«Salviamo la domenica», di Giovanni Pascoli

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /06 /2013 - 14:15 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 26/5/2013 un testo di Giovanni Pascoli con l'introduzione che lo accompagnava. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, vedi la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2013)

Quegli anni a Messina fra Dante e l’allievo prete, di Alessandro Zaccuri

Dal 1898 al 1902: quattro anni importanti nella biografia di Giovanni Pascoli (1855-1912), che in questo periodo insegna Letteratura latina all’Università di Messina. Nel 1900, a metà del soggiorno siciliano, il poeta pronuncia “Il settimo giorno”, un discorso rivolto ai commercianti messinesi e incentrato sulla necessità di preservare il riposo domenicale. Compreso nel volume di Pensieri e discorsi edito da Zanichelli nel 1907, il testo – di cui riproponiamo qui i brani salienti – è riemerso nel corso delle ricerche per un libro che ricostruisce in modo minuzioso e innovativo una stagione complessivamente poco nota. Si tratta di Il professore Pascoli a Messina e l’alunno sacerdote (Città del Sole, pagine 248, euro 18: per informazioni www.cdse.it), al cui interno il lettore troverà la ristampa anastatica della tesi di laurea su “L’ipotesi messianica nella IV egloga di Vergilio” che il canonico Salvatore De Lorenzo (1874-1921) discusse a Messina nel 1901 sotto la guida del poeta latinista. Documento già di per sé interessante, non fosse altro per la prospettiva da cui il sacerdote calabrese – poi molto attivo in campo sociale – suggerisce di interpretare la celebre profezia del puer destinato a mutare il corso della storia. Nel volume la figura di don De Lorenzo e la sua peculiare ipotesi interpretativa sono esaminati rispettivamente da Giuseppe Minutoli (magistrato, pronipote e biografo dello stesso sacerdote) e dal filologo Giuseppe Ramires, mentre tocca allo storico Sergio Di Giacomo ricostruire dettagli e retroscena del Pascoli messinese. Si scopre così che fu Vincenzo Muglia, dinamico editore-libraio del capoluogo siciliano, a pubblicare per primo Sotto il velame (1900) e La Mirabile Visione (1902), i saggi nei quali il poeta portava a compimento l’impresa di rilettura della Commedia dantesca avviata nel 1898 con Minerva oscura. Ma messinesi, almeno quanto a ispirazione, sono anche i versi di componimenti famosissimi quali “L’aquilone” “L’ora di Barga” e “Le ciaramelle”. Accompagnato dall’inseparabile sorella Maria, ma anche dall’allora giovanissimo grecista Manara Valgimigli, Pascoli si rivela osservatore attento della società siciliana, riservando all’omertà mafiosa parole di denuncia purtroppo ancora attuali: «Tristo il silenzio attorno al delitto! [...] Orribile, se è compiacimento!».

Giovanni Pascoli in un momento di riposo con la sorella 
Maria – detta familiarmente Mariù –, l’amico Bartolomeo Caproni
e il giornalista Luigi Mercatelli (Mondadori portfolio)

«Salviamo la domenica», di Giovanni Pascoli

Ci sono due lugubri parole che infelice chi le sente oscillare sospese ai due moti d’un pendolo invisibile: Sempre... mai... Sempre... mai... Sempre... mai... Gli uomini condannano talora l’uomo a udire questi due tocchi che sembrano i palpiti dell’infinito e il ritmo dell’eternità. Nella cella solitaria echeggiano, prendendo via via l’anima del condannato e facendola oscillare con loro: Sempre... mai... Sempre... mai...

Nessuno spasimo delle membra, nessuna angoscia del cuore pieno di lontani e perduti amori, e anche odii, né la fame né l’ignominia, sarebbero intollerabili, se non fosse quel perenne cader di stille dal silenzio universale! Il condannato mette alfine tra quei suoni e la sua anima una muraglia di oscurità: mette la morte: si rifugia di là del sensibile: si accovaccia dietro il gran termine.

Sì!? Di là, dicono, che, se mai altrove, suonano le lugubri parole! E anche di là, nessuna tortura, nessuna tenebra, nessun fuoco e gelo equivalgono a quei due suoni alterni ed eterni: Sempre... mai...!

Eppur no: gli uomini, secondo alcuni santi padri e dottori, avrebbero inventato per conto loro un inferno peggiore dell’inferno vero. Dicono questi padri e dottori che nel giorno annuale della Risurrezione, i dannati dell’inferno vero hanno tregua: cessano le torture, la tenebra si dirada, il fuoco si spenge, il gelo si scioglie; e quell’oscillare, quel ripetìo, quel flusso e riflusso di mare di disperazione, non si ode più. Le campane che quassù avventano nell’azzurro di primavera inni di gloria, canti di gioia, rombe d’amore, confondono in sè e nascondono i due rintocchi delle profondità oltremondane; e l’inferno, cessando per un giorno di essere inferno, non è più inferno mai!

In questo mondo nel quale ora viviamo, affaticato e affannato, suoni il cantico della risurrezione! Si restituisca al lavoro ciò che lo distingue dalla pena; si renda al lavoratore ciò che lo distingue dal forzato e dal dannato; riabbia il popolo umano ciò che gli era già stato dato: la sua domenica!

Senz’essa, non c’è settimana: la vita dell’uomo è una successione di giorni e notti, di giorni in cui il lavoro dispone il corpo al sonno della notte, di notti in cui il sonno dispone le membra al lavoro del giorno; e sempre così alternamente, eternamente, finché giorno e notte si fondano in una sola oscurità e immobilità!

