“Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20), di Nicholas Thomas Wright
Riprendiamo sul nostro sito la relazione tenuta da Nicholas Thomas Wright l’11 febbraio 2012 nel corso del Convegno Gesù nostro contemporaneo organizzato dal Progetto culturale della CEI. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2013)
Indice
- Introduzione
- 1. La risurrezione nel primo secolo
- 2. Dall’evento al significato: i quattro Vangeli
- 3. Dall’evento al significato: Paolo
- 4. Conclusione: risurrezione e vocazione
- Note al testo
Introduzione
Sono molto grato dell’invito a partecipare a questo convegno, e per il benvenuto e l’ospitalità che avete offerto a mia moglie e a me. È bello essere ancora una volta a Roma, tra amici.
Sono particolarmente lieto di poter dire qualcosa relativamente al tema della Risurrezione di Gesù, all’interno del più ampio tema “Gesù, nostro contemporaneo”. Troviamo già qui un considerevole paradosso. Da un lato, è proprio perché Gesù è risorto dai morti che egli è vivo in un modo unico e nuovo; che può essere con noi in una presenza viva, che percepiamo nella preghiera e nel silenzio, nella lettura della scrittura e nei sacramenti, e (non da ultimo) nel servizio ai poveri. Egli ci ha promesso tutte queste cose, e le sue promesse non vengono meno: in questo senso egli è davvero nostro contemporaneo.
Allo stesso tempo però, come il nostro titolo indica, sta di fronte a noi, è diverso. È la primizia; noi siamo i frutti che ancora aspettano. Egli è andato avanti mentre noi aspettiamo indietro. C’è di più: il significato della sua risurrezione non può essere ridotto a qualcosa di tanto rassicurante quanto semplice come il considerarlo un “contemporaneo” nel senso di un amico accanto a noi, una presenza sorridente e confortante. Poiché è risorto dai morti, egli è il Signore del mondo, sovrano di tutto il cosmo, colui di fronte al quale noi pieghiamo le ginocchia, credendo che alla fine ogni creatura arriverà a fare lo stesso.
Il titolo che mi è stato assegnato è una citazione da San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi. È un passaggio famoso e centrale e vi ritornerò al momento opportuno. Voglio però iniziare con alcune considerazioni più ampie sulla risurrezione: sull’evento e sul suo significato[1]. Voglio diffondermi su alcune delle sfide che incontriamo oggi nel parlare di risurrezione non soltanto nel dibattito pubblico in senso ampio, in cui l’idea è naturalmente ancora derisa, ma anche nella Chiesa, in cui abbiamo avuto la cattiva abitudine di sminuire e addomesticare quest’idea, la più esplosiva di ogni tempo.
1. La risurrezione nel primo secolo
Iniziamo con il significato centrale della risurrezione nel primo secolo. Dopo generazioni di confusione dobbiamo riaffermare che il termine greco anastasis e le parole ad esso collegate si riferiscono realmente a una nuova vita corporea data a un corpo umano che era stato morto. L’anastasis non era un modo ingegnoso o metaforico di parlare di una sopravvivenza “spirituale” o “non-corporea” alla morte. Gli antichi Greci e Romani avevano molti modi di parlare di cose del genere, e anastasis non è uno di questi. Alcuni suggeriscono ancora che quando i primi discepoli dissero che Gesù era stato risuscitato dalla morte, volevano in realtà intendere che la sua causa, il programma del Regno sarebbe continuato, o che essi avevano un’esperienza della presenza continuata vicino a loro di Gesù, che perdonava loro gli errori e li incoraggiava ad andare avanti con il suo lavoro. Certo credevano realmente che il programma del Regno stesse andando avanti, e credevano che egli li aveva costituiti per portare il lavoro; ma la ragione per cui credevano entrambe le cose era che essi credevano realmente che egli fosse stato risuscitato nel corpo dalla morte, lasciandosi dietro alle spalle una tomba vuota. E questa non era, come è stato talora suggerito, una semplice “rianimazione”, un ritorno allo stesso tipo, esattamente, di vita corporea precedente; non era neanche però una traslazione verso un tipo di vita non-corporea. Quando Paolo descrive il corpo della risurrezione come “spirituale”, la parola che egli impiega non significa “un corpo composto di spirito”, ma “un corpo animato dallo spirito” – o, in questo caso, dallo spirito di Dio[2].
