Itinerari vocazionali nelle chiese dei Santi di Roma (da Sant'Agostino a San Gaspare del Bufalo, passando per San Francesco d'Assisi, Santa Caterina da Siena, San Filippo Neri, Sant'Ignazio di Loyola, Santa Teresa di Lisieux, San Luigi Gonzaga e San Giovanni Berchmans): gli itinerari proposti in occasione del pellegrinaggio dei seminaristi, dei novizi e delle novizie a Roma nell'Anno della fede
Mettiamo a disposizione sul nostro sito la sezione dedicata agli itinerari proposti in occasione del pellegrinaggio dei seminaristi, dei novizi e delle novizie a Roma per l'Anno della fede (4-7 luglio 2013). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (30/6/2013)
Indice
- I/ La fede che è la vera storia del cuore in Sant'Agostino
- II/ La fede nel ministero ordinato in San Francesco d'Assisi
- III/ La fede che resiste alla tempesta in Santa Caterina da Siena
- IV/ La fede celebrata nella Confessione e nell'animazione dell'Oratorio in San Filippo Neri
- V/ La fede che discerne gli spiriti ed entra nella cultura in Sant'Ignazio
- VI/ La fede che illumina la vocazione in San Luigi Gonzaga guidato da San Roberto Bellarmino e San Giovanni Berchmans
- VII/ La fede che proclama la bellezza di Cristo nel mondo in San Gaspare del Bufalo
- VIII/ La fede che rende bambini e figli in Santa Teresa di Lisieux
I/ La fede che è la vera storia del cuore in Sant'Agostino
Sant'Agostino – Piazza di Sant’Agostino
1/ Sant’Agostino e Roma
Agostino giunse a Roma da Cartagine, l'odierna Tunisi, nell'anno 383, quando aveva circa 29 anni, per fare carriera come retore. Abbandonò l’Africa perché, come egli stesso scrisse, i suoi studenti non avevano alcun rispetto della disciplina e degli insegnanti e la scuola non riusciva pertanto ad essere formativa: sperava di trovare un’atmosfera diversa nella capitale.
Nell'urbe, invece, incontrò un diverso problema scolastico. Gli studenti, in prossimità della fine dell'anno, si ritiravano e passavano ad un nuovo insegnante per esimersi dal pagare i compensi del docente che li aveva accompagnati nel corso dell'anno.
Che la situazione culturale di Roma fosse scadente è testimoniato anche da uno storico, Ammiano Marcellino: egli ricorda come a Roma le biblioteche sembrassero “chiuse come le tombe” e riferisce il fatto che, nei momenti di recessione economica, si preferiva licenziare “gli insegnanti delle arti liberali” e trattenere 3000 danzatrici per i propri divertimenti - la situazione non sembra diversa da quanto anche oggi avviene in merito ai bilanci delle TV nazionali ed, in genere, delle spese per attività culturali, dove l'intrattenimento la fa da padrone!
Le Confessioni raccontano della forza di seduzione che avevano ancora i giochi del circo, quando riferiscono che Alipio, l'amico che proprio Agostino aveva sottratto a Cartagine al fascino dei giochi dei gladiatori, arrivato a Roma poco prima del suo maestro si era lasciato nuovamente trascinare dall'ebbrezza degli spettacoli cruenti del Colosseo. A Roma, infine, Agostino fu spinto a cercare i favori del senatore Simmaco - oppositore di Sant’Ambrogio - per farsi trasferire a Milano come professore di retorica, perché l’urbe non gli permetteva quella promozione professionale che si era aspettato.
Agostino tornò nuovamente a Roma a trentatré anni circa, nel 387, pochi mesi dopo il suo battesimo, sulla via del ritorno in Africa. Doveva ormai imbarcarsi con i suoi amici, divenuti tutti cristiani, per ritirarsi a vita monastica a Tagaste. Ma i porti erano bloccati dall'usurpatore Massimo che si era ribellato all'imperatore Teodosio.
In attesa della partenza, Agostino abitò per diversi mesi ad Ostia, dove morì la madre Monica.
Morta la madre, Agostino da Ostia si trasferì nell'urbe fino alla metà del 388, quando finalmente poté imbarcarsi e raggiungere di nuovo Cartagine e poi Tagaste. In questo secondo periodo romano Agostino, ormai pienamente cristiano, visitò certamente le grandi basiliche che esistevano già dai tempi di Costantino: San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme e San Pietro - ma non vi è dubbio che si sia recato in esse già nei mesi della sua prima permanenza in Roma.
Lo si può immaginare mentre passeggia per le vie della Roma imperiale, prima in compagnia di Simmaco e dei manichei, poi con i cristiani di Roma. Visitando gli scavi di Ostia antica, infine, si può immaginare l’ultimo dialogo fra Agostino e la madre: il corpo di Monica riposa ora nella chiesa di Sant’Agostino, vicino piazza Navona.
2/ Sant’Agostino maestro di fede
A Roma il padre spirituale di Agostino, il prete Simpliciano, fu testimone della conversione del filosofo pagano Mario Vittorino. Raccontandoci l’episodio, nelle Confessioni, Agostino sottolinea come la professione del Simbolo della fede venisse fatta pubblicamente dai catecumeni e come Vittorino - così come sarebbe avvenuto poi per lui stesso - scoprì che divenire cristiani, se non era abiurare certamente all’intelligenza dei dotti, era però, al contempo, scegliere di entrare nella sapienza dei semplici, in quella fede chela Chiesa intera professava e che era la verità dei dotti come degli ignoranti:
«[Vittorino] possedeva una vasta dottrina ed esperienza in tutte le discipline liberali, aveva letto e meditato un numero straordinario di filosofi, era stato maestro di moltissimi nobili senatori... Fino a quell'età aveva venerato gli idoli e partecipato ai sacrifici sacrileghi, da cui la nobiltà romana di allora quasi tutta invasata, delirava per il figlio poppante di Osiride e per mostri divini di ogni genere e per Anubi, il cane divino che abbaia... Eppure non arrossì di farsi fanciullo del tuo Cristo e anzi infante del tuo fonte battesimale, di sottoporre il collo al giogo dell'umiltà, di chinare la fronte al disonore della croce.
O Signore... in che modo ti sei insinuato in quel cuore? A detta di Simpliciano, leggeva la Sacra Scrittura, e scrutava e studiava con la massima diligenza tutti i testi cristiani. Diceva a Simpliciano, non in pubblico, ma in gran segreto e confidenzialmente: “Devi sapere che sono ormai cristiano”. L'altro gli replicava: “Non lo crederò né ti considererò nel numero dei cristiani finché non ti avrò visto nella chiesa di Cristo”. Egli domandava allora sorridendo: “Sono dunque i muri a fare i cristiani?”. E lo affermava spesso di essere ormai cristiano e Simpliciano replicava sempre a quel modo ed egli sempre ripeteva quel suo motto scherzoso sui muri della chiesa. In realtà aveva paura di spiacere ai suoi amici... Ma quando dalle letture piene di desiderio attinse una ferma risoluzione, ebbe paura di essere rinnegato da Cristo davanti agli angeli santi, se si fosse vergognato di riconoscerlo davanti agli uomini e si sentì colpevole di un grave delitto perché si vergognava dei sacri misteri del tuo umile Verbo, mentre non si vergognava dei sacrilegi di demoni superbi, che aveva superbamente accettati e imitati. Si vergognò allora del suo vero errore e arrossì della verità e, all’improvviso e di sorpresa disse all'amico: “Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano”. Simpliciano, fuori di sé per la gioia, ve lo accompagnò senz'altro. Là fu istruito sui primi misteri...
