Antico Testamento e fede cristiana. Perché il Nuovo Testamento non può fare a meno dell’Antico, di Romano Penna
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Riprendiamo sul nostro sito il testo di una relazione del prof. Romano Penna, pubblicata in La Bibbia nella missione della Chiesa, Quaderni della Segreteria generale della CEI, 2008 (XII), aprile, pp. 14-23 (il quaderno raccoglie gli atti del Convegno dell’Apostolato Biblico tenutosi a Roma, 1-3 febbraio 2008). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (5/5/2013)
Quando parliamo di «antico testamento» usiamo un’espressione che è stata coniata per la prima volta da san Paolo. Essa si trova in 2Cor 3,14, dove l’Apostolo fa riferimento al velo che Mosè si metteva sul volto quando usciva dal suo incontro con Dio perché i Giudei non rimanessero abbagliati dal suo splendore (il racconto si trova in Es 34,29-35).
Paolo però interpreta quel velo doppiamente: sia come immagine del fatto che lo splendore/gloria di Mosè era un dato effimero, sia come allusione al fatto che ancora oggi sugli occhi dei Giudei è posto un velo che impedisce loro di interpretare pienamente le Sacre Scritture.
L’espressione paolina di “antico testamento” propriamente significa «antico patto, antica disposizione testamentaria». È un modo di dire che, se si eccettua l’espressione «il primo testamento» presente nella Lettera agli Ebrei (Ebr 9,15; cf. 8,13; 9,1.13), per lungo tempo e cioè fino alla fine del II secolo non apparirà neanche più nel linguaggio cristiano[1].
Con questo originale costrutto l’Apostolo intende evidentemente esprimere in termini espliciti una vera differenza con quello che contestualmente egli riconosce in esatta corrispondenza come «nuovo patto, nuova disposizione testamentaria» (2Cor 3,6).
Certo però egli non vuole affatto parlare di una abrogazione, la quale semmai nel contesto epistolare è detta a proposito del «velo» che ancora permane sul cuore dei Giudei alla lettura appunto dell’Antico Testamento. Infatti, scrive Paolo, «è in Cristo che esso viene eliminato» (2Cor 3,14).
Invece il sintagma «nuovo testamento» era in qualche modo già tradizionale. Infatti lo si trovava da tempo nella letteratura d’Israele, poiché già il profeta Geremia lo impiegò per primo, sia pure con una valenza escatologica (cf. Ger 31,31: «Verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa d’Israele concluderò una alleanza nuova...»); inoltre, anche la comunità di Qumrân se ne servì in altro senso per designare semplicemente se stessa (cf. CD 6,19; 8,21; 19,33s; 20,12; probabilmente anche 1QpAb 2,3).
Tuttavia, bisogna notare che nei testi giudaici il costrutto non è mai posto in opposizione ad alcun testamento dichiarato «antico». Comunque, esso è pure tradizionale già all’interno del cristianesimo prepaolino, poiché, almeno in qualche ambito ecclesiale (forse antiocheno), era impiegato in contesto eucaristico nelle parole sul calice (cf. 1Cor 11,25/Lc 22,20).
L’autore della Lettera agli Ebrei lo impiegherà anche nella formulazione di un giudizio cristologico compendioso dato su Gesù come sacerdote e vittima di nuovo tipo, definito per due volte in quanto tale «mediatore di una alleanza nuova» (Ebr 9,15; 12,24; cf. anche la «migliore alleanza» in 7,22).
Dunque, la locuzione paolina «antico testamento» è del tutto inusuale, non solo come formulazione linguistica ma anche nella sua semantica. Infatti, mentre con «nuovo testamento» si intendeva esprimere una valenza per così dire contenutistica, di volta in volta riferita o alla Legge da applicare in modi nuovi (in Geremia) o a una comunità che ne realizza fin d’ora le richieste (a Qumrân) o alla originale mediazione cristologica (nei testi cristiani), invece l’espressione «antico testamento» secondo Paolo fa riferimento a qualcosa di scritto, visto che l’Apostolo parla di «lettere incise su pietre» (3,7) e di una sua «lettura» (3,14; cf. 3,15: “quando si legge Mosè”), sia pure orientata all’accettazione di una particolare economia salvifica. Si tratta dunque di un significato che letteralmente è davvero ‘scritturistico’.
