Camille Paglia, atea, lesbica e libertina: «La religione produce molta più cultura degli sciocchi e mortiferi dogmi liberal». Un'intervista a Camille Paglia di Mattia Ferraresi
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un'intervista a Camille Paglia di Mattia Ferraresi pubblicata il 27/5/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (7/7/2013)
A forza di sbarazzarsi dei vecchi cimeli nel nome dell’avanguardia, del nuovismo, della liberazione da oppressioni non meglio specificate, della decostruzione, del post-qualunque cosa, della ribellione al principio di non contraddizione, insopportabile retaggio della logica aristotelica, la cultura contemporanea si è ritrovata vuota e triste come una casa sfitta. Nelle sue stanze l’aria si è fatta irrespirabile. La forza scioccante di tanta arte prodotta in opposizione alle convenzioni si è imborghesita, diventando la più bolsa delle convenzioni. Gli intellettuali “contrarian”, quelli ostili alle idee da salotto e ai loro meccanismi onanistici, si sono rifugiati in bolle culturali sterili come quelle che disprezzavano e dai loro amboni hanno dettato uno sciapo manifesto ideologico: la dimensione del significato è assurda e inutile. Il significato non esiste. E se esiste fa schifo. Svuotiamo i musei polverosi, bruciamo le vecchie librerie, cancelliamo i dogmi, recidiamo i fili, spariamola grossa, scriviamo tanto e male, rigettiamo la trascendenza e cancelliamo la religione organizzata, diciamo ovvietà che possono sembrare intelligenti ai lettori di Hitchens e agli ammiratori di Cattelan. Un programma non particolarmente vasto per una generazione che ha fatto una rivoluzione con il fiato corto e per quella successiva che tenta di tenerla in vita con risultati che oscillano fra il ridicolo e il pietoso. Oggi di quell’epoca idolatrata sono rimasti soltanto surrogati. Negli anni Settanta c’erano le immagini potenti di Mapplethorpe, oggi ci intratteniamo con quelle insipide usate da David Bowie in un video che non riesce nemmeno ad aspirare alla blasfemia. Negli anni Ottanta c’era quella musa pop rigogliosa e vitale di Madonna, oggi c’è il suo simulacro asessuato e posticcio, Lady Gaga.
Pochi intellettuali cresciuti nel brodo controculturale degli anni Sessanta hanno intuito che la propria generazione si stava infilando in un vicolo cieco come Camille Paglia, critica d’arte e donna di lettere cresciuta alla scuola di Harold Bloom. Paglia dice di essere stata la prima studentessa lesbica di Yale. Di certo è stata una delle più controverse, la «femminista dissidente» che elogiava la forza vitale della pornografia, difendeva la prostituzione («la prostituta non è la vittima dell’uomo, come dicono le femministe, ma la sua conquistatrice») e metteva lo spogliarello nel genere della danza sacra, con le offerte votive infilate negli slip. Di recente ha sostenuto che affermare l’indipendenza femminile andando in giro sole con un abito corto alle tre di notte è «una fantasia borghese», perché «se fai pubblicità poi devi essere disposta a vendere». Ha criticato Lacan, Foucault, Derrida, ha abbandonato il marxismo che inquinava l’accademia, si è ribellata, da atea, al cliché antireligioso di rigore fra gli intellettuali liberal e le femministe emancipate, e ha criticato il “suo” partito democratico da posizioni paralibertarie. Le espressioni più taglienti le ha riservate alle donne del partito e in particolare a Hillary Clinton, una «che non ha mai raggiunto nessun risultato» e che ha alimentato l’ossessione di genere, come se il compito delle donne in politica potesse essere perimetrato nell’emancipazione. Sono le donne repubblicane che parlano di economia e politica estera senza bisogno di fare rivendicazioni le vere emancipate. Quando era una studentessa ha mosso mari e monti per convincere Susan Sontag, nume tutelare del femminismo, a tenere una conferenza nel suo college, e ha capito la vacuità del pensiero della sua eroina quando questa si è messa a leggere un «racconto noioso e sconfortante che non voleva dire nulla».
Sontag è soltanto una delle tante vittime di questa «guerriera naturale». Il suo ultimo libro, Glittering Images, è un viaggio nell’espressione artistica «dall’Egitto a Guerre Stellari» (sarà pubblicato in Italia per l’editore Il Mulino in autunno); nel viaggio si scopre che il filo che tiene insieme l’espressione umana è la ricerca del significato. La critica marxista «che permea l’accademia (attraverso il post-strutturalismo e la scuola di Francoforte)» non è in grado di rendere ragione della dimensione psicologica, metafisica e spirituale dell’uomo, mentre il «dogma liberal» secondo cui «lo choc conferisce automaticamente importanza all’opera d’arte» è tramontato: «Nel ventunesimo secolo cerchiamo il significato, non la sua negazione». In un’intervista a Tempi, Paglia racconta la sua missione di recupero del significato dopo tanta nullificazione, la natura fisica dell’arte e il rapporto con la dimensione religiosa, «un vasto sistema di simboli che contiene verità profonde sull’esistenza umana».