Infine venne il momento della professione di fede. A Roma chi si accosta alla tua grazia professa una formula fissa imparata a memoria da un luogo elevato, davanti alla massa dei fedeli. Però i preti proposero a Vittorino di emettere la sua professione in forma privata, licenza che si usava accordare a chi si pensava fosse troppo timido o emotivo. Ma Vittorino preferì professare la sua salvezza di fronte alla santa assemblea. Da retore non insegnava la salvezza, eppure aveva professato la retorica pubblicamente; dunque tanto meno doveva vergognarsi del tuo gregge mansueto... Così, quando salì a recitare la formula, tutti i presenti scandirono fragorosamente in segno di approvazione il suo nome, facendo eco gli uni agli altri, secondo come lo conoscevano... Risuonò dunque di bocca in bocca nella letizia generale un grido composto: “Vittorino, Vittorino”. E come subito gridarono gioiosi al vederlo, così immediatamente tacquero per udirlo. Egli recitò la sua professione della vera fede con sicurezza straordinaria. Tutti avrebbero voluto portarselo via dentro al proprio cuore, e ognuno davvero se lo portò via con le mani desiderose dell'amore e della gioia».
Nel racconto della morte della madre Monica, così come nella Lettera a Proba, matrona che aveva vissuto nella zona ora occupata dalla scalinata di Trinità dei Monti prima di fuggire in Africa all’arrivo dei barbari, così come in tanti altri scritti, Agostino testimonia che la fede cristiana è vera gioia, poiché non esiste gioia che non tocchi il cuore, e che tale gioia è grazia ricevuta in dono e non conquista umana, come scrive nel Commento a Giovanni:
«“Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre” (Gv 6,44). Non pensare di essere attirato contro la tua volontà: l’anima è attirata anche dall’amore. Né dobbiamo temere di essere criticati... da quanti stanno a pesare le parole, ma sono del tutto incapaci di comprendere le cose divine. Costoro potrebbero obiettarci: Come posso ammettere che la mia fede sia un atto libero, se vengo trascinato? Rispondo: Non ci dobbiamo meravigliare che sentiamo una forza di attrazione sulla volontà. Anche il piacere ha una forza di attrazione.
Che significa essere attratti dal piacere? “Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Sal 36,4). Esiste dunque una certa delizia del cuore, per cui esso gode di quel pane celeste. Il poeta Virgilio poté affermare: Ciascuno è attratto dal proprio piacere. Non dunque dalla necessità, ma dal piacere, non dalla costrizione, ma dal diletto. Tanto più noi possiamo dire che viene attirato a Cristo l’uomo che trova la sua delizia nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, dal momento che proprio Cristo è tutto questo. Forse che i sensi del corpo hanno i loro piaceri e l'anima non dovrebbe averli? [...]
Dammi uno che ami, e capirà quello che sto dicendo. Dammi uno che arda di desiderio, uno che abbia fame, che si senta pellegrino e assetato in questo deserto, uno che sospiri alla fonte della patria eterna, dammi uno che sperimenti dentro di sé tutto questo ed egli capirà la mia affermazione. Se, invece, parlo ad un cuore freddo e insensibile, non potrà capire ciò che dico.
Tu mostri ad una pecora un ramoscello verde e te la tiri dietro. Mostri ad un fanciullo delle noci, ed egli viene attratto e là corre dove si sente attratto: è attirato dall'amore, è attirato senza subire costrizione fisica; è attirato dal vincolo che lega il cuore. Se, dunque, queste delizie e piaceri terreni, presentati ai loro amatori, esercitano su di loro una forte attrattiva - perché rimane sempre vero che ciascuno è attratto dal proprio piacere - come non sarà capace di attrarci Cristo, che ci viene rivelato dal Padre?».
II/ La fede nel ministero ordinato in San Francesco d'Assisi
San Giovanni in Laterano – Piazza S. Giovanni in Laterano
1/ San Francesco e Roma
Francesco venne più volte in pellegrinaggio a Roma. Già nel 1206, ancora laico, si recò a pregare sulla tomba di Pietro, in ricerca della propria vocazione, lasciò sulla sua tomba un'abbondante offerta e si mise poi a chiedere l'elemosina all'entrata della basilica. Vi tornò certamente nel 1209 con i suoi primi compagni quando ottenne dal papa Innocenzo II l’approvazione orale della sua regola che venne poi confermata in forma scritta nel 1223 da Innocenzo III. Il papa abitava allora presso San Giovanni in Laterano e Francesco lo incontrava presso il Sancta Sanctorum - certamente salì più volte in ginocchio la Scala Santa - o presso la stessa basilica e l’annesso chiostro che conserva ancora le forme medioevali. Era a Roma nel 1215 per incontrare San Domenico, forse presso Santa Sabina, al tempo del Concilio Lateranense IV e numerose altre volte per affari diversi. Romana era “frate” Jacopa de’ Settesoli, cui chiese in punto di morte dei dolci. Quando veniva a Roma risiedeva nel luogo che è divenuto ora la Chiesa di San Francesco a Ripa, che conserva ancora la camera del Santo.
Come ha detto Benedetto XVI, «viene spontanea qui una riflessione: Francesco avrebbe potuto anche non venire dal Papa. Molti gruppi e movimenti religiosi si andavano formando in quell’epoca, e alcuni di essi si contrapponevano alla Chiesa come istituzione, o per lo meno non cercavano la sua approvazione. Sicuramente un atteggiamento polemico verso la Gerarchia avrebbe procurato a Francesco non pochi seguaci. Invece egli pensò subito a mettere il cammino suo e dei suoi compagni nelle mani del Vescovo di Roma, il Successore di Pietro. Questo fatto rivela il suo autentico spirito ecclesiale. Il piccolo "noi" che aveva iniziato con i suoi primi frati lo concepì fin dall’inizio all’interno del grande "noi" della Chiesa una e universale. E il Papa questo riconobbe e apprezzò. Anche il Papa, infatti, da parte sua, avrebbe potuto non approvare il progetto di vita di Francesco. Anzi, possiamo ben immaginare che, tra i collaboratori di Innocenzo III, qualcuno lo abbia consigliato in tal senso, magari proprio temendo che quel gruppetto di frati assomigliasse ad altre aggregazioni ereticali e pauperiste del tempo. Invece il Romano Pontefice, ben informato dal Vescovo di Assisi e dal Cardinale Giovanni di San Paolo, seppe discernere l’iniziativa dello Spirito Santo e accolse, benedisse ed incoraggiò la nascente comunità dei "frati minori"» (dal discorso di Benedetto XVI nell’udienza ai membri della famiglia francescana partecipanti al “Capitolo delle Stuoie”, 18 aprile 2009).
2/ San Francesco d’Assisi maestro di fede
Tutto in Francesco viene illuminato dalla fede.
La sua vita risplende della fede nel Creatore, che gli fece scrivere i versi del Cantico delle creature, dove si loda Dio con le parole:
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature.
Nei suoi versi traspare con evidenza non l’amore per la natura, bensì molto più profondamente per la “creazione” di Dio. Del sole, ad esempio, dice:
et ellu è bellu... de Te, Altissimo, porta significatione.
Francesco non fu vegetariano ed anche nell’apprezzamento del cibo risplende in lui la lode della creazione.
Il Poverello volle anche commentare parola per parola il Padre nostro per l’immensa venerazione che aveva per questa preghiera, nel desiderio che tutti potessero amarla.
La fede di Francesco è, però, altrettanto rivolta a Gesù, Figlio di Dio: «portava sempre nel cuore Gesù. Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra… Anzi, trovandosi molte volte in viaggio e meditando o cantando Gesù, scordava di essere in viaggio e si fermava ad invitare tutte le creature alla lode di Gesù» (1 Cel., II, 9, 115).
Era certo che era stato Gesù a condurlo nel suo cammino, non tanto facendolo passare dal piacere al dovere, quanto piuttosto mostrandogli una gioia più piacevole e dolce, sebbene faticosa:
«Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo» (dal Testamento).