Ho sostenuto altrove che non possiamo comprendere la comparsa nella storia del movimento cristiano degli inizi a meno che non riteniamo basilare la sua credenza che Gesù fosse realmente risorto in questo senso corporeo. Ovviamente qualcuno potrebbe dire che essi erano in errore; ma ho anche argomentato che la migliore ragione per la nascita di quella credenza è che essa fosse realmente accaduta. Le altre spiegazioni – che i discepoli fossero vittime di un’illusione, che uno o più di loro avesse avuto una visione di Gesù come spesso viene raccontato da persone dopo la morte di qualcuno che amavano, e idee del genere – storicamente parlando non reggono. Solo per rispondere all’ultima di queste obiezioni: visioni del genere erano ben conosciute nell’antichità tanto quanto oggi, e il significato di tali visioni non era che la persona fosse improvvisamente di nuovo viva, ma piuttosto essa fosse proprio completamente morta.
Voglio però lasciare da parte questo argomento, e non solo perché io e altri ne abbiamo trattato già a lungo. Ma anche perché è facile essere distolti dalla domanda “ma è avvenuto davvero?” rispetto a quella “ma che cosa significa?”. Poiché noi consideriamo Gesù nostro contemporaneo, l’evento rimane centrale ma il significato è assolutamente importante. Nella Chiesa abbiamo spesso degradato tale significato nei termini di una spiritualità privata o della speranza del paradiso, ma è più profondo e ampio di questo.
La domanda “Ma è avvenuto davvero?” era la domanda posta dall’illuminismo, non solo circa la risurrezione ma circa un gran numero di altre questioni. Alcuni cristiani devoti erano rifuggiti da tale questione, credendo in base a Proverbi 26,4 che se tu rispondi a uno stolto seguendo la sua stoltezza, sarai uno stolto tu stesso. In questo caso, ho assunto il parere contrario, basato su Proverbi 26,5, che si deve rispondere a uno stolto secondo la sua stoltezza, altrimenti egli si crederà saggio. Rimane di enorme importanza investigare le origini storiche della cristianità. Come il Santo Padre stesso ha insistito, è importante ciò che è accaduto realmente nei primi secoli, poiché non siamo gnostici: crediamo in un Dio che è venuto proprio nella materia e sostanza della nostra carne e del nostro sangue ed è morto di una morte reale. Ed è risorto tre giorni dopo.
Il mio argomento, tuttavia, non è che noi possiamo in qualche modo “dimostrare” la risurrezione di Gesù secondo un canone neutrale e oggettivo di plausibilità. Al contrario, questo sarebbe un capitolare di fronte alla follia dell’illuminismo. Il mio argomento, piuttosto, è che noi possiamo, mediante un’indagine storica, palesare la follia di tutte le altre spiegazioni che sono talora state date sulle origini della cristianità. Questo ci spinge a ritornare alla questione ben più ampia, che ovviamente l’illuminismo non voleva affrontare: non potrebbe dopo tutto essere il caso che la visione chiusa di alcune scienze moderne sia sbagliata, e che il mondo sia creato e amato da un Dio che non è distante, distaccato e incapace di agire all’interno del mondo, ma piuttosto da un creatore che rimane misteriosamente presente e attivo all’interno del mondo in mille modi, alcuni dei quali drammatici e inaspettati?
