L’ultima grande lezione di un professore sul declino dell’Italia e della sua Letteratura. Cesare De Michelis, docente all’università di Padova, lascia la cattedra con una lezione che ripercorre le storia dell’ultimo secolo delle nostre lettere
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi (che lo riprendeva a sua volta dall’Osservatore Romano) un testo del prof. Cesare De Michelis pubblicato il 22/6/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (28/7/2013)
Articolo tratto dall’Osservatore Romano - Una vita intera al servizio dell’editoria libraria e dello studio della letteratura: Cesare De Michelis, classe 1943, presidente della Marsilio, lascia il mondo accademico. Pubblichiamo alcuni passaggi della sua ultima lezione da docente di Letteratura italiana all’università di Padova.
La letteratura dell’Italia unita non fu mai all’altezza del suo glorioso passato e tanto meno del suo inquietante presente: lamentosa e meschina, compianse i miseri, i malati, gli infelici, o maledisse il cambiamento che, strappando i pescatori al mare o i contadini alle terre, illudeva gli umili che il loro destino non fosse più quello di sempre; oppure si perse in racconti stralunati e angosciosi che si confrontavano col mondo nuovo, ma in fretta, come se ne avessero in fondo paura. Il moderno stava compiendo la sua rivoluzionaria missione di travolgere il mondo degli uomini per andare oltre, in un altrove sconosciuto, dove, a patto di abbandonare tradizioni, costumi, pensieri e ideali, tutti sarebbero diventati felici e contenti.
Il prezzo, ormai lo si era imparato, sarebbe stato far piazza pulita di tutto quel che si aveva, letteralmente azzerandolo e “annientandolo”, a cominciare dall’umanesimo, religione compresa (tanto anche Dio ormai era dato per “morto”), per compiere una totale e definitiva rivoluzione, dopo la quale si sarebbe istituito l’“ordine nuovo” che non avrebbe più avuto bisogno né di storia, né di storie o romanzi.
La cultura della modernità si impose con le sue pratiche corrosive e demolitorie, irridendo le forme della tradizione, i suoi buoni sentimenti, le sue intenzioni consolatorie e moraleggianti, il suo insopportabile buon senso, smontandone gli artificiosi meccanismi, le supponenti retoriche, il linguaggio scolastico o solenne: tutto il bene era di fronte a noi, all’orizzonte, dove presto sarebbe sorto il sole dell’avvenire, mentre alle spalle restavano solo le insignificanti rovine del passato; bisognava solo affrettarsi per raggiungere al più presto la meta, correre all’“avanguardia” perché conveniva essere i primi. È quanto si fece e, poiché alla fin fine si trattava di affrontare una guerra, anche il linguaggio della letteratura si adeguò a quello consolidato delle armi: le idee combattevano una “battaglia”, i letterati divennero “militanti”, i gruppi più coraggiosi e spregiudicati si chiamarono “avanguardie”, e nessuno si avventurò più da solo, ci si riunì in gruppi o riviste, affidando a un “manifesto” firmato da tutti, anche da chi non ne aveva scritto neppure una riga, il proprio pensiero, le proprie idee o ideologie.
Le opere si rivelavano effimere, smarrendo ogni significato che non fosse provocatoriamente metaletterario, oppure oscuramente implicito, spesso inespresso; l’autore, piuttosto che la creazione dell’opera, rivendicava per sé il primato dell’invenzione o dell’idea; il lettore dal testo non riceveva informazioni e tanto meno aveva occasione di svago o intrattenimento, diventava piuttosto un complice, un commilitone, un “compagno di strada”; persino il pubblico in tanto frenetico daffare si disperdeva, anch’esso irriso e maledetto come il sistema di cui faceva parte. Il lungo cammino della modernità si era compiuto e le humanae litterae, la letteratura dell’uomo e dell’umanesimo, avevano dovuto soccombere; come tutte le avventure della storia erano giunte al termine.