Per amore del Cristo volle assumere per sé e per i suoi la povertà come carisma, per assomigliare in questo al suo Signore. Ma seppe al contempo che questo non era l’unico carisma della Chiesa: fondò per questo il terz’Ordine francescano nel quale i laici potevano vivere il Vangelo pur conservando le loro proprietà e l’uso dei beni.
Visse pure in abbandono allo Spirito Santo che rende presente Cristo nella Chiesa. Insegnò, infatti, che non esiste fede nel Cristo che non sia al contempo fede nei Sacramenti della Chiesa e nella guida amorevole di Dio nel tempo:
«E il Signore mi dette tanta fede nelle chiese, che così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo. Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri. E dobbiamo onorare e rispettare tutti i teologi e coloro che annunciano la divina parola, così come coloro che ci danno lo spirito e la vita» (dal Testamento).
Conobbe anche la “notte dello Spirito” nel dono misterioso delle Stimmate e della piena conformazione a Cristo crocifisso, conoscendo anche l’incomprensione, la malattia e la solitudine.
III/ La fede che resiste alla tempesta in Santa Caterina da Siena
Santa Maria sopra Minerva – Piazza della Minerva
1/ Santa Caterina da Siena e Roma
Caterina da Siena venne a Roma per l’ultima e decisiva volta, nella sua vita, nel novembre del 1378, convocata personalmente da papa Urbano VI. Vi soggiornò circa un anno e mezzo, e qui morì il 29 aprile del 1380, all’età di 33 anni, pronunciando le stesse ultime parole del suo Amato Sposo Crocifisso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
Roma e il papato vivevano una scissione interna profonda e pericolosa. L’elezione lecita e valida di papa Urbano VI nell’aprile di quell’anno aveva lasciato scontenti una fronda di cardinali francesi che ritiratisi a Fondi, nel settembre dello stesso anno, avevano eletto un anti-papa, Clemente VII, sconfessando il pontefice e minacciando di marciare su Roma per impossessarsi militarmente del soglio. Lo stesso popolo romano era in agitazione, spossato dalle continue guerre civili, dalla povertà e dai domini stranieri. Due papi significavano anche scissione in Europa: dietro ai dissidenti francesi e a Clemente VII vi era l’appoggio di Francia, di Giovanna di Napoli, della Savoia, del Piemonte, del ducato del Monferrato, della Scozia; con il papa legittimo invece si schieravano l’imperatore Venceslao,la Baviera, il Lussemburgo, Magonza, l’Inghilterra, le Fiandre, Luigi d’Ungheria ela Polonia.
Urbano VI chiamò Caterina a Roma perché riunisse e compattasse le forze fedeli al papa, e per ricevere lui stesso, troppo impaurito, sostegno. Le cronache riportano l’impressione stessa del pontefice dopo un lungo discorso della piccola donna senese alla presenza sua e di tutto il nuovo concistoro:
«Vedete, fratelli miei, come ci rendiamo spregevoli agli occhi di Dio quando ci lasciamo impaurire. Questa povera donnetta ci fa vergogna, e io la chiamo così non per lei, ma per la debolezza del suo sesso, che avrebbe potuto spaurirla anche se noi fossimo stati pieni di ardimento: e invece è lei che fa coraggio a noi! Non è questo un argomento di confusione per noi?» (Legenda Maior, 334).
Caterina era una donna autorevole e potente solo per la sapienza e il vigore del suo dire. Aveva svolto un ruolo decisivo con il precedente papa Gregorio XI, esortandolo impetuosamente a tornare a Roma dall’esilio avignonese («Venite, venite, venite!», Lett. 206), e ad essere «virile» nella fedeltà al Sangue del Signore Crocifisso. Sotto Urbano VI lavorò con tutta se stessa per mantenere la Chiesa unita e per rammentare al nuovo papa il suo ufficio di «dolce Cristo in terra» - sono veramente straordinarie, per passione e veemenza, le lettere scritte ai due papi.
Dirà di se stessa, in questa ultima fase della vita: «voi vedreste andare una morta a santo Pietro, ed entro di nuovo a lavorare nella navicella della santa Chiesa. Ivi mi sto così, infino presso all’ora del vespro… senza alcun cibo… eziandio senza la gocciola dell’acqua, con tanti dolci tormenti corporali quanti io portassi mai… tanto che per un pelo ci sta la vita mia» (Lett. 373).
Ogni giorno lo stesso percorso per andare a pregare nella Basilica Apostolica: dall’attuale piazza S. Chiara, vicino il Pantheon e la Basilicadi S. Maria sopra Minerva, lungo la via papalis (l’attuale via del Governo Vecchio), fino a S. Pietro. Si trascinava stremata, aiutata dai commercianti della zona e amica dei poveri della strada. «Sangue! Sangue! Sangue!» gridava spesso.
Il Sangue dell’Unigenito Agnello di Dio sgozzato; il Sangue versato sulla Croce; il Sangue che ella desiderava versare come martire di Cristo. Caterina sentiva su di sé il peso di tutta la Chiesa e di tutto il peccato che la infettava. Lo portava con un forza straordinaria. Alcuni suoi discepoli la videro come lottare con invisibili (a loro) nemici che la vessavano.
Morì senza niente di suo, e con una numerosissima compagnia di figli spirituali che la piangevano. Il suo corpo, nei tre giorni in cui fu esposto prima della sepoltura, fece miracoli e grazie numerosissime. È sepolta a Roma nella Basilica di S. Maria sopra Minerva, dove il suo padre spirituale e biografo, il beato Raimondo da Capua o.p., fu priore illustre per anni.
Nei pressi del Seminario francese di Santa Chiara è la casa dove abitò e morì, visitabile ora all’interno del Palazzo Santa Chiara. I muri di quella residenza sono invece stati trasferiti in Santa Maria della Minerva. Nella basilica di San Pietro è ancora visibile, anche se in una sistemazione diversa dai tempi di Caterina, il mosaico con la navicella di San Pietro realizzato da Giotto, nel portico di accesso alla Basilica, dinanzi al qualela Santa pregava.
2/ Santa Caterina da Siena maestra di fede
Tutta la sua vita e la sua vocazione sembrano essere segnate e incluse sotto un indirizzo chiaro: l’unità e la pace della Chiesa («Pace! Pace! Pace!» scriveva a Gregorio XI, Lett. 196). All’età di 6 anni ebbe la sua prima esperienza mistica: il Cristo glorioso le apparve vestito con le vesti di Sommo Pontefice, la tiara e il pastorale. Alla fine della sua vita si recò ancora a Roma a lavorare per la «navicella» della Chiesa e ad evitare altri scismi.
Quella di Caterina è una vicenda umana e spirituale unica e straordinaria, in cui si fondono insieme tutti gli opposti paradossali della vita cristiana: ignoranza e sapienza, debolezza e forza, contemplazione e azione, umiltà e gloria. Visse nella sua casa paterna, a Siena, fino ai 20 anni, sconosciuta da tutti e insieme alla sua numerosa famiglia. Qui imparò a conoscere il suo Amato Signore che “frequentava” in intense visioni e orazioni. Si fortificò l’animo con gli insegnamenti che riceveva direttamente dal Maestro, con le continue lotte fisiche contro i demoni che la perseguitavano, con le incomprensioni e le umiliazioni dei familiari inizialmente ostili alle sue scelte già così precocemente definitive per il Signore; visse la penitenza e la mortificazione del corpo; fu generosa verso i poveri; ottenne di entrare nel Terzo Ordine domenicano. Iniziò ad avere esperienze mistiche decisive e all’età di 20 anni celebrò le sue nozze mistiche con il suo Amato.