Un ergastolo, senz’essa, è questa società; un ergastolo in cui se non c’è la solitudine del silenzio, c’è però la solitudine del rumore: ogni uomo è segregato dall’altro dall’assordante fracasso dei magli e delle macchine. Un inferno, senz’essa, è questa umanità; un inferno pieno di vane implorazioni, di orrende bestemmie, di grida d’angoscia. Un ergastolo e un inferno, in cui l’anima degli uomini oscilla in delirio sospesa ai due moti convulsi: sempre... mai, sempre... mai. Ma no! Dice la fede: «Riposate l’un dì dei sette, o uomini, le cui membra sono gravi e frali: anche Dio riposò nel settimo giorno, egli che crea con un fiat». Dice la scienza: «Abbiate, ogni tanto, magari più spesso che ogni sette giorni, un giorno di requie perfetta, se volete che le forze vi bastino». Dice la giustizia: «Uomini, non fate degli uomini peggio che non facciate dei giumenti, i quali non attaccate tutti i giorni dell’anno, se non volete renderli, in un mese, rozze spedate e spellate!».

Dice l’umanità: «Se gli uomini hanno il diritto di generare, abbiano ancora il modo, almeno un giorno della settimana, di trattenersi coi loro piccini, e di farsi conoscere e di conoscerli».

Dove più ferve l’opera enorme degli uomini, dove è più assordante il fracasso delle macchine, più il genere umano sembra diventare una turba regolata di schiavi e una mandra ammaestrata di bruti, là il culto della domenica, religiosamente inviolabilmente osservata, fa di quella schiavitù e di quella brutalità ciò che noi diciamo civiltà. E voi, cari cittadini di una delle più grandi città d’Italia, d’una città che ha tradizioni, e perciò speranze, d’un commercio molto prospero e utile, voi siete qui convenuti per non esser da meno delle altre grandi città d’Italia e degli altri popoli civili del mondo; ed essere civili anche voi. […]

Qualunque organismo è un composto di concorrenti, di avversari, di forze chimiche e meccaniche che tenderebbero ad elidersi o sopraffarsi; e nell’organismo cospirano tutte a un medesimo fine: la vita. E voi così formerete un organismo e avrete una bella e utile vita collettiva d’ armonia e di pace. E la bella nostra città sarà letificata da questo agevole e concorde meccanismo dello scambio, che funzioni senza scosse, e che ogni settimana, nella dolce domenica, cessi dal suo rumoroso armeggìo, e si fermi.

Si ferma e tace. O santa domenica, o giorno di silenzio e di tenerezza e di raccoglimento! Chi, viaggiando, scende in quel giorno a una città che osservi il riposo settimanale, a una grande città solitamente piena di rumore e di moto, prova un sentimento di sorpresa. Le porte chiuse delle lunghe file di negozi, già splendenti di molti colori, e già animate d’un continuo entrare e uscire, dànno un’idea di lutto. Si è tentati di dire col profeta: «Come è solitaria questa città! Ella è fatta vedova! Per qui è passata la morte!». E no: è passato l’amore; è passata la pietà; è passata la buona novella dell’umano avvenire; è passata la speranza e la promessa della concordia e della pace! Quelle porte chiuse vogliono dire famiglie, tutte intiere, raccolte insieme, senza fretta, senza quel rodio per qualcuno, magari il più necessario, babbo o mamma, che manchi; famiglie raccolte, in quella loro bella compitezza di babbo, mamma e figliuoli, intorno a una bianca tovaglia: quel silenzio sottintende le liete grida dei giovani commessi che solcano le strade campestri con la loro bicicletta, o i minuti bisbigli all’orecchio, un po’ rosso, della loro (perché no?) della loro amorosa: quella mancanza di vita significa presenza di vita, di vita vera, di vita umana, composta non di sola azione ma anche di pensiero, risultante sì dal lavoro, ma anche dal riposo, nudrita non di solo pane, ma anche d’amore e di gioia. [...]

Il popolo di Messina è innamorato della campagna. Ho osservato che specialmente alle finestre dei mezzanini sono sempre fiori, e alle volte dei verzieri, a dirittura, di gerani-edere, di garofani, di piante rampicanti. E se si passa per la via con qualche fiore in mano, sempre qualche bambina vince la sua naturale ritrosia e timidità, e ci s’appressa e dice: Vossía mi dugna u sciuri [sciuri=fiore]. C’è molto di buono, o messinesi, nella nostra cara Messina. Di rado o quasi mai s’appressa qualcuno a chiedere il soldo o senari: moltissime volte vi si chiede un fiore! Cavate la voglia di fiori ai vostri bambini, poiché tutto un fiore è la vostra campagna! Date loro dell’ossigeno! Fate loro vedere tante cose belle, poiché di cose belle hanno sete! Voi forse non fate tanta stima della poesia, che è un di più, una vanità sonora. E di quella che si fa accozzando frasi e rime, non dico, neanch’io ho tanta stima. Ma c’è un superfluo che nella vita è più necessario di ciò che è necessario: la poesia. Ve lo insegnano le bambine che domandano u sciuri e non domandano il pane. Date, restituite anzi, a’ vostri figlioletti e a voi, la loro poesia, la loro domenica, le passeggiate, le scampagnate.

Mostrate loro, un giorno per settimana, il bel monte Peloro verde di limoni e glauco di fichidindia, la bella falce adunca che taglia nell’azzurro il più bel porto del mondo, l’Aspromonte che negli occasi, per il sole che cade razzando infuocato dietro Antennammare, si colora d’inesprimibili tinte, mentre il mare si riempie di rose colorite; mostrate loro un giorno della settimana il loro bel cielo sereno e la vostra fronte senza rughe!