Per la verità, non è questo il significato che Paolo vuole attribuire al corrispondente concetto di «nuovo testamento». Di questo, infatti, insieme ai suoi collaboratori, egli si proclama «ministro, servitore» (diàkonos), ed è un servizio che egli compie mediante la sua predicazione e in generale il suo impegno apostolico, volto a favorire non la lettera della Legge ma la potenza dello Spirito di Dio nel cuore del credente.
Dunque, la valenza di ‘scrittura’ vale in primo luogo per il patto antico, il quale così viene però anche riconosciuto almeno in parte come normativo. Ma non si doveva tardare ad attribuire questa stessa valenza anche allo specifico corpus degli scritti normativi cristiani, anche se ciò, a quanto risulta, è attestato appena sul finire del II secolo[2].
A questo punto prendiamo separatamente in considerazione due aspetti della questione, concernenti rispettivamente il come e il perché si operò un passaggio dal Nuovo all’Antico Testamento.
Gli atteggiamenti del Nuovo Testamento nei confronti dell’Antico sono assai diversificati. Se consideriamo le cose da un punto di vista semplicemente quantitativo, sorprenderà constatare la differenza esistente fra i vari scritti neotestamentari. Così, per esempio, la Lettera di Paolo ai Filippesi attesta un unico magro riporto dall’A.T.[3], mentre nell’Apocalisse di Giovanni ne sono stati contati ben 814, e cioè più che in ogni altro scritto[4]. Distinguiamo perciò alcuni aspetti del problema, che mi accontento di richiamare all’attenzione quasi in forma di flash.
1. Come avviene il ricorso all’Antico da parte del Nuovo
1.1 Per quanto riguarda la modalità del fatto stesso del ricorso all’Antico, esso varia molto all’interno del Nuovo. Enumeriamo le seguenti tipologie.
(1) Utilizzo di parole e quindi di un linguaggio, che non fa alcun riferimento esplicito alle Scritture e dunque in superficie appare come linguaggio proprio dell’autore, ma che in ultima istanza trova le sue ascendenze solo nell’Antico Testamento. Così avviene spessissimo, non solo in singoli scritti (cf. per esempio 1Tes 5,8: riferimento approssimativo alla panoplìa allegorica di Is 59,17), ma soprattutto a livello trasversale in tutto il Nuovo Testamento a proposito di nomi di persone, di istituzioni, di concetti. Lo si vede per esempio nelle espressioni analoghe «giorno del giudizio» (Mt 10,15; 11,22.24; 2Pt 3,7), «ultimo giorno» (Gv 6,39.40.44.54), «quel giorno» (Mc 13,32; Mt 7,22; 2Tes 2,10; 2Tim 4,8), «il giorno dell’ira» (Rom 2,5), «il giorno del Signore, di Dio, di Cristo» (At 2,20; 1Cor 1,8; 2Cor 1,14; Fil 1,6; 1Tes 5,2.4; 2Pt 3,10.12; Ap 16,14); esse hanno una sola ascendenza nei profeti d’Israele, come si può verificare in Is 10,20; Os 1,5; 2,23; Am 9,11; Sof 1,14-15.18; Zac 12,3-11; 13,1-4; 14,4.6.8.9.13.20; 1En 45,3.
(2) Riferimento cumulativo e perciò generico alle Scritture. Così avviene nella confessione di fede riportata da Paolo in 1Cor 15,3-5: «morì... risuscitò... secondo le Scritture», senza dettagliare alcun passo specifico come prova. Lo stesso avviene, per esempio, nel colloquio di Gesù con i discepoli di Emmaus in Lc 24,27: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui», senza precisare alcun testo particolare.
(3) Uso e riporto di testi biblici anche ampi, ma senza mai comportare alcuna formula di citazione esplicita, come se i testi veterotestamentari facessero parte del discorso proprio dello scrittore. Così avviene sempre nell’Apocalisse e quasi sempre nella Lettera agli Efesini.