Dopo questi anni di intensa formazione iniziò la vita pubblica: «amare Dio e il prossimo», è questo il comandamento più importante. Così iniziò ad occuparsi dei poveri di Siena e a viaggiare per la Toscana e l’Italia centrale. Era maestra spirituale, era sapiente e forte nonostante non avesse mai ricevuto istruzione scolastica ed fosse fragile di corporatura. Iniziò una intensa attività di ambasciatrice di pace tra le città in guerra. Dettò lettere infuocate a conti, principi, re e regine. Continuò nel frattempo a vivere esperienze mistiche uniche, tra cui lo scambio del suo cuore, in un modo quasi “fisico”, con quello del Signore risorto.
Nel 1378 era ormai allo stremo delle forze. Il suo corpo era ridotto alle sole ossa. Non mangiava più nulla se non l’amatissimo Corpo Eucaristico del suo Signore. Era sfinita dalla lotta interiore e dalle continue estasi, che nell’ottobre del 1378 la rapivano frequentemente, consentendole però di dettare un capolavoro di dottrina, spiritualità e mistica quale è il suo Dialogo della Divina Provvidenza: il «libro» che ella scrisse in colloquio diretto con l’Eterno Padre.
Due domande possono collocarsi al centro di tutta la sua spiritualità, domande che permangono eternamente valide perché poste e pronunciate da Dio stesso in una visione: «Sai, figliola, chi sei tu e chi sono io? Se saprai queste due cose, sarai beata!». Tra questi binari la vicenda esistenziale e spirituale di Caterina si colloca e si sviluppa, in un crescendo di passione e azione che solo una donna «pazza d’amore» per il suo Signore poteva sostenere. «Tu sei quella che non è; io, invece, Colui che sono. Se avrai nell'anima tua tale cognizione, il nemico non potrà ingannarti e sfuggirai da tutte le sue insidie; non acconsentirai mai ad alcuna cosa contraria ai miei comandamenti, e acquisterai senza difficoltà ogni grazia, ogni verità e ogni lume» (Legenda Maior, 92).
IV/ La fede celebrata nella Confessione e nell'animazione dell'Oratorio in San Filippo Neri
Santa Maria in Vallicella – Piazza della Chiesa Nuova
1/ San Filippo Neri e Roma
Filippo giunse a Roma da laico, nel 1534 quando aveva 19 anni, per essere precettore dei due figli di Galeotto Caccia in una residenza che esiste tutt’oggi a sinistra della chiesa di Sant’Eustachio.
Nel 1548 fondò, presso la chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini, l'Arciconfraternita dei Pellegrini e dei convalescenti, con la finalità di accogliere i pellegrini e servire i malati. Nobili e gentildonne, così come semplici popolani, si unirono a San Filippo in quest’opera.
Da solo si recava in pellegrinaggio alle catacombe di San Sebastiano - nel 1544 lo Spirito Santo gli dilatò il cuore mentre pregava in quel luogo - ed a quelle che divennero poi le “sette Chiese” per pregare e radicare la sua fede sulla testimonianza dei santi e dei martiri, chiedendo a Dio di rivelargli la sua missione.
Don Persiano Rosa, suo padre spirituale, che risiede all'epoca a San Girolamo della Carità, lo guida nel suo cammino di laico e poi a divenire sacerdote. Filippo si reca in quegli anni alle lezioni presso l’Università della Sapienza e Santa Maria sopra Minerva. Nel 1551 viene prima ordinato diacono nella Basilica di San Giovanni in Laterano e poi sacerdote nella chiesa di S. Tommaso in Parione.
Dal 1551, per ben trentadue anni, Filippo Neri ormai prete è ospite della chiesa di San Girolamo della Carità. Trova infatti congeniale quello spirito: accetta la vita comune del clero, vivendo nella stessa comunità in cui abita il suo padre spirituale, insieme ad altri sacerdoti. San Girolamo era un centro poco frequentato, ma con l'arrivo di Filippo diventerà meta ricercatissima dai romani.
Nel 1564, Filippo divenne rettore della chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini. Qui continuò il suo apostolato. Nel 1575 Gregorio XIII affidò a Filippo l'antica chiesa di Santa Maria in Vallicella, ridotta in rovina e per metà interrata. Scartata l'idea di restaurarla, Filippo ed i padri optarono per la sua demolizione e ricostruzione: per questo la chiesa porta anche il nome di Chiesa nuova. La fede e la tenacia di Filippo riuscirono a superare le molte difficoltà che sorsero ed egli affermò chela Madonna gli aveva assicurato che la nuova chiesa sarebbe sorta prima della sua morte.
Infine, Filippo accettò di trasferirvisi nel 1583 e nel convento di Santa Maria in Vallicella visse gli ultimi anni della sua vita. Le Stanze della Chiesa nuova custodiscono i suoi ricordi più cari. Nel frattempo veniva eretto l’annesso oratorio che venne poi completato dal Borromini fra il 1638 ed il 1640.
Nell’Oratorio avvenivano gli incontri dei padri filippini incentrati su di una educazione alla fede cristiana, attraverso la conoscenza e la meditazione delle vite dei santi alternata ad orazioni e canti. Il noto compositore Giovanni Animuccia, amico di Filippo Neri, vi eseguiva le sue Laudi. Caravaggio eseguì per la chiesa la famosa Deposizione.
Dalla Chiesa nuova parte ancora oggi il pellegrinaggio alle sette chiese che Filippo iniziò nel 1552, estendendo a tutti quell’itinerario che egli aveva tante volte già compiuto da solo.
2/ San Filippo Neri maestro di fede
Filippo visse di fede e alla fede portò la Roma del suo tempo. Diceva spesso
«che non si cercasse altro che Christo, dicendo spesso: Chi vuol altro che Christo non sa quel che vole, e chi vuole altro che Christo non sa quel che domanda. Diceva ancora: Vanitas vanitatum et omnia vanitas, se non Christo... Di più diceva che era tanto utile e necessario questo staccamento dalle cose terrene per servire a Dio, che se havesse avuto diece persone veramente staccate e che non volessero altro che Christo, gli bastava l'animo di convertir tutto il mondo».
Questa fede voleva fosse espressa nelle Laudi che componeva e faceva musicare dai suoi discepoli:
«Se l'anima ha da Dio l'esser perfetto,
sendo, com'è, creata in un istante,
e con mezzo di cagion cotante
come vincer la dee mortal oggetto?
Là 've speme, desio, gaudio e dispetto
la fanno tanto da se stessa errante,
sì che non veggia, e l'ha pur sempre innante,
chi bear la potria sol con l'aspetto.
Come ponno le parti esser rubelle
ala parte miglior, né consentire?
E quella servir dee, comandar quella?
Qual prigion la ritien, ch'indi partire
non possa, e alfin col pie' calcar le stelle;
e viver sempre in Dio, e a sé morire?»
Da laico la nutrì con la preghiera, la carità verso i poveri ed i pellegrini, la confessione, la visita ai luoghi dove avevano vissuto i santi. Da sacerdote amava ripetere che si deve morire sui tre legni: quello dell’altare, quello del confessionale e quello della sedia dell’oratorio, dove teneva i suoi sermoni. Questa fede era per lui fonte costante di gioia, poiché l’allegrezza manifesta la certezza della presenza di Dio:
«Voleva ancora che le persone stesser alegre dicendo che non gli piaceva che stessero pensose e malinconiche, perché faceva danno allo spirito, e per questo sempre esso beato Padre, ancora nelle sue gravissime infermità, era di viso gioviale et allegrissimo, et che era più facile a guidare per la via dello spirito le persone alegre che le malinconiche».
Seppe vivere questa ricerca personale del Signore con una socialità aperta ed accogliente. Propose così una trasmissione della fede che passava da cuore a cuore - non si dimentichi che l’Oratorio filippino non era pensato per i bambini, come la vulgata televisiva immagina, bensì per i giovani e gli adulti: nel segreto della confessione e della direzione spirituale, così come nel calore del dialogo, a tu per tu egli incontrava i romani del suo tempo.
