Eutanasia: senso di pietà e pietà del cercare un senso
La nostra sensibilità moderna parla sempre di “casi singoli”, di “casi particolari”. Inavvertitamente, talvolta, distrae lo sguardo da ciò che è valore, da ciò che è permanente, per scardinare o obliare tutto a partire dal “caso concreto”. Dice di fare questo in nome della persona.
Ma, ad una lettura più profonda, è proprio questo che umilia l’uomo ed il suo cercare. E’ solo a partire da ciò che è più grande che è possibile dare senso a ciò che è “particolare”. La persona è nata per interrogarsi su ciò che la supera, sul significato ed il senso.
Per parlare dell’eutanasia bisogna allora affrontare una realtà ben più ampia e difficile: che significato ha la sofferenza? Non quella specifica sofferenza, ma la sofferenza di tutti. Perché si vive?
Non è semplicemente con la carità, con la vicinanza affettiva, pure importantissima, che si dà risposta a queste questioni. E’ certamente offensivo dire che si desidera morire perché non ci si sente amati. E’ offensivo per chi sta vicino a chi soffre e per la persona stessa che soffre.
Ci sono, piuttosto, momenti nei quali l’amore non basta a se stesso. Situazioni nelle quali l’amore si interroga sulla speranza e sul futuro.
Gesù, annunziando le beatitudini in un mondo sofferente, indicava un presente aperto al futuro: “Beati gli afflitti, perché saranno consolati?” Saranno? E quando? E da chi? Che speranza ha l’amore?
Ecco che la domanda va oltre: è sulla speranza. Che speranza ha chi nasce e chi muore? C’è qualcosa e qualcuno oltre la salute e la giovinezza? L’uomo ha origine dal niente e va verso il nulla e l’unica questione sensata/insensata che è lecito porre è come ci vada?
Qui è la fonte per attingere risorse e decidere se abbia senso o non lo abbia vivere ancora.
Vera pietà non è semplicemente emozionarsi dinanzi ad una situazione, ma saper andare alla sua radice (l'etimologia di "radicale" indirizza a guardare alle radici da cui prende vita una pianta, spinge ad interrogarsi sull'origine del nutrimento che permette di vivere, invita a muoversi verso ciò che origina tutto ciò che è conseguenza).
La decisione di vivere non nasce semplicemente dalla buona volontà, perchè essa non basta a se stessa. Questa è la grande questione. E’ l’uomo, è il singolo, è la persona, è il “caso concreto” che chiede non un metodo, ma un senso. Che chiede non solo “come" e "quando”, ma “perché”. Che non può restringersi a porre la questione “how to do” - “come” morire, "come" vivere - ma che chiede “perché” vivere.
E non è sufficiente nemmeno il “perché” della lotta politica - questo lo comprendiamo ancora più oggi se chi chiede di morire è "militante". Non basta essere appassionati della polis, degli uomini, per voler vivere ancora, quando il dolore ti distrugge. L’impegno sociale non è motivo sufficiente per vivere.
La dignità umana sa di essere sempre invitata a domandare sul senso, sul “fine”, perché ogni metodo, ogni “come”, è necessariamente senza senso, è costitutivamente relativo ad altro. La cosiddetta “qualità” della vita non dipende così dalle sue condizioni “metodologiche”. Sofferenze infinite possono talvolta diventare un “giogo” leggero e sofferenze minime insopportabili.
Francesco d’Assisi parlava di una “prima” e di una “seconda” morte. E proprio a partire dalla sua comprensione di questa realtà “seconda che non farà male”, traeva la forza per affrontare i terribili anni della sua malattia e per comporre, proprio in quegli anni, il Cantico delle creature.
Chiunque conosca un po’ seriamente la sofferenza seria sa quanto essa attenti alla voglia di vivere. Sì, la morte – per usare le parole dell’apostolo Paolo – è il grande, l’ultimo nemico. E la morte non appare solo alla fine, ma mangia pian piano la vita. La risposta a questa inimicizia non consiste semplicemente nel morire. Anzi l’offerta di questa unica risposta, chiudendo ogni altra ben più appassionante domanda, è proprio l’ingannare il cuore umano, il non rispondere alla sua originalità e bellezza. Serve altro.
Ma, ad una lettura più profonda, è proprio questo che umilia l’uomo ed il suo cercare. E’ solo a partire da ciò che è più grande che è possibile dare senso a ciò che è “particolare”. La persona è nata per interrogarsi su ciò che la supera, sul significato ed il senso.
Per parlare dell’eutanasia bisogna allora affrontare una realtà ben più ampia e difficile: che significato ha la sofferenza? Non quella specifica sofferenza, ma la sofferenza di tutti. Perché si vive?
Non è semplicemente con la carità, con la vicinanza affettiva, pure importantissima, che si dà risposta a queste questioni. E’ certamente offensivo dire che si desidera morire perché non ci si sente amati. E’ offensivo per chi sta vicino a chi soffre e per la persona stessa che soffre.
Ci sono, piuttosto, momenti nei quali l’amore non basta a se stesso. Situazioni nelle quali l’amore si interroga sulla speranza e sul futuro.
Gesù, annunziando le beatitudini in un mondo sofferente, indicava un presente aperto al futuro: “Beati gli afflitti, perché saranno consolati?” Saranno? E quando? E da chi? Che speranza ha l’amore?
Ecco che la domanda va oltre: è sulla speranza. Che speranza ha chi nasce e chi muore? C’è qualcosa e qualcuno oltre la salute e la giovinezza? L’uomo ha origine dal niente e va verso il nulla e l’unica questione sensata/insensata che è lecito porre è come ci vada?
Qui è la fonte per attingere risorse e decidere se abbia senso o non lo abbia vivere ancora.
Vera pietà non è semplicemente emozionarsi dinanzi ad una situazione, ma saper andare alla sua radice (l'etimologia di "radicale" indirizza a guardare alle radici da cui prende vita una pianta, spinge ad interrogarsi sull'origine del nutrimento che permette di vivere, invita a muoversi verso ciò che origina tutto ciò che è conseguenza).
La decisione di vivere non nasce semplicemente dalla buona volontà, perchè essa non basta a se stessa. Questa è la grande questione. E’ l’uomo, è il singolo, è la persona, è il “caso concreto” che chiede non un metodo, ma un senso. Che chiede non solo “come" e "quando”, ma “perché”. Che non può restringersi a porre la questione “how to do” - “come” morire, "come" vivere - ma che chiede “perché” vivere.
E non è sufficiente nemmeno il “perché” della lotta politica - questo lo comprendiamo ancora più oggi se chi chiede di morire è "militante". Non basta essere appassionati della polis, degli uomini, per voler vivere ancora, quando il dolore ti distrugge. L’impegno sociale non è motivo sufficiente per vivere.
La dignità umana sa di essere sempre invitata a domandare sul senso, sul “fine”, perché ogni metodo, ogni “come”, è necessariamente senza senso, è costitutivamente relativo ad altro. La cosiddetta “qualità” della vita non dipende così dalle sue condizioni “metodologiche”. Sofferenze infinite possono talvolta diventare un “giogo” leggero e sofferenze minime insopportabili.
Francesco d’Assisi parlava di una “prima” e di una “seconda” morte. E proprio a partire dalla sua comprensione di questa realtà “seconda che non farà male”, traeva la forza per affrontare i terribili anni della sua malattia e per comporre, proprio in quegli anni, il Cantico delle creature.
Chiunque conosca un po’ seriamente la sofferenza seria sa quanto essa attenti alla voglia di vivere. Sì, la morte – per usare le parole dell’apostolo Paolo – è il grande, l’ultimo nemico. E la morte non appare solo alla fine, ma mangia pian piano la vita. La risposta a questa inimicizia non consiste semplicemente nel morire. Anzi l’offerta di questa unica risposta, chiudendo ogni altra ben più appassionante domanda, è proprio l’ingannare il cuore umano, il non rispondere alla sua originalità e bellezza. Serve altro.