(4) Impiego argomentativo di testi esplicitamente citati mediante formule specifiche (come «sta scritto» oppure «la Scrittura dice») con valore probatorio nel contesto di una discussione di principio. È ciò che avviene soprattutto in Paolo e particolarmente nelle Lettere ai Galati e ai Romani a proposito del tema della giustificazione per fede; ricordiamo in proposito che i testi dell’Antico Testamento citati più di una volta dall’Apostolo sono solo tre: Gen 15,6 (in Rom 4,3.23; Gal 3,6; [parallelamente anche Gc 2,23]); Lev 18,5 (in Rom 10,5; Gal 3,12); Ab 2,4 (in Rom 1,17; Gal 3,11; [parallelamente anche Ebr 10,38]). Osserviamo, inoltre che i testi veterotestamentari in assoluto più utilizzati nel Nuovo Testamento, senza distinguere tra citazioni e riporti o allusioni, sono i seguenti quattro: Sal 110,1 (circa la sessione dell’Unto alla destra di Dio; cf. Mt 22,44; 26,64; Mc 12,36; 14,62; 16,19; Lc 20,42s; 22,69; At 2,34s; Rom 8,34; 1Cor 15,25; Ef 1,10; Col 3,1; Ebr 1,3.13; 8,1; 10,12; 12,2); Is 53,12 (a proposito del Servo di Adonay con i temi del fare bottino, dell’essere annoverato tra gli empi, e del portare i peccati di molti; cf. Mt 12,29; 26,28; 27,38; Mc 15,27; Lc 11,22; 22,37; 23,34; Rom 4,24; 1Cor 15,3; Ebr 9,28; 1Pt 2,24); Is 28,16 (circa la pietra scelta posta in Sion; cf. Mt 21,42; Lc 20,17; Rom 9,33; 10,11; Ef 2,20; 2Tim 2,19; 1Pt 2,4.6); e Lev 19,18 (circa il comandamento di amare del prossimo come se stessi; cf. Mt 5,43; 19,19; 22,39; Mc 12,31.33; Lc 10,27; Rom 12,9; 13,9; Gal 5,14; Gc 2,8: in totale, sei scritti diversi).
(5) Impiego di testi con citazione esplicita e valore probatorio analogo al precedente, ma in contesto narrativo. È il caso tipico di Matteo, che impiega una sua ‘formula di compimento’: «Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto...» (dodici volte: 1,22; 2,15.17.23; 4,14; 8,17; 12,17; 13,14.35; 21,4; 26,56; 27,9; cf. anche 26,54: «Come si potranno compiere le Scritture, secondo cui deve avvenire così?»; e 5,17: «Non sono venuto ad abolire, ma a compiere») per dire che quanto avviene nella storia di Gesù realizza ciò che ne era stato detto (meglio, pre-detto) da parte dei profeti, anche a costo di non avere alcun passo specifico a disposizione (così in Mt 2,23).
Una prima, semplice conclusione deducibile da queste constatazioni è che il ricorso all’Antico Testamento dipende sia dalla particolare intenzione dell’autore che lo utilizza, sia dal tipo di audience a cui egli si rivolge.
1.2 Quanto al testo impiegato nelle citazioni (cf. le precedenti tipologie 3-4-5), gli autori del Nuovo Testamento oscillano senza alcuna uniformità fra tre/quattro tipi di testo: quello ebraico, quello greco dei LXX, una terza forma non conforme a nessuno dei due, e poi anche un possibile riferimento alla letteratura targumica di lingua aramaica. Dò qui un solo esempio, tra i molti possibili, per ciascuno dei quattro casi.
Il testo ebraico (o aramaico) è quello che risuona nel cosiddetto grido di abbandono emesso da Gesù sulla croce secondo due evangelisti: Mc 15,34/Mt 27,46. A monte si intravede il testo di Salmo 22,2, che in ebraico suona allo stesso modo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Invece il testo greco dei LXX ha: «Dio, Dio mio, prestami attenzione, perché mi hai abbandonato?”. Evidentemente gli evangelisti non conoscono la richiesta di soccorso presente nella Bibbia greca.
Il testo greco dei LXX è quello che risuona per esempio in Ebr 10,5. Qui l’autore riporta il testo del Salmo 40,7, non però secondo l’ebraico («Sacrificio e offerta non hai voluto, ma orecchi mi hai scavato», cioè per ascoltare e quindi eseguire la Toràh), bensì secondo il greco: «Sacrificio e offerta non hai voluto, ma un corpo mi hai preparato», cioè per compiere una donazione totale di sé al di fuori di ogni categoria rituale.
Una forma ignota è quella che si trova per esempio in Mc 12,30. Qui Gesù, citando lo Ŝemac (cf. Dt 6,4-5: «Ascolta, Israele, ...»), diverge non solo dal greco dei LXX (poiché a proposito di «con tutta la tua forza» usa un altro termine greco: ischýs invece di dýnamis), ma anche dal testo ebraico, poiché oltre a dire di amare Dio «con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua forza», inserisce prima di questa terza qualità l’aggiunta di «con tutta la tua mente», che non appartiene al testo di Dt 6,5.
Infine, accenniamo anche all’importanza del Targûm, che è una versione del testo biblico fatta in lingua aramaica, ma non letterale bensì ampliata, e che quindi, analogamente ai LXX, rappresenta una riscrittura del testo biblico. Anch’esso può rischiarare vari passi neotestamentari. Un esempio dei più evidenti riguarda 2Tim 3,8s, dove come esempio negativo di oppositori della verità l’autore adduce le figure di «Yannes e Yambres che si opposero a Mosè». Ebbene, per quanto abbiamo qui un richiamo a Es 7,11 («Allora il faraone convocò i sapienti e gli incantatori e anche i maghi dell’Egitto»), nel testo biblico non ci sono i due nomi suddetti, che invece troviamo soltanto in un Targum a Es 7,11 («Allora il faraone convocò i sapienti e gli incantatori, e anch’essi, Yannes e Yambres, maghi che si trovavano in Egitto, fecero le stesse cose [di Mosè]»: TgII).
Come conclusione parziale, possiamo dire in generale che il Nuovo Testamento si rifà all’Antico non con il criterio di una rigorosa fedeltà al testo originale, ma piuttosto con il criterio più souple della fedeltà al senso del testo stesso.
1.3 La modalità del trattamento dell’A.T. investe anche le tecniche della sua spiegazione, che almeno in alcuni casi rimandano a esempi documentati nei testi del giudaismo, sia in quello contemporaneo alle origini cristiane, sia in quello successivo. Alludo al genere del midrash, che è una riflessione di tipo omiletico su uno o più passi biblici accostati; una sua sottospecie si chiama pesher, ed è il commento attualizzante di un testo biblico ben preciso.
Il primo caso si può vedere testimoniato nella riflessione paolina sulla fede di Abramo in Rom 4, dove si affiancano i passi di Gen 15,6 («Egli credette al Signore, che glielo imputò come giustizia») e di Sal 31,1s («Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato; beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male»), entrambi citati da Paolo.
Il secondo genere è piuttosto evidente nel cosiddetto discorso sul pane di vita in Gv 6,30-58, dove Gesù identifica in se stesso «il pane disceso dal cielo», di cui si parla in Sal 78,24 («Fece piovere su di essi la manna per cibo e diede loro pane dal cielo»), anch’esso citato dall’evangelista. Un genere misto si può rinvenire in Gal 3,16, dove l’esegesi cristologica che Paolo fa del testo di Gen 12,7 («Alla tua discendenza io darò questo paese»), individuando in Gesù Cristo la «discendenza» di Abramo, risente di una tecnica semplificatrice di tipo rabbinico, ma in più vi annette una attualizzazione messianica che il rabbinismo non vi ha mai scorto.
1.4 In conclusione, ci corre l’obbligo di fare due osservazioni di carattere generale.
La prima riguarda la considerazione qualitativa che il Nuovo Testamento dimostra di avere nei confronti dell’Antico. Essa si può sintetizzare in quattro concetti diversi che esprimono altrettanti punti di vista[5].
1.4.1 Tutti gli scrittori del Nuovo concordano nel considerare positivamente l’Antico come «Scrittura», cioè esso è comunemente ritenuto normativo (cf. 1Cor 15,3-5). –
(2) Altrettanto, e come ulteriore specificazione, si può dire che gli autori neotestamentari considerano positivamente l’Antico come «promessa», dato che per tutti il fatto cristiano non rappresenta un inizio assoluto ma ha già nell’Antico Testamento i suoi germi (cf. Rom 1,2: «l’evangelo... preannunciato»). –
(3) Non si può dire altrettanto invece della dimensione propriamente storica dell’Antico, cioè di ciò che è realmente avvenuto in quanto raccontato; il Nuovo infatti non s’interessa sempre in modo uguale della successione degli avvenimenti passati: così, mentre a Paolo sta a cuore distinguere bene tra le figure di Abramo e di Mosè (addirittura datandola Legge 430 anni dopo la promessa al patriarca: Gal 3,17), le genealogie di Gesù che leggiamo in Mt 1,1-17 e in Lc 3,23-38, oltre a divergere tra di loro, ci danno una ricostruzione di fatto arbitraria, comandata da preoccupazioni cristologiche. –
(4) Non tutti infine considerano positivamente l’Antico come «Legge», cioè come depositario di un principio salvifico legato all’osservanza dei comandamenti là formulati; in questo senso, infatti, come sappiamo bene, San Paolo è assai critico; ma anche altri scritti, come il Quarto Vangelo, per non dire della Lettera agli Ebrei, si accontentano di leggere nell’Antico una preconizzazione di Cristo ma non un codice di comportamento per la vita cristiana.
1.4.2 La seconda osservazione riguarda il criterio ermeneutico fondamentale che sta alla base di tutto il variegato utilizzo dell’Antico Testamento da parte del Nuovo. Lo si può esprimere semplicemente col dire che il punto di partenza degli autori neotestamentari non è mai il testo dell’Antico Testamento, ma è sempre e soltanto la nuova fede cristiana.
Non si è partiti dall’Antico per costruire la fede del Nuovo, ma viceversa si è partiti da una novità per molti versi inaudita per fondarla poi nell’Antico. Ciò che era primario sul piano oggettivo della storia della salvezza divenne secondario sul piano soggettivo dell’impresa ermeneutica. Persino un testo riportato con fedeltà all’originale, come quello di Gioele3,5 in Rom 10,13 («Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato»), viene riletto con un senso nuovo intendendo «il Signore» non più come YHWH ma come il Cristo risorto.
Del resto, è sintomatico che, a differenza di quanto avviene già a Qumrân e poi soprattutto nel rabbinismo, nessun autore delle origini cristiane senta la necessità di commentare in alcun modo un qualche libro intero dell’Antico Testamento considerato da solo.
Certo alla lunga anche questa impresa si renderà indispensabile, visto che comunque la fede cristiana doveva misurarsi con le Scritture di quel popolo, in seno al quale essa era nata[6]. Ma in prima battuta i seguaci di Gesù hanno dovuto misurarsi né più né meno che con lui soltanto. Lui era la novità, anche all’interno di Israele, ed è solo in rapporto a lui che venne coniato il sintagma stesso di «Antico Testamento», al quale senza di lui non si sarebbe neanche pensato.
Dunque, quel che di lui si sarebbe potuto leggere nell’Antico non avrebbe significato altro che un riferimento, quasi la scoperta di un pre-avviso, e comunque una conferma. Solo il cammino a ritroso di un trasloco nell’Antico per rileggerlo alla luce del Nuovo avrebbe reso possibile finalmente la scoperta del fatto che già l’Antico in realtà era in cammino verso il Nuovo.
È successo un po’ come nei romanzi o films polizieschi, dove un certo dettaglio narrativo diventa importante e acquista valore di indizio solo alla luce del fatto centrale o dell’esito finale del racconto. In ogni caso, questo esito diventa comprensibile proprio alla luce dei fatti precedenti, i quali perciò non hanno solo valore di appoggio estrinseco, ma entrano a far parte a pieno titolo della storia stessa.
2. Perché il Nuovo Testamento ricorre all’Antico
Se il Nuovo Testamento, nonostante tutta la sua novità, fa un ricorso massiccio all’Antico, ci rimane da chiarire il motivo per cui esso ne faccia un uso tanto frequente e abbondante. In proposito si possono individuare un paio di ragioni fondamentali, di cui una di tipo culturale e una di tipo teologico.
2.1 Motivo culturale. Per i primi cristiani era inevitabile scrivere e persino ragionare della loro fede in base alle Scritture d’Israele semplicemente a motivo della loro ebraicità.
In primo luogo, infatti, Gesù stesso fu e resta un ebreo, come ormai, sia in base ad autorevoli documenti magisteriali, sia in base alla ricerca scientifica contemporanea (cf. la cosiddetta «terza ricerca» sul Gesù storico), è ben acquisito alla coscienza cristiana, e questo spiega anche il perché egli si sia rifatto spesse volte alle Scritture di quel popolo[7].
In secondo luogo, poi, anche gli scrittori delle origini cristiane furono di fatto tutti di provenienza giudaica (forse con l’eccezione di Luca?), e anche questo spiega perché pure essi abbiano ragionato su Gesù in termini perlopiù dedotti da quelle medesime Scritture, di cui utilizzarono le categorie come strumento ermeneutico della novità cristiana.
Se poi si aggiunge che persino i primi destinatari degli scritti neotestamentari erano di fatto almeno in gran parte dei cristiani di provenienza ebraica, allora si capisce ancora di più perché ci si dovesse attenere a quella precisa tradizione letteraria.
Quanto alla grande produzione letteraria della grecità, nonostante il Nuovo Testamento attesti qualche suo utilizzo (cf. Arato in At 17,28; Menandro in 1Cor 15,33; Epimenide in Tit 1,12), essa non conosce nessuna speranza messianica (cf. Ef 2,12) e quindi non offriva materia esplicita in questo senso.
Sarà tuttavia fondamentale l’operazione successivamente intrapresa di scoprire anche in quella cultura una provvidenziale praeparatio evangelica, come farà soprattutto Eusebio di Cesarea nel secolo IV[8], ponendo così i precedenti per una inculturazione del vangelo necessaria anche oggi nel suo incontro con le varie culture esistenti nel mondo.
In definitiva, l’ebraicità di Gesù e dei suoi primi discepoli ci riconduce al tema del beneplacito o eudokía divina, del mistero cioè di un piano salvifico insindacabile, secondo cui nella pienezza del tempo Dio mandò il Figlio suo, non solo «nato da donna», ma anche «nato sottola Legge» (Gal 4,4), cioè pienamente giudeo. Ma con ciò veniamo rimandati all’altra motivazione dell’interesse per l’Antico dimostrato dal Nuovo.
2.2 Motivo teologico. Il Nuovo Testamento è talmente impastato di Antico e inestricabilmente legato ad esso che si capisce perché l’operazione tentata nel II secolo da Marcione, che volle escludere dalle Scritture cristiane quelle di Israele, fosse votata al fallimento.
Bisogna infatti fare necessariamente i conti con la convinzione, già gesuana e poi cristiana, secondo cui l’identità messianica di Gesù, nonostante tutta la sua dirompente originalità, non era stata una novità assoluta ma affondava le sue radici nella storia passata.
Essa cioè era stata oggetto di una preparazione, che soprattutto nei testi biblici e nelle vicende della storia d’Israele, a cui Gesù apparteneva, aveva avuto la sua espressione massima. Luca lo dice parlando esplicitamente di un “piano di Dio” (Lc 7,30; At 2,23; At 20,27); da parte sua, la scuola paolina parla di un «mistero taciuto da secoli eterni ma ora manifestato mediante le scritture profetiche» (Rom 16,25-26), mentre trasversale a tutto il Nuovo Testamento è l’idea di una fine del tempo, un télos o meglio un éschaton, che si è già paradossalmente realizzato all’interno della storia[9].
È per natura sua, dunque, che la fede cristiana si impianta su un terreno preesistente, come leggiamo nella Lettera ai Romani a proposito dell’olivastro innestato sull’olivo buono (cf. Rom 11,24).
Più che mai a suo proposito vale il detto proverbiale, secondo cui chi non sa di dove viene non sa neanche dove va. Il Gesù giovanneo certo lo sa bene, se afferma persino con una punta di polemica che le Scritture rendono testimonianza a lui (cf. Gv 5,39). Ma anche Paolo ne è ben cosciente, poiché a proposito dei classici fatti dell’esodo scrive che quelle cose «accadevano loro in forma esemplare e furono scritte per ammonimento di noi, per i quali è giunta la fine dei tempi» (1Cor 10,11).
Guardare all’Antico, dunque, per il Nuovo non significa guardare soltanto indietro come se si trattasse di volgere lo sguardo da una sponda all’altra di un fiume di cui si sia superato il corso. Significa invece rendersi conto di far parte della corrente stessa in movimento. Significa portare già con sé una storia.
Come scrive bene Paul Beauchamp, «il libro, come un fiume, è una strada che cammina e che porta il suo spazio con sé. Esso trascina con sé il suo inizio... La generazione del Nuovo Testamento... obbedisce a un invito che la precede, l’invito a leggere la fine nell’inizio», poiché, osserva acutamente lo stesso Autore, «sconcerta più la teleologia dell’Antico che l’archeologia del Nuovo»[10].
In conclusione, va ribadita l’esistenza di una antinomia, che contrassegna il Nuovo Testamento nei confronti dell’Antico e che in buona retorica non va confusa con l’antitesi, sicché vi coesistono due poli solo apparentemente opposti ma in realtà ben conciliabili l’uno con l’altro.
Da una parte, infatti, è certa la loro diversità, per cui l’un Testamento non si può identificare con l’altro. Dall’altra, però, è altrettanto sicura la loro connaturalità, cosicché, nella questione attuale e dibattuta del possibile aggancio del Nuovo Testamento con le letterature religiose di altri popoli e della loro eventuale ispirazione, non si dovrà perdere di vista il primato della letteratura profetica d’Israele, secondo l’ammonimento che leggiamo in 2Pt 1,19: «Ad essa fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo scuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori».
Note al testo
[1] Sarà il vescovo Melitone di Sardi a usare l’espressione «i libri dell’antico testamento» (secondo la testimonianza di Eusebio, Hist. eccl. 4,26,13-14).
[2] La prima occorrenza di «Nuovo Testamento» in senso letterario è documentata verso il 190 in uno scritto antimontanista di Apollinare, vescovo di Gerapoli, secondo cui «alla parola del Nuovo Testamento evangelico, chi ha scelto di vivere secondo il Vangelo non può aggiungere o togliere nulla» (riportato in Eusebio, Hist. eccl. 5,16,3).
[3] Si tratta di Fil 1,19 (“questo servirà alla mia salvezza”), che riprende il testo greco di Gb 13,16.
[4] Cf. U. Vanni, Apocalisse e Antico Testamento: una sinossi, Pro manuscripto, PIB, Roma 1987.
[5] Più ampi sviluppi in R. Penna, «Atteggiamenti di Paolo verso l’Antico Testamento», in Id., L’apostolo Paolo. Saggi di esegesi e teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1991, pp. 436-469.
[6] Cf. ora l’importante documento della Pontificia Commissione Biblica «Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana», pubblicato nel 2001.
[7] Cf. in merito R. Penna, «La fede di Gesù e le Scritture d’Israele», Rassegna di Teologia 48 (2007) 5-17.
[8] È comunque interessante notare che già l’alessandrino Origene nel suo Contra Celsum (inizi del secolo II) fa abbondante ricorso alle fonti greche: la traduzione italiana di A. Colonna (UTET, Torino 1971) offre due indici: prima di quello delle fonti bibliche (sei pagine per l’Antico Testamento e sette per il Nuovo Testamento) ne è posto uno degli autori greci (di ben quattro pagine).
[9] Cf. R. Penna, Il ‘mysterion’ paolino. Traiettoria e costituzione, RivBibl Suppl. 10, Paideia, Brescia 1978; ID., «Pienezza del tempo e teologia cristiana della storia», Communio 162 (1998, 6) 71-84.
[10] P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento. Saggio di lettura, BCR 46, Paideia, Brescia 1985, pp. 316, 322, 338.