Ma al contempo egli fu veramente l’apostolo di Roma, coinvolgendo la città intera. Quando gli venne in mente di partire missionario per le Indie, colpito dalla testimonianza dei primi gesuiti, accolse la parola del suo confessore alle Tre Fontane che gli disse: «Filippo, le tue Indie sono a Roma» - parole che esprimono la consapevolezza dell’urgenza dell’annunzio di Cristo nelle terre di antica evangelizzazione.
E Filippo amava ripetere: «Chi fa il bene in Roma fa bene in tutto il mondo». In effetti, egli non si allontanò più da Roma, spendendosi interamente per la città e trasmise questo ai suoi discepoli invitandoli alla stabilitas loci che caratterizza anche oggi l’Oratorio - un sacerdote filippino resta per tutta la vita nella comunità dove è entrato. E nemmeno si preoccupò di questioni che superassero l’orizzonte della città - tranne quando lavorò per il perdono del re di Francia Enrico IV - così come mai parlò di riforma della Chiesa, poiché si preoccupò piuttosto di realizzarla.
Nell’annunzio della fede volle valorizzare ogni aspetto della vita. Possedeva molti libri e li leggeva, così come voleva che la fede venisse espressa in musica. Per obbedienza chiese al suo discepolo Cesare Baronio, che probabilmente ispirò anche Caravaggio e Galilei, di studiare storia della Chiesa per utilizzarla come via di catechesi e di predicazione. Lo spingeva in questa direzione, probabilmente, anche il desiderio di ricostruire una visione positiva del cammino della Chiesa nei secoli poiché alcune correnti protestanti volevano invece distruggerla: ma, molto più, era determinante la consapevolezza, sperimentata negli anni dei pellegrinaggi solitari, che la fede si corrobora nell’incontro con la grande tradizione ecclesiale.
V/ La fede che discerne gli spiriti ed entra nella cultura in Sant'Ignazio
Chiesa del Gesù – Piazza del Gesù
1/ Sant’Ignazio di Loyola e Roma
Sant’Ignazio di Loyola giunse a Roma per la seconda volta seguendo la via Cassia nel novembre del 1537, insieme a due compagni - egli amava chiamarli gli “amici del Signore”. Ignazio si era convertito nel 1521, all’età di 30 anni, dopo essere stato ferito nella battaglia di Pamplona. Aveva continuato a cercare il Signore a Manresa in Catalogna, dove aveva cominciato a scrivere gli Esercizi spirituali.
Nel 1523 si era recato già una prima volta a Roma per continuare poi il suo pellegrinaggio verso la Terra Santa, ritornando poi in Spagna ed a Parigi per gli studi. A Venezia venne infine ordinato sacerdote nel 1537.
Nello stesso anno, nel suo secondo e definitivo viaggio, poco prima di raggiungere Roma, alla Storta, ebbe una visione: il pellegrino - così Ignazio amava chiamarsi - vide che «Dio Padre lo metteva con Cristo suo Figlio da non poter più in alcun modo dubitare che di fatto Dio Padre lo metteva con il suo Figlio».
Ignazio ed i suoi compagni risiedettero in diverse abitazioni romane fino a trasferirsi nel 1542 presso Santa Maria della Strada, una chiesetta che sorgeva alla destra dell’odierna Chiesa del Gesù. Sono ancora visitabili le cosiddette “stanzette” di quella residenza. Si spostarono così verso il centro della città, per essere una presenza viva nel cuore di essa.
Nel 1538 Ignazio e i compagni si offrirono al papa per la missione ed il primo incarico che egli affidò loro fu quello della catechesi dei bambini delle scuole di Roma. Successivamente si prodigò per la costituzione del Collegio Romano che diverrà poi famoso come centro di studi di alta qualità e ricevette l’incarico di seguire i catecumeni che in Roma si preparavano al Battesimo.
Eletto primo Preposito generale, si ritirò in preghiera presso San Pietro in Montorio ed accettò poi definitivamente l’elezione presso la Cappella del Crocifisso in San Paolo fuori le Mura. Ammalatosi nel 1556, visse per alcuni mesi presso una residenza sul Colle Aventino per tornare poi presso Santa Maria della Strada dove morì nello stesso anno. Il suo corpo è custodito pressola Chiesa del Gesù.
2/ Sant’Ignazio di Loyola maestro di fede
Ignazio scoprì nella sua ricerca personale e poi insegnò che è importante «preparare e disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell'organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell'anima». Egli era consapevole che l’uomo spesso non sa quello che vuole e si spende per realtà che non gli danno la felicità e la salvezza. Per “discernere” - termine molto importante nel linguaggio ignaziano - bisogna purificare ed ordinare il cuore dell’uomo, perché esso possa credere ed amare.
Non si tratta, però, di soffocare il cuore, quanto piuttosto di far emergere e dare peso e rilievo a ciò che veramente conta. Ignazio comprese fin dal momento della sua conversione che la fede è portatrice di gioia, di una gioia che non è effimera ed anzi ha il potere di durare:
«Mentre leggeva [in convalescenza dopo essere stato ferito a Pamplona] la vita di Cristo nostro Signore e dei santi, pensava dentro di sé e così si interrogava: “E se facessi anch’io quello che ha fatto San Francesco; e se imitassi l’esempio di San Domenico?”. Queste considerazioni duravano anche abbastanza a lungo avvicendandosi con quelle di carattere mondano. Ma tra le prime e le seconde vi era una differenza. Quando pensava alle cose del mondo, era preso da un grande piacere; poi, subito dopo quando, stanco, le abbandonava, si ritrovava triste e inaridito. Invece quando immaginava di dover condividere le austerità che aveva visto mettere in pratica dai santi, allora non solo provava piacere mentre vi pensava, ma la gioia continuava anche dopo».
Ignazio poté così insegnare che l’uomo «è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l'uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato». Se non giunge alla lode di Dio l'uomo perde se stesso ed ogni cosa, se non viene posta in relazione con Dio, perde la sua bellezza.
Per questo è chiesto all’uomo, agli inizi degli Esercizi spirituali (I settimana) di prendere coscienza del peccato che è questa distorsione della vita stessa: solo la coscienza del peccato rivela la misericordia di Dio.
Ma l’uomo non deve solo vedere il peccato: con la memoria e la “sensibilità” può, invece, imparare a vedere e gustare la bellezza del Cristo e della vita spirituale che con Lui nasce. A Manresa, dove approfondì i segreti della vita spirituale, Ignazio «vide con li occhi interiori» e, precisamente, nella prima «visione» vide la Trinità, il cuore dell’amore presente in Dio, fino a piangere a lungo di esso, nella seconda «visione» contemplò la creazione - «gli si rappresentò nell'intelletto, accompagnato da grande allegria spirituale, il modo con cui Dio aveva creato il mondo» -, nella terza «visione» contemplò «come nostro Signore stava nel Sacramento dell'altare», nella quarta «visione» invece «l'umanità di Cristo e la figura di Maria», nella quinta il significato di tutta l'esistenza.
Dalla contemplazione del “mistero” di Dio non può non nascere - insegna Ignazio - il desiderio di porsi al suo servizio per annunziarlo. La vocazione, per Ignazio, non è tanto l’attesa di una ipotetica chiamata, quanto piuttosto il domandarsi cosa fare per Colui che ci ha amato e che noi amiamo, come un ragazzo che, innamorato, fa di tutto per stare vicino alla sua amata e non aspetta, ma si propone.
E, certamente, ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. La fede cristiana rigetta la teoria della doppia predestinazione, poiché sa che chi è scelto ed eletto, lo è non contro gli altri, ma anzi a loro servizio. In particolare Ignazio si convinse che l’opera educativa era uno dei servizi di carità più alti che il mondo attendeva. Come disse uno dei primi educatori missionari gesuiti, Juan Bonifacio, «formare i bambini significa rinnovare il mondo!».