Ho spesso usato come immagine l’idea di un college o di una scuola che riceve in dono da un vecchio alunno un quadro meraviglioso. Il quadro ha una tale magnificenza che deve essere esposto, ma al momento non c’è un luogo adatto negli edifici del college. Alla fine il college decide di abbattere alcuni degli edifici principali e di ricostruirli attorno all’esposizione del quadro. Facendo questo, scoprono poi che molte caratteristiche poco apprezzate di come era il college in precedenza – la disposizione, l’architettura, le stanze poco comode – sono state risolte nella nuova configurazione. Il dono era giustamente stato donato al college, ma il college, per accettarlo, doveva essere trasformato. Questo, credo, è ciò che avviene con la risurrezione. Non si può (ovviamente) adattare questo alla visione del mondo modernista dell’illuminismo europeo. Quando però smantelliamo il deismo del diciottesimo secolo, che fa leva su una completa separazione fra Dio e il mondo, e demoliamo il pregiudizio pseudo-scientifico che dice che il mondo spazio-temporale è un continuum chiuso di cause ed effetti, non scopriamo solo che la risurrezione di Gesù è ottimamente ragionevole: essa ci indirizza e ci aiuta a risolvere tutti i tipi di cose relativi alla visione moderna, che hanno causato e ancora causano problemi. Potremmo, giusto per cominciare, guardare ai moderni sistemi occidentali della democrazia e della finanza…
Torniamo al primo secolo. Molti Ebrei (non tutti) credevano nella risurrezione del corpo come destino ultimo di tutto il popolo di Dio, forse di tutti gli uomini. Essi chiaramente intendevano la risurrezione del corpo, come possiamo vedere per esempio in 2Mac 7. Non basta però semplicemente dire che i primi cristiani, essendo Ebrei devoti, avessero in mente questa categoria nella loro afflizione dopo la morte di Gesù. La visione della risurrezione dei primi cristiani è totalmente giudaica, ma anche significativamente differente da quanto troviamo nel giudaismo pre-cristiano, nel quale si riteneva che la “risurrezione” sarebbe avvenuta per tutti alla fine, non per una sola persona nel mezzo della storia. Né, anteriormente ai primi cristiani, qualcuno aveva formulato l’idea che la risurrezione potesse significare la trasformazione di un corpo umano, cosicché fosse ancora certamente tale ma anche al riparo dalla corruzione, dal decadimento e dalla morte. Neppure c’era nella prima cristianità, come invece c’era nel giudaismo, una gamma di credenze sulla vita oltre la morte.
Credevano tutti nella risurrezione, cioè in una realtà dopo la morte a due stadi: coloro che appartenevano a Gesù sarebbero morti, ma poi avrebbero riposato “nelle mani di Dio” (Sap 3,1) e in un momento successivo sarebbero stati risuscitati. In alcuni miei scritti, ho fatto riferimento al primo stadio come alla “vita dopo la morte” e al secondo come “la vita dopo la vita dopo la morte”.
Una delle differenze più rilevanti fra il credo cristiano e il credo giudaico pre-cristiano è che nessuno si aspettava che il Messia sarebbe stato risuscitato dalla morte, per l’ovvio motivo che nessuno si aspettava che il Messia sarebbe stato ucciso. Abbiamo testimonianze di molti movimenti messianici o sedicenti messianici nel secolo precedente e in quello successivo alla nascita di Gesù: generalmente finivano con la morte violenta del fondatore. Quando ciò accadeva, i loro seguaci avevano di fronte una scelta: abbandonare il movimento o trovarsi un nuovo leader. Ci sono testimonianze di entrambi i casi. Andare in giro dicendo che il tuo fondatore è stato risuscitato dai morti non era un’opzione, tranne che nel caso dei seguaci di Gesù di Nazareth.
Da tutto ciò concludo – cosa che potrebbe naturalmente essere articolata molto più in dettaglio – che possiamo comprendere la cristianità degli inizi solamente come un movimento che emerge all’interno del giudaismo del primo secolo, ma che è così diversa da tutto ciò che sappiamo del giudaismo del primo secolo (e le diversità non hanno alcuna somiglianza con aspetti del mondo pagano) che siamo costretti a chiederci che cosa abbia causato questi cambiamenti. L’unica risposta plausibile è che essi furono causati dall’effettiva risurrezione corporea di Gesù verso una fisicità trasformata. Metti a posto questo pezzo e si può spiegare tutto; levalo e tutto causa perplessità e confusione. Naturalmente, questo ha un prezzo. Non si può semplicemente dire: “Bene, sembra proprio che Gesù di Nazareth sia risorto dalla morte” e andare avanti come se niente fosse. Se è accaduto, significa che è nato un mondo nuovo. Questa è, in ultima analisi, la buona notizia di Pasqua, la buona notizia che il razionalismo illuminista ha cercato di nascondere e che da parte sua la Chiesa ha spesso tragicamente dimenticato. Per affrontare il problema, però, dobbiamo passare alla sezione seguente della conferenza.
