste. Solo Ernesta Bittanti, la vedova di Battisti, riuscì a scriverne qualcosa negli «Studi trentini di scienze storiche», una rivista di carattere prevalentemente locale: a lei, evidentemente, i funzionari del regime non potevano dire di no.
In questo assordante silenzio spicca perciò il breve ricordo che al bibliotecario triestino dedicò «L'Osservatore Romano» del 18 febbraio 1942, nelle «Cronache italiane» di quarta pagina, La morte dell'ex-Direttore della Nazionale di Firenze. «È spirato a Firenze il prof. Salomone Morpurgo. Da Trieste, dov’era nato il 17 novembre 1860 e dove ancora studente soffrì persecuzioni e carcere, si rifugiò giovanissimo in Italia; e all'Italia dedicò poi sempre il suo pensiero e la sua opera. Uscito dalla scuola del Carducci (fu anche libero docente all'Università di Bologna) acquistò singolare perizia negli studi di letteratura italiana dei primi secoli: come dimostrano le esemplari edizioni di testi, le eleganti ricerche di filologia, di storia del costume e di storia dell'arte e quel supplemento alle Opere volgari a stampa dello Zambrini [Bologna, Zanichelli, 1929] che è un prezioso repertorio critico delle fonti della antica letteratura. Molti altri lavori già condotti innanzi sacrificò al suo ufficio di bibliotecario; e come bibliotecario fu per dottrina e conoscenze tecniche uno dei più stimati in Europa. Diresse la Marciana di Venezia - di cui compì il trasporto e la sistemazione nel Palazzo della Zecca - e dal 1905 al 1923 la biblioteca Nazionale di Firenze, preparando gli studi per la nuova sede. Perdette un figlio, caduto in guerra».
Nella sua brevità, si trattava di uno scritto tutt'altro che banale. Non un dispaccio di agenzia (come s'è visto, per un ebreo non erano possibili), ma un breve profilo che raccoglieva una serie di informazioni di prima mano, tutte piuttosto puntuali: non potevano giungere che da qualcuno appartenente al mondo degli studi e magari dallo stesso ambiente di Morpurgo. Se ne ricordavano le benemerenze di studioso e di bibliotecario, ma soprattutto l'intenso patriottismo, il precoce irredentismo e la perdita in guerra del figlio ventenne: come dire che l'ebraismo italiano non era stato secondo a nessuno per attaccamento all'Italia e per i sacrifici (anche estremi) compiuti in suo nome.
Chi aveva informato l'Osservatore della morte di Morpurgo, passata totalmente sotto silenzio, fornendo le informazioni? Si possono fare solo delle ipotesi, che tuttavia non risultano oziose, perché ci introducono nell'importante reticolo di relazioni che si sviluppava intorno al quotidiano vaticano negli anni di guerra.
Dal 5 febbraio 1941 appariva con una certa assiduità sulla sua terza pagina un nuovo collaboratore, che si firmava Giulio Augusti. Ma inutilmente i lettori, magari incuriositi dalla sua dottrina e dalla qualità della sua scrittura, ne avrebbero cercato notizie in repertori e schedari di biblioteca. Si trattava infatti di uno pseudonimo, dietro a cui era costretto a celarsi il noto storico della letteratura italiana Giulio Augusto Levi, da quando le leggi razziali del 1938 lo avevano privato della cattedra al liceo ginnasio Galileo di Firenze e della possibilità di pubblicare col proprio nome.
Il torinese Levi, allievo all'università di Torino di Gaetano De Sanctis e di Arturo Graf, fu forse il massimo "leopardista" dei suoi anni. Fra l'altro, i suoi commenti leopardiani hanno goduto di una fortuna singolare nella spiritualità cattolica del secolo scorso, anche per l'impatto prodotto nel pensiero e nella sensibilità di don Luigi Giussani. Nel 1926 Levi si era infatti convertito al cattolicesimo: una decisione maturata nel confronto assiduo con l'amico Orazio Marrucchi, studioso di mistica e animatore del «Bollettino filosofico» di Firenze. Dopo di allora, aveva iniziato a collaborare anche a riviste d'area cattolica e il suo nome aveva fatto una prima, fugace apparizione sull’Osservatore del 1° agosto 1936, con una recensione al celebre libro di Ettore Bignone sull’Aristotele perduto. Dopo il 1938, aveva cominciato a firmarsi come Giulio Augusti su «Azione fucina» e poi sull'Osservatore, come Christophilus su «Studium» e «Vita cristiana».