Cercare un significato nell’esistenza è un’attività che è stata dichiarata inutile e persino illegittima dalla cultura ufficiale. Come siamo arrivati a questo punto?
La negazione del significato da parte degli artisti e degli intellettuali contemporanei è una posa antiquata che risale allo choc della cultura europea per i disastri prodotti dalle due guerre mondiali. Le radici del nichilismo di oggi si vedono nel Dadaismo, nella Terra desolata di Eliot dopo la Prima guerra mondiale e in Aspettando Godot di Samuel Beckett dopo la Seconda guerra. Niente dimostra in modo più chiaro la mia ribellione contro quell’ideologia depressiva, oggi diventata un cliché, della mia avversione al dramma di Beckett, che accetto come una pietra miliare del teatro minimalista, ma che penso sia il prodotto di una mente infantile, sottosviluppata e misogina.
In che modo Samuel Beckett ha influenzato la cultura successiva?
È molto significativo che Aspettando Godot abbia ispirato Michel Foucault e anche Susan Sontag, che ha portato il dramma a Sarajevo. Quand’ero al college, negli anni Sessanta, odiavo quell’opera teatrale, che per me rappresentava la vacuità e l’alterigia della vecchia, sterile avanguardia, che allora era stata spodestata da Andy Warhol e dalla Pop Art. Fellini ha mostrato che quella visione del mondo elitaria e claustrale era già esausta nella Dolce vita, dove l’intellettuale Steiner, completamente alienato, si uccide e ammazza i suoi figli.
Poi però c’è stato una specie di revival spiritualista.
La mia generazione “back to nature” si è gettata nelle braccia di un appassionato, assertivo rock ’n’ roll e dell’emotivamente espressiva musica soul afro-americana, sviluppo delle canzoni religiose, e ha cercato un significato nell’induismo e nella “ricerca di visione” dei nativi americani. Ma questa alternativa non ha retto. La distruzione del significato nel post-strutturalismo contemporaneo, che ha saturato l’accademia in Inghilterra e negli Stati Uniti, è un sistema cinico e meccanico che ha distrutto i talenti di un’intera generazione di studenti promettenti. Non avremo nulla di interessante nell’arte finché le tossine del post-strutturalismo non saranno state espulse.
Se dovesse fare un nome fra i responsabili di questa involuzione, quale farebbe?
Direi Foucault, che mosso dall’invidia ha tratto le sue posizioni da Nietzsche. Riconosco tuttavia Nietzsche come un pensatore sottile ed erudito. Foucault, invece, a parte la storia moderna non sapeva niente, i suoi scritti classici sono imbarazzanti e non aveva la minima idea di cosa fosse l’arte. La sua santificazione da parte di ingenui professori di lettere è uno scandalo enorme.
Ha scritto che l’arte è «il matrimonio fra l’ideale e il reale» e spesso contrappone una concezione unitaria alla dicotomia fra il mondo materiale e quello intellettuale. La crisi culturale di cui parla è anche frutto di questa divisione radicale?
La critica d’arte è diventata incapace di dire cose significative perché si è alienata dal regno delle cose fisiche. La mia definizione di arte è: idee espresse in forma materiale. L’arte non è filosofia, una rete di parole. L’arte usa e si rivolge ai cinque sensi. Non c’è dubbio che la mia passione per l’aspetto artigianale dell’arte venga dalla mia origine italiana. I miei quattro nonni e mia madre sono nati in Italia. Molti immigrati partivano da Ceccano, il paese di mia madre, vicino a Frosinone, per andare a lavorare nelle fabbriche di scarpe Endicott-Johnson, nello stato di New York. Mio nonno conciava le pelli durante il giorno e a casa faceva continuamente cose pratiche, dalla lavorazione di metalli al vino. Tutte le donne cucivano. Per la vecchia cultura italiana il lavoro manuale non era una vergogna, anzi, era il segno di energia e abilità. Lo si vede in Michelangelo e Bernini, artisti che non avevano paura di sporcarsi. Penso che questo principio ibrido, la fusione di idealità e fisicità, sia uno dei segreti dell’arte italiana. Non è un caso che abbia passato 42 anni a insegnare nelle scuole d’arte. Non comunico molto bene con la maggior parte dei professori, che vivono in una bolla mentale artificiale e spesso noiosamente borghese. Il mio habitat naturale è fra gli artisti, perché penso con il corpo.
La riduzione marxista «distrugge la magia e il mistero dell’arte». Ma perché quel padrone dell’universo che è l’uomo del ventunesimo secolo dovrebbe avere bisogno di magia e mistero?