2. Dall’evento al significato: i quattro Vangeli
Penso, infatti, che la domanda razionalistica “ma è successo davvero?”, sebbene molto importante e degna di una risposta, ha anche spesso avuto l’effetto di prevenire una riflessione approfondita su che cosa abbia significato, e che cosa tuttora significhi, la risurrezione di Gesù. La Chiesa si è spesso accontentata di fare due cose insieme: primo, “dimostrare” la risurrezione con un argomento più o meno razionalistico; secondo, dire che “pertanto Gesù è vivo oggi, e noi possiamo arrivare a conoscerlo”, o forse anche “pertanto Gesù è la seconda persona della Trinità”. Spesso si sente anche, specialmente nelle omelie di Pasqua, che “Gesù è stato risuscitato, perciò anche noi andremo in paradiso”. Sono tutti modi di dire, all’interno della stessa struttura del diciottesimo secolo, che la pretesa cristiana è vera e le pretese scettiche sono false.
Il che va bene fin quando regge, ma non va affatto lontano abbastanza. È interessante, infatti, che il Nuovo Testamento non compia queste connessioni allo stesso modo. C’è davvero pericolo che mandiamo in corto circuito il processo e obblighiamo la risurrezione a significare quel che vogliamo noi, senza prestare la dovuta attenzione a quanto è stato effettivamente detto dai primi cristiani. Nei capitoli conclusivi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, e nel capitolo iniziale degli Atti, nessuno dice che, visto che Gesù è nuovamente vivo, adesso possiamo conoscerlo, o che è la seconda persona della Trinità (sebbene Tommaso dica “Mio Signore e mio Dio”, Gv 20,28). In particolare nessuno nei Vangeli dice che, poiché Gesù è stato risuscitato dai morti, allora siamo sicuri di avere il nostro posto in paradiso. Quel che sentiamo forte e chiaro, nei racconti della risurrezione e nella prima teologia di Paolo, è qualcosa del genere di ciò che segue.
Per iniziare, Gesù fu crocifisso come un pretendente messianico: tutti i vangeli dicono che le parole “Il re dei Giudei” vennero affisse sopra la sua testa. La risurrezione sembra poi capovolgere il verdetto della corte giudaica e del processo romano: Gesù era realmente il Messia di Dio. A questo punto però quasi nessun cristiano moderno ha capito il significato della visione ebraica del Messia, che si rifà a brani come Is 11 e i salmi 2 e 72 (71 nella Vulgata). Il punto sul Messia di Israele è che quando apparirà, sarà il re non solo di Israele, ma di tutto il mondo. La visione di Paolo – “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi” (Fil 2,10) – è essenzialmente messianica prima ancora di essere una visione di Gesù come seconda persona della Trinità, sebbene sia anche questo, e Paolo credeva che le due visioni fossero fatte per saldarsi l’una con l’altra.
Se però non cogliamo la visione specificamente giudaica della messianicità, e la credenza della prima cristianità, basata sulla sua risurrezione, che Gesù fosse il Messia, non arriviamo al cuore del problema. “Gesù nostro contemporaneo” è Gesù l’ebreo, Gesù il Messia, Gesù che ha inaugurato il Regno di Dio sulla terra come nel cielo. Per molti secoli la Chiesa occidentale ha fatto del suo meglio per obliare il chiaro significato dei quattro vangeli, e l’illuminismo ce ne ha allontanati ancora di più. I vangeli si basano sull’antica credenza ebraica che la chiamata di Dio ad Abramo fosse la chiamata di un popolo, attraverso cui egli avrebbe salvato gli uomini e il mondo dalla loro condizione. Nella sua lunga storia quel popolo è sembrato spesso aver perso la strada, ma i quattro vangeli raccontano la storia di Gesù, culminata nella sua morte e risurrezione, come la storia del modo in cui il piano di Dio per Israele, e il suo piano per il mondo per mezzo di Israele, sia stato finalmente portato a compimento. La risurrezione di Gesù ha il significato che ha nei quattro vangeli poiché è il compimento di quella visione e di quella speranza. È il momento in cui, come Gesù stesso spiega ai discepoli sulla strada per Emmaus, si compie tutto ciò che i profeti avevano detto. “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”, dicono i discepoli tristi e disorientati, e allora Gesù risorto spiega che egli non soltanto ha redento Israele ma sta inviando nel mondo questo Israele redento – i suoi seguaci equipaggiati con lo Spirito e istruiti con la Scrittura – con il messaggio che il Dio di Israele è il suo vero e signore salvatore e re (cfr Lc 24,21.25-27.44-49; At 1,6-8).