VI/ La fede che illumina la vocazione in San Luigi Gonzaga guidato da San Roberto Bellarmino e San Giovanni Berchmans
Sant’Ignazio di Loyola – Piazza di Sant’Ignazio
1/ San Luigi Gonzaga e Roma
Nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma, costruita in onore del Santo fondatore della Compagnia di Gesù, troviamo i corpi di tre santi gesuiti uniti tra loro non soltanto dall’aver vissuto, almeno per un tratto della loro vita, nello stesso luogo, il Collegio Romano fucina di cultura della Roma del XVI secolo, ma anche per la relazione che in modo diverso hanno avuto tra loro.
Si tratta di San Luigi Gonzaga, San Giovanni Berchmans e San Roberto Bellarmino. I primi due, giovani scolastici gesuiti (cioè studenti che muovevano i primi passi della loro formazione nell’Ordine voluto da Sant’Ignazio), il terzo grande uomo di cultura e di spiritualità. Ma se dobbiamo trovare la figura centrale in questa particolare interazione la dobbiamo individuare proprio nel giovane Luigi, morto a soli 23 anni mentre assisteva gli appestati di Roma.
Se San Roberto ha condiviso un tratto di cammino con il giovane Luigi dal suo arrivo al Collegio Romano come studente (1587) fino alla morte (1591), San Giovanni lo ha piuttosto ammirato e venerato come esempio e modello purtroppo anche subendo la stessa sorte di morire in giovane età, a soli 22 anni. San Giovanni era solito organizzare incontri di preghiera proprio in onore di Luigi Gonzaga, a quel tempo non ancora beatificato, aiutato da un contesto che già, di fatto, lo venerava come santo. Sarà proprio lo stesso Bellarmino a farsi sostenitore di questa istanza avendolo conosciuto e apprezzato.
2/ San Roberto Bellarmino e San Luigi Gonzaga maestri di fede
Bellarmino fu suo padre spirituale e confessore per tutto il tempo in cui Luigi Gonzaga stette a Roma. I due ebbero un influsso reciproco e San Roberto, per quanto fosse il padre spirituale, fu fortemente segnato dalla spiritualità profusa dal giovane allievo tanto da indicare nel suo testamento il suo luogo di sepoltura proprio vicino a quello del giovane allievo. Il rapporto che esisteva tra i due santi, nonostante la differenza di età e di ruoli, fu caratterizzata anche da un’intima amicizia e profonda comunicazione. I Bollandisti, compilatori degli Acta Sanctorum, dicono che «nessuno lo conobbe meglio, così nessuno portò un’instancabile testimonianza sia di parole che di fatti per la sua santità come la sua, e nessuno venerò la sua memoria con tanto tenero affetto come l’ultimo dei suoi confessori».
La grandezza della direzione spirituale di San Roberto fu quella di riconoscere nel giovane Luigi tutti gli elementi della santità a motivo proprio di una conoscenza intima e profonda del giovane, arrivando anche a condividere con lui momenti di intensità spirituale. Non sappiamo moltissimo del modo di consigliare San Luigi da parte di San Roberto. Alcune testimonianze, però, ci possono far comprendere piccoli elementi. Le fonti sono la biografia di San Luigi scritta da Virgilio Cepari, compagno di studi di San Luigi Gonzaga, e il materiale raccolto dai Bollandisti, in particolare un intervento di San Roberto Bellarmino su San Luigi pronunciato nel 1608 nella chiesa dell’Annunziata del Collegio Romano, luogo su cui venne poi costruita l’attuale Sant’Ignazio.
Risulta, da parte di San Roberto, un’attenzione globale alla persona. Certamente la preghiera, la partecipazione alla Messa, ma anche la vita quotidiana, il modo di comportarsi. San Roberto, nel guidare San Luigi, ha sempre presente una molteplicità di considerazioni, quasi a dire che non esiste vera spiritualità se non coinvolge la totalità della persona. San Roberto si presenta come un uomo di ascolto, di grande ascolto, cioè assumendo nel suo compito quella caratteristica di reciprocità che sembra proporsi come modello di direzione spirituale: non è soltanto il direttore che ha qualcosa da insegnare al giovane diretto, ma anche il giovane, attraverso l’ascolto attento, insegna al padre spirituale.
Indubbiamente, poi, la focalizzazione della vita più prettamente spirituale attorno a due fuochi, la preghiera e l’Eucarestia. Riferisce San Roberto nel suo discorso in onore di San Luigi riportato dai Bollandisti che San Luigi era capace di rimanere concentrato nella preghiera per l’intera ora di meditazione (il tempo quotidiano di preghiera stabilito dalla prassi della Compagnia) senza nessuna distrazione. Così come San Roberto ricorda la preparazione remota di San Luigi nel ricevere la Santa Comunione domenicale: «La Santa Comunione è veramente la grande prova della nostra fede poiché come può uno credere con tutto il cuore che il Signore della gloria è veramente presente nel SS. Sacramento e andare da lui con un cuore freddo e dissipato?».
Quindi l’accompagnamento di San Roberto era un accompagnamento saggio capace di cogliere e tenere insieme i diversi aspetti della personalità di San Luigi e si presenta ancora oggi come un esempio magistrale di direzione spirituale.
VII/ La fede che proclama la bellezza di Cristo nel mondo in San Gaspare del Bufalo
Santa Maria in Trivio – Piazza dei Crociferi, 49
1/ San Gaspare del Bufalo e Roma
Roma, 6 gennaio 1786, solennità dell’Epifania. L’illuminismo è un fuoco divorante nella Roma papalina, che all’ombra del cupolone legge Voltaire ed “Il Caffè” di Verri. Il romanticismo con tutta la sua vacuità è già alle porte, mentre celebri nomi del grand tour affollano le rovine eterne della Grande Capitale. A Campo Vaccino, la zona dei fori, greggi bivaccano e brucano, ladroni e prostitute affollano i vicoletti scoscesi che costeggiano la vecchia curia, Sant’Adriano al Foro. Una Roma in crisi d’identità, ancora ignara dei moti rivoluzionari d’oltralpe che segneranno la storia del mondo e della Chiesa.
In questa Roma, ricca e povera, volgare e raffinata, colta e bigotta, vive Gaspare del Bufalo. A Roma, il 6 gennaio 1786, nasce nel quartiere Monti, alle spalle della chiesa di San Martino, dove il 7 gennaio riceverà il battesimo, all’ombra delle massicce torri medioevali dei Capocci. Cresce nel quartiere Pigna, il cuore di Roma, in una porticina di servizio delle cucine di Palazzo Altieri, tra via del Plebiscito e piazza del Gesù. Protetto da quella Chiesa, il Gesù, alti muri rossi e bianca faccia in travertino, che da circa dieci anni è ormai vuota dei passi della Compagnia di Gesù, soppressa nel 1773.
Dietro le bianche facciate di una Roma nobile e decadente, si nasconde un intricato dedalo di vie, vicoletti, cortili, luoghi umidi e malsani, ma carichi di calore ed umanità, un grembo che alimenta e fortifica la fede del nostro Santo. È quest’umanità fiera a formare l’immaginario spirituale, a temprare l’animo sensibile e delicato del giovane Gaspare, che sceglierà di consacrare la sua vita al Signore nell’obbedienza incondizionata alla Chiesa e nell’assistenza agli ultimi.
Completa così gli studi al Collegio Romano, indossando l'abito talare nel 1798 per iniziare ad organizzare opere di assistenza spirituale e materiale a favore dei più bisognosi. Ordinato sacerdote il 31 luglio 1808, contribuisce alla rinascita dell'Opera di Santa Galla, di cui divenne poi direttore nel 1806. Intensifica l'apostolato a Roma fondando il primo oratorio in Santa Maria in Vincis e in Campo Vaccino. Fra il 1809 ed 1810, dopo l'occupazione di Roma da parte delle truppe francesi di Napoleone Bonaparte, Gaspare del Bufalo - fedele a papa Pio VII e alla Chiesa romana - rifiuta di prestare giuramento di fedeltà all'Imperatore: «Non debbo, non posso, non voglio» - grida laconicamente. Segue così la sorte del suo pontefice, ed è costretto all'esilio dapprima a Piacenza e poi imprigionato a Bologna, Imola e Lugo.