L’arte è tutta una questione di magia e mistero, sia nella fase creativa che in quella ricettiva. L’arte è una forma di divinazione che opera nel livello pre-razionale del sogno. Il marxismo è l’atteggiamento “di default” fra i professori di arte e lettere, anche se la maggior parte di loro non sa quasi nulla di economia. Per esempio, negli ultimi quindici anni la parola “rinascimento” è stata lentamente abbandonata dai dipartimenti di letteratura, che la sostituiscono con la ridicola dicitura “prima modernità”, basandosi sulla storia economica. Il termine rinascimento ora è sgradito perché suggerisce che quel magnifico periodo è stato la “rinascita” di qualcosa che gli accademici di sinistra vogliono negare, le titaniche conquiste greco-romane che incontrano la civiltà giudaico-cristiana e danno forma alla cultura occidentale. Il marxismo può funzionare come strumento per interpretare il periodo successivo alla rivoluzione industriale, ma è inutile quando si parla delle società agricole premoderne. E a parte questo, il marxismo è miope: non ha una metafisica, non contempla la natura e la vastità dell’universo.
Lei ha criticato spesso «l’impoverimento visivo» portato dal protestantesimo, un’ondata iconoclasta che ha cercato di cancellare l’enorme repertorio di immagini del cattolicesimo.
I grandi riformatori – Lutero, Calvino, Knox e Zwingli – hanno accusato il cattolicesimo di idolatria per la sua arte, considerata giustamente un retaggio dell’incontro con il paganesimo antico. La Riforma ha lanciato una campagna di distruzione delle statue medievali, dei crocifissi, delle vetrate, con l’illusione di ritornare alla parola pura. Il protestantesimo è tutto orientato verso la parola, è quello l’unico mezzo per arrivare al divino. Nel tempo questa insistenza sul verbo ha ucciso la rappresentazione, la carnalità. Il mio interesse per l’arte è nato in chiesa: le prime opere che ho visto sono state le meravigliose statue e le vetrate della chiesa di Sant’Antonio da Padova, a Endicott, nello stato di New York. È lì che sono stata battezzata.
A vedere certe chiese contemporanee sembra che anche il cattolicesimo sia diventato un po’ protestante…
Sì, e questa tendenza alla protestantizzazione del cattolicesimo, almeno qui in America, è una cosa che mi addolora profondamente. Le chiese vengono rimodellate e “modernizzate”, le statue e i crocifissi a grandezza naturale associati un tempo alla devozione degli immigrati vengono rimpiazzate con rappresentazioni mediocri e di solito dalle fattezze “astratte”. Niente di tutto questo stimolerà l’amore per il bello in chi le guarda.
A proposito di religione. Ha litigato spesso con chi assumeva la “postura cinica” dell’ateo à la Christopher Hitchens, un luogo comune nel mondo degli intellettuali. Perché lei, che è un’intellettuale atea, si è dedicata a un’attività tanto impopolare?
Hitchens non sapeva quasi niente della storia della religione e del suo ruolo nella società, né si disturbava a fare delle ricerche. I suoi scritti sulla religione sono inutili, superficiali e incredibilmente pieni di errori. Ho dichiarato il mio ateismo nel 1990 – molto prima di Hitchens – quando il mio primo libro mi ha catapultato sulla scena pubblica, ma ho un rispetto enorme per la religione, che considero una fonte di valore psicologico, etico e culturale infinitamente più ricca dello sciocco e mortifero post-strutturalismo, che è diventato una religione secolarizzata. Una volta ho anche scritto «meglio Geova di Foucault». Quello che è stato completamente dimenticato dalla mia generazione è che molti di noi erano impegnati in una ricerca di significato di tipo spirituale. La controcultura hippie non era soltanto politica: nel rifiutare le convenzioni sociali, il materialismo e la religione organizzata, cercava la verità in tutte le cose. Abbiamo ereditato il fascino per il buddismo dai poeti beat e dagli artisti degli anni Cinquanta, ma è l’induismo, con la sua teatralità, la sensualità, il senso della commedia e la legge del karma che ci ha conquistato. Per questo i Beatles sono andati in India, anche se poi sono tornati delusi dal loro guru. Tutti i rituali ci affascinavano, anche se, sfortunatamente, troppi dei miei compagni usavano droghe psichedeliche e funghetti allucinogeni per sostenere la loro ricerca spirituale. Io, cresciuta nella cultura del vino, non avevo nessun interesse nelle droghe, e forse è per questo che sono ancora qui. Un motivo per cui tanti dicono che i miei lavori sono strani o inclassificabili è perché molti dei miei coetanei di talento si sono bruciati il cervello e i polmoni. Mi piace chiamare la mia corrente “critica psichedelica”, anche se non ho mai provato Lsd: sono stata profondamente influenzata dal rock psichedelico, con le sue distorsioni mistiche.
Si definisce una persona religiosa?
Anche se sono atea, sono religiosa. Vedo il mondo come lo vedevano i filosofi del “sublime” nel diciottesimo secolo: sento il timore e lo stupore per la bellezza della natura, per la sua potenza, per la sua grandezza. Ho sempre combattuto i codici morali puritani, le regole sui comportamenti sessuali privati, ma ammiro le religioni per il profondo senso di grandezza e allo stesso tempo di evanescenza che l’uomo rappresenta di fronte al divino. È il segno di una struggente ricerca di significato documentata in tutta la storia dell’umanità.