Se la risurrezione di Gesù è il compimento della storia di Israele, è anche, per la stessa ragione, il compimento della storia di Dio stesso. Qui dobbiamo essere cauti: quanto è facile per noi, con la nostra sviluppata teologia trinitaria, lanciarci a capofitto in Agostino o Tommaso d’Aquino, in Gregorio o Atanasio. Per il momento mettiamo tutto questo fra parentesi e pensiamo a come gli ebrei del primo secolo raccontavano la storia del Dio di Israele. Il Dio di Israele aveva abbandonato Gerusalemme e il Tempio al tempo dell’esilio. Ezechiele, che descrive la gloria divina che lascia il Tempio, promette che questa gloria ritornerà, ma non ci dice mai che ciò è accaduto. In realtà, alcuni profeti parlano del ritorno di YHWH a Sion come l’apice del ritorno dall’esilio, ma da nessuna parte qualcuno dice che ciò sia accaduto. Isaia parlò della gloria di YHWH che si rivelerà “e tutti gli uomini insieme la vedranno” (40,5), e delle sentinelle di Gerusalemme che gridano di gioia perché possono vedere a occhio nudo YHWH che ritorna in Sion (52,8). Nessuno mai però ha mai suggerito, durante i quattro secoli del giudaismo dopo l’esilio, che ciò alla fine sia avvenuto. Zaccaria dice che avverrà (14,5); Malachia, rivolgendosi ai sacerdoti stanchi, insiste che “entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate” (3,1). Ma non lo ha ancora fatto.
Gli evangelisti raccontano la storia di Gesù precisamente come la storia del modo in cui YHWH sia infine tornato a Sion, in modo inaspettato, scioccante e disonorevole. Non è il nostro tema oggi: però credo che tutto ciò, con tutti i significati reconditi dell’attesa ebraica del ritorno del Dio di Israele nel Tempio, è veramente al centro della cristologia del Nuovo Testamento. Basti sottolineare che, quando arriviamo ai racconti della risurrezione, il punto è stato già argomentato. Matteo e Marco insistono sul fatto che al battesimo di Gesù le profezie di Isaia e di Malachia sono arrivate a compimento. Luca dice che quando Gesù è arrivato a Gerusalemme, i suoi abitanti non hanno riconosciuto il tempo della visita di Dio presso di loro(19,44). Questo, in altre parole, era il momento in cui YHWH sarebbe infine tornato. Giovanni (1,14) dice che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria”: in altre parole Gesù è la rivelazione della gloria di Dio, che infine torna al suo popolo nella forma del tempio che è il suo corpo. Questa è la ragione per cui, bilanciando anche l’affermazione iniziale in Gv 1,14, in 20,28 troviamo Tommaso che esclama “Mio Signore e mio Dio”. Egli vede e riconosce la gloria di Dio nel volto, nelle mani e nel fianco trafitti, di Gesù risorto. Non avevamo mai pensato che la gloria di Dio potesse avere quell’aspetto.
Vi rendete conto che a questo punto è anche troppo facile per noi scivolare in una forma di docetismo: pensare semplicemente “Bene, la risurrezione prova che Gesù è Dio” e dimenticare le ricche dimensioni umane della storia. In quest’occasione il nostro tema però ci obbliga a riconoscere nella risurrezione che (per così dire) “dio” è Gesù: che nell’uomo di Nazareth non vediamo solo Gesù nostro contemporaneo, ma anche Dio nostro contemporaneo. Riconosciamo Dio di fronte a noi, ferito per i nostri peccati e offeso per le nostre iniquità, e ascoltiamo il profeta che dice “Chi avrebbe pensato che egli era il braccio del Signore?” (cfr Is 53,1).
Così se la risurrezione di Gesù, nei vangeli, è il punto in cui la storia di Israele e anche la storia di Dio arrivano al loro culmine decisivo, è anche necessariamente il momento in cui nasce davvero la Chiesa. Naturalmente, c’è un senso in cui la Chiesa nasce con la chiamata di Abramo; in un altro senso il momento chiave è la chiamata dei primi discepoli; un altro ancora per cui il momento centrale è Pentecoste. Non possiamo però leggere le storie della risurrezione senza capire che è quello il grande punto di svolta, quando un gruppo di uomini e di donne impauriti e disorientati inciampano, malgrado se stessi, nella verità che la storia del mondo ha girato l’angolo più importante, che una nuova energia è stata liberata nel mondo, che è stata aperta una porta che nessuno può chiudere. La Chiesa è nata in quel momento, non come istituzione, non come gruppo sicuro e autoreferenziale, ma precisamente come un branco di gente sorpresa che viene a patti con qualcosa molto più grande di quanto avesse osato o voluto immaginare.
La Chiesa è nata mentre Maria, Pietro e Giovanni correvano avanti e indietro nella penombra, titubanti tra lacrime e domande. La Chiesa è nata nel momento in cui i due discepoli di Emmaus hanno riconosciuto lo straniero allo spezzare il pane. La Chiesa è nata quando l’angelo ha detto ai seguaci di Gesù di affrettarsi in Galilea, perché Gesù si stava già recando lì. La Chiesa è nata quando egli ha aperto la loro mente all’intelligenza delle scritture. E tutto questo è a servizio della missione del Regno. Nella risurrezione è accaduto qualcosa, a causa di cui Gesù è ora il contemporaneo che interpella non solo i suoi primi seguaci, ma il mondo intero. Egli ancora ci precede e dobbiamo affrettarci per raggiungerlo.
Finalmente, pertanto, i racconti della risurrezione portano al culmine – per implicazione, ma quando impariamo a leggere i vangeli in modo appropriato l’implicazione è molto chiara – la sfida del Regno di Dio ai regni del mondo. Qui devo, con il massimo rispetto e ammirazione, dissentire dal Santo Padre circa la sua idea che la conquista di Gesù sia la separazione del religioso dal politico. C’è un senso ovviamente in cui questo è vero, poiché le profondità infinite dell’amore divino ci invitano a una vita intera di esplorazione, che trascende completamente ogni vita umana e ogni organizzazione nazionale ed internazionale. Ma ciascuno degli evangelisti, a suo modo, racconta la storia di Gesù come un confronto fra Gesù e la famiglia di Erode, fra Gesù e Cesare o i suoi rappresentanti, e alle loro spalle tra Gesù e gli oscuri poteri satanici che gridano o complottano contro di lui. Sono stati i poteri del mondo, spirituali ma anche politici, a mettere Gesù in croce, e la risurrezione di Gesù nostro contemporaneo è perciò la vittoria di Gesù su tutti i poteri del mondo. Nel Venerdì Santo, ai capitoli 18 e 19 di Giovanni, egli parla con Ponzio Pilato del regno, della verità e del potere, e quando Giovanni continua a raccontare la storia della risurrezione vuole che vediamo che il regno, la verità e il potere sono rinati in Gesù in una forma nuova. È perciò parte del compito della chiesa comprendere che cosa ciò significhi.
È per questo che Paolo, il nostro primo testimone scritto, collega la risurrezione in modo diretto e messianico alla sovranità del mondo ora rivendicata da Gesù. All’apice dell’argomentazione teologica della lettera ai Romani, egli cita Isaia 11: il virgulto di Iesse fiorisce – risorge! – per guidare le nazioni e in lui le nazioni confideranno (cfr Rm 15,12). Questo rimanda – e ne conferma l’interpretazione – alla reale apertura della lettera ai Romani, in cui la risurrezione ha pubblicamente costituito Gesù, il Messia davidico, come “figlio di Dio con potenza”, in un mondo in cui “figlio di Dio” significava, in modo non ambiguo, Cesare stesso. Il significato politico della risurrezione è, credo, una delle ragioni più profonde per cui, nella filosofia dell’illuminismo, alla Chiesa veniva ripetuta, la domanda: ma è successo davvero?
La filosofia illuministica, che ha plasmato il nostro mondo contemporaneo in modo così radicale, insisteva sul fatto che la storia del mondo ha compiuto la sua svolta essenziale in Europa e in America nel diciottesimo secolo. Era, dice ancora oggi la banconota americana da un dollaro, “un nuovo saeculum”. Se è vero però che Gesù è stato risuscitato dai morti, allora è Pasqua il grande punto di svolta della storia mondiale. La storia mondiale non può avere due punti cardine. L’obiettivo dell’illuminismo era bandire Dio al piano superiore, lontano dagli occhi, cosicché l’uomo moderno illuminato potesse governare il mondo a modo suo – e noi abbiamo visto che macello ciò ha prodotto, proprio là dove l’Illuminismo era maggiormente di casa. La Chiesa è rimasta a bordo della giostra, soddisfatta di giocarsi la propria spiritualità privata con un Gesù contemporaneo che è stato solo un’ombra del vero Gesù. Però quello davvero contemporaneo si confronta con tutte le pretese del potere di oggi, proprio come fece con Ponzio Pilato nel primo Venerdì Santo; e la risurrezione è il segno che il suo regno, la sua verità e il suo potere erano quelli giusti. Man mano che le grandiose ambizioni dell’illuminismo europeo e americano appaiono sempre più logore, spetta alla Chiesa esplorare di nuovo i compiti sociali, culturali e politici che ci sono stati affidati dalla risurrezione di Gesù nostro contemporaneo.