Di lui disse papa Giovanni XXIII: «Quando san Gaspare del Bufalo fondò la vostra Congregazione nel 1815, il mio predecessore Pio VII gli chiese di andare laddove nessun altro sarebbe andato... per esempio gli chiese di inviare missionari a evangelizzare i "banditi" che a quel tempo imperversavano così tanto nella zona fra Roma e Napoli. Fiducioso nel fatto che la richiesta del Papa fosse un ordine di Cristo, il vostro Fondatore non esitò ad obbedire, anche se il risultato fu che molti lo accusarono di essere troppo innovatore. Gettando le sue reti nelle acque profonde e pericolose, fece una pesca sorprendente».
2/ San Gaspare del Bufalo maestro di fede
Sono due gli aspetti fondamentali della vita di fede di Gaspare del Bufalo:
La devozione al Preziosissimo Sangue
La devozione al Preziosissimo Sangue nasce in Gaspare innanzitutto dall’intimo rapporto che lo lega alla sua città. La città dei martiri, degli Apostoli Pietro e Paolo, ma soprattutto la città delle reliquie della passione, conservate nelle Basiliche di Santa Croce e Santa Prassede. Sulla devozione di Gaspare al Sangue Preziosissimo così testimonia Giovanni Merlini, suo intimo collaboratore: «questo divin Sangue si offre di continuo nella Santa Messa, questo si applica nei sacramenti, questo è il prezzo della salute e, per ultimo, l’attestato dell’amore di un Dio fatto uomo».
Il Sangue di Cristo è per Gaspare del Bufalo il centro della fede, «perché tutta la fede nelle sue glorie si dirama da questa devozione», ed è il segno spirituale dell’amore di Dio per l’uomo. Simbolo del sacrificio, della disponibilità di Dio nei confronti delle sue creature. Più che sottolineare il valore sacrificale del Sangue, Gaspare vive la dimensione redentiva, che non lascia l’uomo inchiodato alla croce della sua condizione, ma lo apre alla pienezza della resurrezione.
In pieno clima rivoluzionario, la sua fede e la sua spiritualità si presentano dunque come una teologia della speranza, capace di fortificare chi camminava con lui, capace di rendere credibile il suo aiuto, la sua assistenza, la dolcezza del suo tratto. Caratteristiche che trascinano la concretezza apostolica di Gaspare in un orizzonte d’intenso misticismo.
La missionarietà
Da questo universo spirituale scaturisce la fede come orizzonte pastorale, risposta ad un’esigenza concreta dell’uomo. È quest’ansia missionaria che ha fatto di Gaspare il più grande predicatore missionario dell’800. La missione è per San Gaspare imitazione della disponibilità di Dio per l’uomo. Il sacerdote, e il cristiano in genere, deve rispondere con generosità, coerenza e caparbietà alla sua missione: annunciare l’amore di Dio. Questa necessità dell’annuncio si fonda innanzitutto sull’esempio, che rende credibile la sua predicazione, ed in secondo luogo sulla Parola e le parole. «Voleva mille lingue» chiosano le fonti, parlando del suo zelo apostolico, che spinge Gaspare a predicare indefessamente da Comacchio alla Campania. Parole ed opere in un mistico connubio, questa la cifra spirituale più alta del nostro Santo.
VIII/ La fede che rende bambini e figli in Santa Teresa di Lisieux
Chiesa della SS. Trinità dei Monti – Piazza Trinità dei Monti
1/ Santa Teresa di Lisieux e Roma
Teresa si recò in pellegrinaggio a Roma nel novembre 1887, all’età di 14 anni. Con il padre, il signor Martin, e la sorella Celine partì il 4 novembre per visitare Parigi e poi la Svizzera e per giungere infine in Italia: Milano, Venezia, Padova, Bologna, Roma (dieci giorni), Napoli, Pompei, Assisi. Scriverà più tardi Teresa: «Queste bellezze... profuse così largamente hanno fatto tanto bene all’anima mia! Come l’hanno innalzata verso Colui che si è compiaciuto di profondere tanti capolavori sopra una terra d’esilio destinata a durare un solo giorno!».
Un pellegrinaggio a Roma era allora un avvenimento. Teresa era adolescente e questo fu l’unico grande viaggio della sua vita. Ne riporterà impressioni, sensazioni e nuove intenzioni nella preghiera, perché le permise di conoscere ulteriormente gli uomini, i sacerdoti e soprattutto se stessa, prima di entrare per sempre in clausura: «Ah, che bel viaggio fu quello!... Ho capito la mia vocazione in Italia e non è stato andar troppo lontano per una conoscenza tanto utile».
Dal pellegrinaggio riportò alcune reliquie. Visitando le catacombe di San Callisto e il Colosseo, ne raccolse la terra “arrossata dal sangue dei primi cristiani” che riportò a casa preziosamente rinchiusa in sacchetti di stoffa. Queste le sue riflessioni dopo la sua visita al Colosseo: «Il cuore mi batteva molto forte nel momento in cui le mie labbra si avvicinarono alla polvere imporporata del sangue dei primi cristiani: chiesi la grazia di essere anch’io martire per Gesù e sentii in fondo al cuore che la mia preghiera era stata esaudita».
Andò pellegrina alla basilica di Santa Croce in Gerusalemme e alla basilica di Sant’Agnese. Lei stessa descrive, raccontando della visita a Santa Croce, il suo desiderio-bisogno di avere un contatto fisico con le tracce del passaggio sensibile del Figlio di Dio incarnato: «Occorreva sempre che io trovassi il modo di toccare tutto: di infilare il mio ditino in una delle aperture del reliquario che conteneva il chiodo che fu bagnato dal sangue di Gesù».
E poi San Pietro per l’udienza pontificia, domenica 20 novembre, alla presenza di papa Leone XIII. Un giornale francese, L’univers, nella colonna della corrispondenza romana, ne riportò questa cronaca: «Fra i pellegrini si trovava una ragazza di quindici anni che ha chiesto al Santo Padre il permesso di entrare subito in convento per farsi religiosa. Sua Santità l’ha incoraggiata ad avere pazienza».
Era questa la finalità del viaggio: ottenere dal pontefice il permesso di entrare nel Carmelo prima dell’età canonica richiesta. Teresa era una postulante giovanissima e, secondo la testimonianza della sorella Celina, l’udienza con il papa fu un “fiasco”, poiché Leone XIII non le concesse di anticipare i tempi. Teresa però era paziente: «Io dormo, ma il mio cuore veglia» (Ct 5,2) è il versetto che le ricorderà di “abbandonarsi” totalmente alla Provvidenza, perché se Gesù sembrava non far nulla per la sua entrata nel Carmelo, il Suo cuore tuttavia non cessava di vegliare su di lei con amore.
La sua pazienza e la sua attesa pacifica furono infine premiate. Il primo gennaio dell’anno successivo arrivò la riposta positiva del vescovo e la sua entrata nel Carmelo venne fissata per il 9 aprile 1888. Teresa aveva quindici anni.
«Quando Gesù mi avrà deposto sulla riva benedetta del Carmelo, voglio donarmi tutta intera a Lui. I suoi colpi non mi faranno paura perché, anche quando le sofferenze sono più amare, si sente sempre che è la sua dolce mano che colpisce. L’ho sperimentato bene a Roma nel momento in cui tutto mi avrebbe fatto credere che la terra fosse lì per sparire sotto i miei piedi... La vita passa così presto che veramente vale di più avere una corona bellissima e un po’ di patire, che averne una ordinaria senza patire».
