«Volete restare cristiani?». La storia degli ottocento martiri di Otranto, canonizzati oggi (da Maria Corti)
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi alcuni brani tratti dalla storia degli 800 martiti di Otranto, così come l’ha presentata in forma romanzata Maria Corti - i brani sono comparsi on-on line il 12/5/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (26/5/2013)
Oggi [12/5/2013] saranno canonizzati a Otranto (Lecce) gli 800 Beati Martiri che si rifiutarono di convertirsi all’islam durante l’assedio turco del 1480. Di seguito riproduciamo qualche breve estratto de L’ora di tutti di Maria Corti (Bompiani, 1962), romanzo storico che ripercorre gli eventi attraverso le vicende di cinque personaggi.
Al vespro si sparse la voce che Akmed Pascià in persona veniva a parlarci e che bisognava far molta attenzione perché era un uomo furioso, ignorante e crudele, in quanto dal nulla per le sue ruberie e devastazioni era diventato Pascià, nientedimeno che da stalliere del sultano. Siccome la città era infetta di cadaveri e aveva le strade ancora insanguinate, lui s’era fatto piantare il padiglione sul colle della Minerva, a trecento passi dalla città, e lì se ne stava seduto a gambe incrociate sui tappeti, mentre i cortigiani gli facevano aria coi ventagli di penne di pavone.
Lasciato il nostro posto, ci trovammo ammassati nel cortile grande del castello, dove in tempo di pace i soldati spagnoli e napoletani facevano chilometri marciando avanti e indietro, girando di colpo a sinistra, poi di colpo a destra, agli ordini fanatici di una voce che si sentiva gonfiarsi fin dalla piazzetta; quando la marcia era finita, uscivano con la faccia stupida di fatica e piena di sudore, senza aver fatto niente che servisse a qualcuno. Eravamo forse da mezz’ora radunati, ed ecco che rintronarono sul lastricato le ruote d’una carrozza, i tamburi suonarono e comparve il Pascià: piccolo di statura, nervosetto, bruno di pelle e nasuto assai, portava un gonnellino rosso a bordi neri e in capo un turbante bianco.
Il Pascià, dopo averci guardato con occhietti duri, cominciò a parlare e il calabrese a tradurre; disse: “I vostri capitani e governatori furono dei porci e per questo voi siete finiti così. Nel Corano è scritto: ’L’albero nutrito nelle terre sterili produce frutti alla terra uguali.’ E per questo voi adesso siete servi. Se i vostri capi vi hanno ridotto alla schiavitù, noi vi vogliamo aiutare; abbiamo intenzione di ridarvi le vostre donne, i figli, le case senza chiedervi denari; una cosa sola vi si chiede, lasciare la fede sbagliata, in cui vi hanno insaccati, e prendere quella giusta che predicò sulla terra Maometto, vero profeta di Dio.”
Alle ultime parole tutti i turchi fecero una specie di riverenza, mentre il Pascià, preso in mano un bastoncino di avorio, lo agitò nell’aria, gridando a gola piena: “Vedete quella porta?” Era la porta che dava sul cortiletto di guardia. “Chi vuole avere vita libera, ritrovare la moglie e i figli, venga avanti ed esca dà quella porta. Avanti! ”
Passò qualche minuto, lungo ognuno come ore, tanto l’attesa era spaventosa. Tutti ci guardavamo, nessuno si muoveva. Che Dio mi perdoni, forse se si fosse mosso qualche altro, gli sarei andato dietro, ma primo a muovermi, questo no.
“Avanti, decidetevi,” diceva il calabrese con un sorriso agretto sulla faccia, “non impuntatevi come le capre, andiamo.”
Niente. Tutta la vita dentro ognuno di noi s’era fermata. Il calabrese cominciò a scuotere il capo con l’aria di dire: “Su, da bravi, non fate sciocchezze inutili.”
Allora al Pascià vennero le convulsioni: “Volete restare cristiani? Non ubbidite agli ordini?”
Nel silenzio che seguì si levò una voce:
“Vogliamo restare cristiani,” era la voce di mastro Natale. Il Pascià, domandata la traduzione al calabrese, si drizzò daccapo tutto, piccolo com’era, puntò nell’aria il lungo naso e cominciò a urlare. Era uno sconquasso di parole a sentirlo, tanto che il calabrese se ne stette quieto e zitto finché il terremoto finì; poi cominciò a tradurre, disse che i vinti infedeli non potevano essere lasciati in vita e che quindi noi dovevamo andare a morire; ci avrebbero tagliato la testa, e distrutto così tutto il nostro seme di porci. Il Pascià, senza neanche aspettare come la prendessimo, di botto si voltò, al che i cortigiani piombarono in ginocchio, ma presto alzatisi levarono le mani al cielo, le abbassarono, si toccarono gli occhi e fecero ala al suo passaggio.
* * *
Scese i gradini del sotterraneo il rinnegato calabrese, e fermatosi sull’ultimo, disse: “Statemi a sentire, otrantini. Avete ancora tempo per cambiare idea, sino all’alba. E non è necessario che voi cambiate idea dentro di voi, basta a parole. Che sono le parole infine? Niente sono. Perché avete tanta paura delle parole? “Dapprincipio nessuno rispose, ma al passare di qualche minuto Mazzapinta gridò esasperato: ”Però, quelli che hanno i soldi per il riscatto, non vi fa niente se restano cristiani, eh? Noi invece ci mandate a morire.”
Il calabrese allargò le braccia come il prete all’Ite missa est, sospirò. “E questa cosa com’è?” insistette Mazzapinta. ”Così,” lui rispose. ”Già, così,” ripeté Mazzapinta rosso quanto uno che sta soffocando.
Il calabrese se ne andò.
“Adesso ripeterà il discorsetto negli altri sotterranei” esclamò calmo mastro Natale.
Ognuno di noi, io credo, pensava la stessa cosa e provava un sentimento come se fosse in un posto non vero, con dei compagni non veri, tutto un brutto sogno; solo in fondo al sotterraneo un gruppo di otrantini si scalmanava in una discussione e gridava; forse non avevano ancora deciso se restare o andare. Le loro voci rintronavano nella mia testa vuotata dalla febbre, finché di colpo cominciai a smaniare per i brividi, a sentire delle cascate d’acqua nella schiena.
“Però è vero,” s’infiammò De Raho, “se avevamo denari, restavamo cristiani e restavamo vivi. Non c’è bene per i poveri a questo mondo. È un mondo bello, ma tutto sbagliato, e il nostro è un morire da stupidi, solo perché siamo poveri!”
“No che non è da stupidi,” saltò su Mazzapinta. “Uno viene e ti dice: ‘Adesso butta via tutte le tue idee.’ ‘Eh no, perdio,’ tu rispondi, ‘Io le mie idee non le butto via’, e così muori. Questo non è morire da stupidi.”