Senza radici e senza eredità. È la società degli “sradicati”. E lo si vede dai nomi che diamo ai nostri figli. Un’intervista al linguista Giovanni Gobber di Elisabetta Longo
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi Un’intervista al linguista Giovanni Gobber di Elisabetta Longo pubblicata l’11/7/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (14/7/2013)
Nathan Falco, Chanel, Peaches, Apple, Dakota. Sono alcuni dei nomi scelti da personaggi pubblici o semicelebrità per i propri figli. L’ultimo in ordine di tempo è North, così si chiamerà il figlio di Kim Kardashian e Kanye West. Il piccolo avrà così scritto sulla carta d’identità North West, Nord Ovest in italiano. Insomma, il nome – ciò che ci identifica nel mondo, la prima eredità consegnataci dai nostri genitori – diventa orpello esotico, puro suono, quasi claim pubblicitario. Così va il mondo? Ne abbiamo parlato con il professor Giovanni Gobber, ordinario di Linguistica all’Università Cattolica di Milano.
Come mai questa moda di dare ai bambini nomi strani?
In fondo è sempre stato così con i nomi, abbiamo sempre assistito a ondate di moda. C’è stata quella dei santi, degli evangelisti, di esseri mitologici, di rivoluzionari. Oggi siamo scesi un po’ più in basso, diciamo. Non siamo ancora arrivati a chiamare qualcuno “pasta” o “pizza”, ma forse poco ci manca. Forse è anche frutto di una corrente di pensiero che teorizza che tutte le cose abbiano un’anima. Che è come dare al gatto un nome umano e viceversa. O chiamare il proprio figlio “Oceano”. Perché allora non “pioggia” o “deserto”?
Non conta più la tradizione?
La tradizione, religiosa o laica che sia, ha molta meno importanza. La sensibilità per il fatto storico in sé è diminuita molto, c’è molto più interesse per quello che è esotico, che è lontano geograficamente, per questo si vanno a scegliere nomi stranieri, magari poi redatti in maniera sbagliata, di cui neppure si conosce il significato esatto, è solo puro suono. Non si percepiscono più le differenze, per cui è uguale dare il nome di una persona a un pesciolino o a un essere umano. È un minestrone generale frutto del postmoderno.
Una volta, al contrario, i bambini venivano chiamati come i nonni.
Allora era diverso. Si prendevano i nomi di altri familiari, di avi, perché c’era un concetto di famiglia. Ora il concetto di famiglia è sparito. Si danno nomi che non hanno legami con il resto, si cerca di produrre un nuovo contesto. Il contesto degli sradicati, dei senza contesto, di quelli che non hanno appartenenza. È un nuovo gruppo sociale.
Eppure si “appartiene” sempre ai propri genitori.
Non avere appartenenza viene quasi considerato positivo. C’è stata la cancellazione della storia, dei rapporti storici in cui ognuno di noi viene a contatto, ognuno riceve un’eredità e a ciascuno viene trasmesso qualcosa. L’appartenenza viene addirittura considerata come una violenza al libero arbitrio, e nel dare un nome non impegnativo non ci si rende conto che si assegna un nome addirittura cretino.
Secondo lei non viene più nemmeno spontaneo chiedersi “che significato ha il mio nome”?
Una volta forse c’era questo interesse, ma ormai il nome è pura referenzialità, semplice bisogno di individuare l’essere umano e appellarlo in qualche modo. Oggi è solo semplice casualità.