Naturalmente, di fronte a questa catastrofe, a lungo sopravviverà l’illusione che si trattasse soltanto di una “crisi”, di un’altra crisi, come tante c’è n’erano già state, dalla quale si sarebbe potuto nuovamente riprendersi per ricominciare. Poi la guerra — quella vera, tragica, cruenta, mostruosa — scoppiò davvero, “grande” come non mai, “mondiale” addirittura, e sembrò non finire più: durò oltre trent’anni, sempre annunciando e promuovendo “rivoluzioni” più terribili e definitive, sino alla “soluzione finale” che spezzava il cuore e toglieva il respiro, o alla bomba atomica, conclusivo trionfo della scienza che si rivelava capace di uccidere non solo nel presente ma persino nel futuro, non solo una vita o molte vite, ma tutta la vita.
Quando la mia generazione venne al mondo, tutto questo era accaduto e la società si affannava per ricominciare da capo, convincendosi che la tragedia era finita e si poteva tornare a sognare: la prima metà del Novecento con la sua interminabile guerra fu messa prudentemente tra parentesi, sforzandosi di credere che si poteva fare come se non ci fosse stata, e le parole della speranza furono quelle del ricominciamento, da “rinascita” a “secondo risorgimento”, alla più banale “ricostruzione”, e anche nel caso della letteratura ci si convinse che la fine era stata annunciata troppo presto; c’erano talmente tante cose straordinarie e terribili da raccontare che non valeva la pena riprendere le antiche polemiche con la tradizione per sbarazzarsene; prima di tutto venivano l’esperienza e la verità, o più semplicemente la “realtà”, e poi, scaramanticamente, per dimenticare il disumano annientamento degli uomini si provò a resuscitare l’umanesimo, un nuovo umanesimo che rimettesse al centro la persona e la vita.
La stagione del neorealismo e del nuovo umanesimo fu breve, esattamente come la durata della pace nel mondo: già negli anni Cinquanta la guerra era solo apparentemente “fredda”, perché tenuta a forza lontana dall’Occidente, e la rivoluzione e le avanguardie tornavano all’assalto, provando a riguadagnare il terreno che avevano intanto perduto; le scienze poi si impadronivano di ogni campo che si era sino a quel momento loro sottratto, portando a termine quella conquista iniziata insieme al secolo, diventando “sociali” e anche “umane”, cosicché della letteratura ci si convinse di non avere davvero bisogno, svuotata com’era di ogni funzione e significato, e umilmente essa si rassegnò a farsi da parte, accettando una sopravvivenza servile ed effimera, destinata quasi esclusivamente all’intrattenimento e al consumo.
La nostra storia di studiosi, durante mezzo secolo, ha accompagnato questo declino, cercando di alleviarne la pena con la segreta speranza che il destino non fosse segnato; qualche spregiudicato tentativo di trovare un compromesso con le nuove scienze illuse, e per poco, soltanto chi lo aveva proposto. Così al passaggio di millennio ci presentammo eredi di una tradizione smorta e avvilita che aveva visto il suo ruolo nel percorso formativo diventare specialistico e marginale e la sua forza morale perdere progressivamente coraggio ed energia, cosicché dinnanzi alla “crisi” che improvvisamente si manifestò nel secolo nuovo — le Twin Towers,la Lehman Brothers, il default — arrivammo disarmati e impotenti, ripetendo le analisi e le considerazioni di sempre come se a essa fossimo preparati dalle molte lezioni della storia e si potessero riproporre i consueti rimedi e le medesime consolazioni.
Invece no; questa volta, come in poche altre occasioni alle nostre spalle, siamo di fronte a una svolta, a un’autentica “metamorfosi”, a una vera e propria soluzione” di continuità, che investe non solo la letteratura, ma tutt’intera la società e la sua “civiltà” nell’epoca della globalizzazione, e impone risposte all’altezza, spregiudicatamente “restaurative”, nel senso, cioè, di un rinnovamento della tradizione nel tempo della discontinuità, di un imprevedibile nuovo “rinascimento” che impegnerà a lungo tutte le nostre, le vostre, risorse disponibili.