Ciò nonostante non aveva perduto i contatti col suo vecchio mondo. Haydée Sacerdoti, la moglie del grande italianista Attilio Momigliano, era solita non ricevere più nella sua casa fiorentina gli ebrei convertiti. Ma per lui fece un'eccezione, «persuasa - scrive nelle sue memorie Francesco Rodolico - che solo il più assoluto candore, il più assoluto disinteresse potevano averlo spinto all'alto passo». È possibile che da Firenze sia stato proprio Levi a dare la notizia della morte di Morpurgo al direttore Dalla Torre e ai suoi collaboratori e a fornire le notizie principali della sua vita, sulle quali fu poi basato l'articoletto.
Ma è possibile che l'iniziativa sia invece partita all'interno della Biblioteca Vaticana. Qui dal giugno del 1939 lavorava Anna Maria Enriques, una giovane ebrea fiorentina anch'essa convertita al cattolicesimo (era sorella del futuro senatore della Repubblica, Enzo Enriques Agnoletti). Archivista di Stato a Firenze, era stata allontanata dall'impiego per le leggi razziali e quindi assunta alla Vaticana per l'interessamento di Giorgio La Pira e di monsignor Montini: qui stava lavorando al riordino delle carte del Capitolo di San Pietro.
Continuava una tradizione di presenza ebraica nella Biblioteca, con la quale per tutti gli anni Trenta avevano collaborato Giorgio Levi Della Vida, entrato il 16 novembre 1931, cioè subito dopo la perdita della cattedra universitaria per il mancato giuramento di fedeltà al regime, e, dal gennaio 1933, Umberto Cassuto, dottissimo nella scienza biblica, già rabbino capo a Firenze e poi professore all'università di Roma. Nel 1939 Cassuto si sarebbe trasferito a Gerusalemme e Levi Della Vida negli Stati Uniti; Giulio Augusto Levi, dopo l'8 settembre, trovò salvezza con la famiglia nel convento delle francescane di Quadalto in provincia di Firenze (sulla vicenda il nostro giornale ha pubblicato un informato articolo di Giovanni Preziosi il 26-27 novembre 2012); Anna Maria Enriques, che aveva incontrato alla Vaticana un altro bibliotecario, Gerardo Bruni, e il suo gruppo dei cristiano-sociali, lasciò Roma per partecipare alla Resistenza in Toscana (sarebbe stata fucilata dai nazisti il 12 giugno 1944).
Ma nella stessa Biblioteca lavorava anche Nello Vian, che da tempo portava avanti minute ricerche attorno alla figura di Giulio Salvadori, suo maestro alla Cattolica nei tardi anni Venti. Ne stava in particolare raccogliendo l'epistolario, che sarebbe stato pubblicato in una prima edizione alla fine della guerra per le cure sue e di Pietro Paolo Trompeo. E, come si è detto, Morpurgo era stato amico della giovinezza carducciana e "bizantina" di Salvadori. Nel luglio 1939, Guido Stendardo aveva pubblicato sulla «Nuova antologia» una giocosa ode barbara del diciannovenne D'Annunzio, che fermava la scena del suo compleanno: intorno al tavolo erano, con il poeta, «Scarfoglietto», il «barbuto» Morpurgo, il «roseo» Zenatti e Salvadori, che sorride e muove «la germanica barbetta».
Insomma la proposta di ricordare il bibliotecario ebreo, anche per rompere il silenzio della stampa italiana, può essere stata avanzata da diverse personalità che ruotavano intorno all'Osservatore (di Vian vi erano comparsi alcuni articoli su Salvadori già durante il 1941). Ma certo la decisione di pubblicarlo rispose a una scelta in qualche modo "politica" di più ampio respiro. Nei suoi ultimi anni, Vittore Branca ebbe più volte a ricordare come quello vaticano fosse stato negli anni di guerra «l'unico quotidiano che desse voce agli uomini di cultura non asserviti al Regime: dagli ebrei [il caso di Giulio Augusto Levi lo conferma] e dagli universitari che non avevano voluto prestare il giuramento imposto dal Duce fino ai giovani che non si erano piegati neppure ai Littoriali e ai Guf e alle ostensioni liberali di Bottai e del suo Primato». Fra questi, erano Fausto Montanari e lo stesso Branca, che aveva preso a scrivere su «L'Osservatore Romano» nel gennaio 1942 su richiesta di Guido Gonella e di Montini. È un'indicazione di ricerca che merita di essere verificata e approfondita.