A Roma Teresa dimorò, come ricorda una lapide, in via Capo Le Case 56, nella zona di piazza di Spagna, in quei tempi quartiere dei francesi. Nei giorni della sua permanenza in quella residenza si recava in preghiera presso la Chiesa della SS. Trinità dei Monti, all’interno dell’allora convento delle suore della Società del Sacro Cuore, nella cappella detta della Mater Admirabilis, affrescata nel 1844. È possibile recarsi in questo luogo per pregare, ma bisogna domandare prima l’autorizzazione, non essendo abitualmente aperto al pubblico.
2/ Santa Teresa di Lisieux maestra di fede
Giovanni Paolo II ha voluto Teresa di Lisieux come “dottore della Chiesa” perché essa insegna cosa è l’infanzia spirituale e come interpretare esistenzialmente l’espressione evangelica «se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli».
È stupefacente come la piccola Teresa, la santa dell’“infanzia spirituale”, da un lato descrive la necessità di uscire dall’infanzia per poter veramente amare il Signore. “Infanzia spirituale” non significa, nel suo messaggio, presunta innocenza dell’età infantile (come una valutazione superficiale dell’espressione potrebbe far pensare), o ancora nostalgia di un ritorno ai primi anni della vita intesi come modello tout court - questi anni sono anzi da lei visti come età di ipersensibilità ed eccessivo attaccamento a se stessi.
Nel descrivere la grazia del Natale che ricevette nel 1886, la grazia della “conversione”, ne parla proprio come del momento dell’uscita dall’infanzia. Possiamo qui leggere il testo stupendo scritto dalla stessa Teresa che descrive questo momento:
«Se il Cielo mi colmava di grazie, non era già perché io le meritassi, ero ancora tanto imperfetta! Avevo, è vero, un gran desiderio di praticare la virtù, ma lo facevo in un buffo modo, ecco un esempio: ... dopo che Maria fu entrata nel Carmelo, mi accadeva talvolta, per far piacere al buon Dio, di rifarmi il letto, oppure, in assenza di Celina, rimettere dentro, a sera, i suoi vasi da fiori: come ho detto, era per il buon Dio solo che facevo quelle cose, perciò non avrei dovuto attendere il grazie delle creature. Ahimé! Le cose andavano ben diversamente; se per disgrazia Celina non aveva l’aspetto felice e stupito per i miei servizietti, non ero contenta, e glielo provavo con le lacrime. Ero veramente insopportabile per la mia sensibilità eccessiva. Così, se mi accadeva di dare involontariamente un po’ di dispiacere a qualcuno cui volessi bene, invece di dominarmi e non piangere, ... piangevo come una Maddalena, e quando cominciavo a consolarmi della cosa in sé, piangevo per aver pianto...
Non so come io mi cullassi nel pensiero caro di entrare nel Carmelo, trovandomi ancora nelle fasce dell'infanzia! Bisognò che il buon Dio facesse un piccolo miracolo per farmi crescere in un momento, e questo miracolo lo compì nel giorno indimenticabile di Natale; in quella notte luminosa che rischiara le delizie della Trinità Santa, Gesù, il Bambino piccolo e dolce di un’ora, trasformò la notte dell’anima mia in torrenti di luce...
Fu il 25 dicembre 1886 che ricevetti la grazia di uscire dall'infanzia, in una parola la grazia della mia conversione completa. Tornavamo dalla Messa di mezzanotte durante la quale avevo avuto la felicità di ricevere il Dio forte e potente. Arrivando ai Buissonnets mi rallegravo di andare a prendere le mie scarpette nel camino (N.d.T. colme di regali), quest’antica usanza ci aveva dato tante gioie nella nostra infanzia, che Celina voleva continuare a trattarmi come una piccolina, essendo io la più piccola della famiglia...
A Papà piaceva vedere la mia felicità, udire i miei gridi di gioia mentre tiravo fuori sorpresa su sorpresa dalle "scarpe incantate" e la gaiezza del mio Re caro (N.d.T. con l’espressione "il mio Re" Teresa designava il suo papà) aumentava molto la mia contentezza, ma Gesù, volendomi mostrare che dovevo liberarmi dai difetti della infanzia, mi tolse anche le gioie innocenti di essa; permise che Papà, stanco dalla Messa di mezzanotte, provasse un senso di noia vedendo le mie scarpe nel camino, e dicesse delle parole che mi ferirono il cuore: “Bene, per fortuna che è l’ultimo anno!...”. Io salivo in quel momento la scala per togliermi il cappello, Celina, conoscendo la mia sensibilità, e vedendo le lacrime nei miei occhi, ebbe voglia di piangere anche lei, perché mi amava molto, e capiva il mio dispiacere. “Oh Teresa! - disse - non discendere, ti farebbe troppa pena guardare subito nelle tue scarpe”. Ma Teresa non era più la stessa, Gesù le aveva cambiato il cuore! Reprimendo le lacrime, discesi rapidamente la scala, e comprimendo i battiti del cuore presi le scarpe, le posai dinanzi a Papà, e tirai fuori gioiosamente tutti gli oggetti, con l’aria beata di una regina. Papà rideva, era ridiventato gaio anche lui, e Celina credeva di sognare! Fortunatamente era una dolce realtà, la piccola Teresa aveva ritrovato la forza d’animo che aveva perduta a quattro anni e mezzo (N.d.T. al momento della morte della madre), e da ora in poi l’avrebbe conservata per sempre!
In quella notte di luce cominciò il terzo periodo della mia vita, più bello degli altri, più colmo di grazie del Cielo... Sentii che la carità mi entrava nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice!».
Se bisogna uscire da una visione infantile della vita, per Teresa, però, resta vero che bisogna essere bambini: ma ella sa che l’“infanzia spirituale” è semplicemente essere figli nelle braccia del Padre. Essere bambini è fidarsi della provvidenza di Dio che mai abbandona. La fede è la totale confidenza nella misericordia che Dio ha per Teresa, desideri essa cose piccole o grandi. Teresa ebbe il desiderio di martirio così come quello di studiare teologia, ma scoprì che non era in questo che consisteva la perfezione, come scrive a sr. Maria del Sacro Cuore:
«Come può chiedermi se può amare il buon Dio come me?... I miei desideri di martirio sono un bel nulla e non è di qui che nasce quella fiducia illimitata che sento nel cuore. A dir la verità, son proprio ricchezze spirituali che rendono ingiusti (N.d.T. Lc 16, 11), quando ci si appoggia ad esse con compiacenza e si crede che siano qualcosa di grande... Quello che piace a lui, è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la speranza cieca che ho nella sua misericordia. Ecco il mio solo tesoro, madrina cara. Perché questo tesoro non potrebbe essere il suo?».
E nei suoi Diari scrive:
«Sono veramente lontana dall'essere una santa, solo questo ne è già la prova; invece di rallegrarmi per la mia aridità, dovrei attribuirla al mio poco fervore e fedeltà, dovrei sentirmi desolata perché dormo (da 7 anni) durante le mie orazioni e i miei ringraziamenti, ebbene, non sono desolata... penso che i bambini piccoli piacciono ai loro genitori quando dormono come quando sono svegli; penso che per fare delle operazioni, i medici addormentano i malati. Infine penso che “il Signore vede la nostra fragilità, e si ricorda che noi siamo solo polvere”».
Come ha scritto l’esegeta J. Jeremias: «‘diventar di nuovo bambino’ significa imparare a dir di nuovo ‘abbà’».
Per questo Teresa, alla fine, scelse la carità e solo essa: «Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ritrovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall'amore. Capii che solo l'amore spinge all'azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l'amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l'amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che l'amore è eterno. Allora con somma gioia ed estasi dell'animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l'amore. Si, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l'amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà».