Da Francesco ai Pupi, il viaggio di Rolando, di Franco Cardini
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Riprendiamo da Avvenire del 25/5/2013 un articolo scritto da Franco Cardini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, vedi le sezioni San Francesco d'Assisi e Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2013)
Uno dei testi più complessi e tormentati tra quelle fonti che stanno alla base dell’ormai più che centenaria «questione francescana», la Compilatio Assisiensis (a lungo nota come Legenda Perusina), racconta un episodio legato alla vita di quel meraviglioso «giullare di Dio» che fu Francesco d’Assisi. A un fraticello che gli chiedeva un umile salterio per leggervi i salmi, Francesco – per suggerirgli che non si doveva possedere nulla, nemmeno un libretto – rispose che Carlomagno, Rolando e Oliviero divennero famosi combattendo e rischiando la vita contro gli infedeli fino ad affrontare il martirio, mentre i giullari e i poeti sperano di diventar famosi limitandosi a raccontarne le gesta, senza sforzo e senza pericolo alcuno.
La testimonianza indica senz’ombra di dubbio che nell’Italia dei primi del XIII secolo, anche in ambienti senza dubbio poco colti come potevano essere quelli dei primissimi conventi francescani, le gesta di Carlomagno e del paladino Rolando potessero venire richiamate come qualcosa di pubblico dominio. Anzi, mentre i testi redatti in latino ed espressione di cultura dotta erano ovviamente poco diffusi, quelli scritti magari in franco-settentrionale e narranti le leggende di età carolingia, insomma i «testi volgari», avevano larga circolazione e godevano di notevole fama.
Ciò, tuttavia, pone molti interrogativi. Come circolavano nella penisola italica, in che lingua e sotto quale forma, le chansons de geste francosettentrionali, in “lingua d’oïl”, alle quali magari si accompagnavano i componimenti trobadorici in francomeridionale, la “lingua d’oc”, vale a dire nei vari dialetti occitanici?
Se i componimenti del secondo tipo avevano forse una più larga diffusione nelle corti aristocratiche laiche, dato il loro prevalente contenuto giocoso, elegiaco o erotico, si può dire che quelli del primo tipo godessero semmai di una circolazione più ampia tra i ceti subalterni, magari nel basso clero o addirittura nei mercati stagionali, le “fiere” che periodicamente si riunivano attorno ai santuari nei giorni appunto delle feriae patronali. Si trattava certamente di una letteratura non scritta bensì oralmente tramandata, con tutte le variabili, le modifiche e magari gli adattamenti, gli equivoci e le storpiature possibili e immaginabili: e, circolando lungo le strade del pellegrinaggio e della circolazione commerciale, quei testi trasformati in racconti orali potevano ben venire tradotti e adattati alle opportunità del momento.
Ma un importante e ancora dibattuto oggetto di studio riguarda la data di nascita e la continuità di tali tradizioni. Nacquero subito all’indomani di certi episodi militari – quindi già nell’VIII secolo – le cantilenae che ne esaltavano gli eroi? O sorsero lentamente più tardi, magari fondendosi con canti epici di età più antica, risalenti addirittura ai tempi nei quali le genti guerriere germaniche erano ancora pagane? Oppure – come fra Otto e Novecento suggeriva il grande studioso Joseph Bédier – si era trattato di materiale epico del tutto nuovo, elaborato magari all’ombra di centri di pellegrinaggio come quello di Cluny, e destinato a “propagandare” i nuovi culti santorali, le nuove reliquie, la nuove mète di pellegrinaggio? E quando con precisione queste “canzoni di gesta”, nate comunque in àmbito francese o francoiberico, raggiunsero le Alpi, le varcarono e si diffusero in tutta la penisola creando anche interessanti variabili locali, dall’area lombardo-ligure a quella veneta, alla Toscana e al Meridione, dove si sarebbero radicati tardivamente ma profondamente, finendo con il dare origine alle «Opere dei Pupi» in Sicilia?
Agli interrogativi ancora aperti su questi argomenti hanno risposto in Italia validissimi studiosi, fino dai tempi di un caposcuola come Pio Rajna: negli ultimi decenni la nuova filologia nata attorno a maestri quali Gianfranco Folena e Cesare Segre ne ha profondamente rinnovati temi e metodi. E appunto della prestigiosa prefazione del Segre si avvale il possente studio di Giovanni Palumbo, La «Chanson de Roland» in Italia nel Medioevo, che con erudizione e pazienza riprende tutte le questioni a questi temi sottese, ricostruendo la complessa tradizione testuale e confrontandola con i dati dell’onomastica, dell’epigrafia e dell’iconografia ed entrando nelle articolate questioni che, in un “lungo periodo” che dai primi del XII secolo conduce alla fine del XV, hanno contribuito a disegnare il paesaggio dell’epica di origine e di segno carolingio nella penisola.
Lo studio del Palumbo, filologo romanzo docente nell’Università di Namur in Belgio, stabilisce un aperto e franco dialogo con i migliori studiosi italiani oggi attivi, da Saverio Bellomo a Carlo Beretta, da Corrado Bologna a Daniela Delcorno Branca, da Andrea Fassò a Franco Mancini, da Maria Luisa Meneghetti a Francesco Zambon a tantissimi altri, che è impossibile qui ricordare ma che, insieme, ci presentano tra l’altro una confortante mappatura relativa all’ampiezza e alla qualità dei ricercatori del nostro Paese che si sono fatti e continuano a farsi onore, e che sovente sono molto più noti e apprezzati in altri Paesi che non nel loro, che è appunto il nostro.
Giovanni Palumbo
LA «CHANSON DE ROLAND» IN ITALIA NEL MEDIOEVO
Salerno. Pagine 452. Euro 29,00