Gli immaturi, eterni indecisi, sono ossessionati da una sola domanda: come mi realizzo oggi?, di Costanza Miriano
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Riprendiamo dalla rivista Il Timone (aprile 2013, n. 122) un articolo scritto da Costanza Miriano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2013)
Ho una figlia che ogni tanto proclama cosa farà da grande, e i suoi programmi cambiano con cadenza quasi quotidiana. Giardiniera, “cuciniera”, quella che toglie i pidocchi (che sarebbe la mamma), maestra, dottoressa degli animali, dottoressa delle pance (ginecologa), violinista. In merito all’ultima carriera avrei da puntualizzare che la vedo un po’ dura, fino a che continuerà a esercitarsi col suo violino un massimo di venti secondi a settimana. In fondo ha sei anni, e confido che un po’ di serietà possa anche impararla. Ogni tanto le ricordo i suoi doveri musicali, ma senza esagerare: vista la giovane età, credo che ci siano ampi margini di miglioramento, quanto a disciplina e forza di volontà.
D’altra parte c’è un tempo, è fisiologico, in cui si ha l’illusione di avere tutte le possibilità esistenziali a portata di mano. Sembra che si possa davvero decidere cosa, chi, come essere senza che la realtà imponga nessun limite. L’adolescenza è il trionfo di questo stato d’animo: anche se la mia, di adolescenza, è preistorica, questo non mi impedisce di ricordare la sensazione di angoscia al pensiero di dover rinunciare a qualcosa, di non poter essere su uno spazio più grande di quello coperto dai miei due piedi (per quanto numero 42), di dover alla fine scegliere una sola strada, e abbandonare per sempre tutte le altre.
Comincio invece a preoccuparmi quando a voler fare il violinista esercitandosi venti secondi alla settimana è un quarantenne o anche uno più grande, eppure ne conosco diversi. Anzi, in parte un violinista velleitario e fannullone forse c’è in ognuno di noi, o quasi.
A chi non capita di pensare di poter fare tutto, di riuscire a tenere insieme tutti i pezzi senza rinunciare a nulla, assemblando sintesi un po’ sgangherate ma tutto sommato funzionanti, almeno fino a che non arriva una grossa prova? Chi è che non pensa, ogni tanto, di poter sfuggire alla fatica della scelta, o magari, se la scelta l’ha fatta, di deporne il fardello per qualche momento? Capita di avere gli occhi così appannati dalla stanchezza da non vedere più la bellezza del quotidiano, di non trovare più così avvincente quel piccolo pezzo di strada che facciamo, sempre la stessa, da quindici anni, di desiderare una novità, un regalo, una sorpresa, tanto da dimenticare i regali che uno ha già.
E va bene, a volte capita a tutti, ma come è potuto succedere che oggi ci sia una tale quantità di immaturi in giro, di eterni ragazzini indecisi sulla strada da imboccare, sempre pronti a voltarsi indietro? Io, contrariamente a quanto sento dire ogni tanto, non penso che prima la gente fosse migliore: semplicemente le possibilità di scelta erano di meno. Non ci si chiedeva “come mi realizzo oggi, come posso esprimere il mio talento?”. Il pensiero era piuttosto il sostentamento, o il raggiungimento di un minimo livello di benessere. Da un certo punto in poi il sostentamento e il benessere diffuso sono stati dati per scontati, e l’obiettivo è diventata la libera espressione di sé.
Negli anni passati è stato così (chissà che la crisi non offra anche un’opportunità di crescita, in questo senso): i ragazzi cercando la loro strada aspiravano a guadagnarsi da vivere esprimendo se stessi. È stata la conseguenza del benessere diffuso. Ci ritroviamo così circondati da gente che vuole trovare se stessa (che poi, io dico, in certi casi se uno non si trova non è che perde un gran che, a dire la verità...). Cerca te stesso qua, cerca te stesso là, si finisce per non fermarsi da nessuna parte, per non mettere nessuna radice, per non portare nessun frutto.
E questo anche nella vita sentimentale, complice un’idea strampalata dell’amore che si è affermata in occidente: un amore sentimentale e romantico, molto fondato sulle emozioni, poco sulla scelta matura e consapevole.
Così è finita che da una parte c’è il mondo che ti dice di esprimerti, affermarti, liberarti, mentre dall’altra parte è rimasta solo la Chiesa ad annunciare la bellezza dell’impegno per sempre. Un impegno che viene sempre percepito come un peso, un intralcio, un fardello.
La sfida dei cristiani di oggi è quella di far passare l’idea che invece scegliere, una strada, una vocazione, un posto in cui portare frutto è l’unico modo per essere felici. È un privilegio enorme che abbiamo, un regalo di Dio che decide di fidarsi di noi al punto da rispettare la nostra libertà sopra ogni cosa, anche quando va contro il nostro interesse.
Scegliere è la cosa più bella che possiamo fare. Scegliere l’impegno, qualcosa su cui investire davvero, rischiando tutto, abbracciare una vocazione, una sola, è quello che ci fa fiorire, ci fa portare frutto. Noi pensiamo di riempire quell’impronta di vuoto da cui siamo tutti segnati facendo le cose di testa nostra, ma invece l’unica cosa che sazia, veramente, che manda via la fame, è perdere la vita per qualcuno, di gran lunga la cosa più bella che possiamo fare.
Il problema è che spesso questa bellezza non siamo capaci di farla vedere al mondo: perché per esempio i giornali o le televisioni quando parlano di impegno ingenerano nel lettore o ascoltatore il desiderio di scappare a gambe levate più presto e più lontano possibile? Insomma, perché sembra che cantiamo, come dice un amico sacerdote, “venite al Signore con canti di noia”?
Il fatto è che Dio non ha bisogno di noi, non ci vuole fregare né togliere niente, perché non gli serve niente (starebbe messo davvero male, come Dio, se avesse bisogno di qualcosa di nostro, queste erano le divinità pagane, a immagine di uomo!), e quello che la Chiesa dice all’uomo è solo un disegno di felicità per lui e per i suoi fratelli.
A insegnare questo è essenziale il lavoro del padre, però. È il padre che rappresenta il senso della realtà, il limite, la necessità di posticipare la gratificazione. È il padre che insegna al bambino, prima, e poi al giovane uomo, il fatto che non è lui, il bambino, a essere arbitro della realtà, non è lui a sapere da solo quale sia il bene e quale il male. Questo processo di apprendimento può essere doloroso, anzi, lo è necessariamente, perché qualche rametto all’albero va potato.
Il padre ha il coraggio di dare questi piccoli dispiaceri al figlio, perché ha uno sguardo che vede più alto e più lontano. A questo punto anche io, che pure sono stata più volte tacciata di misoginia, devo dire che in questo caso sono gli uomini a doversi rimboccare le maniche per primi, per diventare padri coraggiosi, padri che sanno da che parte vanno loro e i loro figli, padri capaci di accompagnare la fatica dei figli. Insomma, non violinisti da venti secondi a settimana.