3. Dall’evento al significato: Paolo
Vado ora al passo da cui ho tratto il titolo, 1Cor 15,20: il Messia “è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”. I primi frutti sono stati offerti, all’inizio del raccolto, come segno che molto ancora deve venire. Così è con il Messia, come abbiamo già visto: egli è andato avanti, e il resto di noi seguirà. Questa è una delle grandi innovazioni cristiane nell’escatologia: la nozione di “risurrezione” è stata divisa in due, e noi viviamo fra queste due – la risurrezione di Gesù e la nostra – non come spettatori passivi di un dramma apocalittico, ma come partecipanti attivi. Gesù nostro contemporaneo coinvolge coloro che credono in lui, in quel che potremmo chiamare il suo progetto di risurrezione, il suo progetto per il Regno, il suo compito di portare la sua sovranità e la sua legge salvifica a influire su tutto il mondo.
L’obiettivo di 1 Corinzi 15 è, dopo tutto, collocare la risurrezione futura dei credenti nella più ampia visione del Regno di Dio. I versetti 20-28 sono la classica dichiarazione paolina del Regno di Dio, attentamente sfumata: in quel momento Gesù regnerà, governerà il mondo, e quando avrà finito con lo sconfiggere la morte stessa, allora consegnerà il regno al Padre, cosicché Dio sarà “tutto in tutti” (Rm, 15,28). Essere afferrati da Gesù risorto nostro contemporaneo significa lasciarsi afferrare da questa visione del Regno, da cui la Chiesa occidentale, sia cattolica che protestante, ha così spesso e così tristemente indietreggiato. Naturalmente per i nostri contemporanei secolarizzati non ha senso suggerire che Gesù governa nel mondo, ed è così sin da Pasqua. Molte persone guardano alle violenze continue, alla falsità e al caos degli ultimi duemila anni e affermano che sia ridicolo affermare che Gesù è al governo. Quando però leggiamo i Vangeli, troviamo un senso diverso. Pensiamo alle Beatitudini, non soltanto in quanto offrono una benedizione a coloro che vi sono descritti, ma attraverso di loro al mondo. Questo è il modo in cui Gesù vuole che il mondo vada: chiamando persone a essere operatori di pace, miti, umili, affamati di giustizia. Quando Dio vuole cambiare il mondo, non invia i carri armati, invia i miti, i puri di cuore, coloro che piangono per i mali del mondo e sentono compassione per i suoi errori. E quando i manipolatori del potere si accorgono di quanto sta succedendo, i seguaci di Gesù hanno già costruito scuole e ospedali, hanno sfamato gli affamati e si sono presi cura degli orfani e delle vedove. È ciò per cui era conosciuta la Chiesa primitiva, ed è il motivo per cui essi hanno messo tutto sottosopra. Nei primi secoli la cosa principale che gli imperatori sapevano dei vescovi era che stavano sempre dalla parte dei poveri: non sarebbe bello se oggi fosse lo stesso?
La morte è l’ultimo nemico, secondo quanto dice Paolo in questo capitolo, e noi viviamo in un mondo che tratta ancora la morte come la valuta principale. Se proclamiamo Gesù nostro contemporaneo, affermiamo di conoscere e amare colui che ha sconfitto la morte stessa, non con più morte, non con una maggiore capacità di fuoco, ma con il potere dell’amore e della nuova creazione.
C’è di più, molto di più in ciò che Paolo dice su Gesù, il nostro contemporaneo risorto. Faccio grande fatica a trattare questo punto, ma devo farlo. Per quanto riguarda Paolo, Gesù è l’unico essere umano che è stato finora risuscitato dalla morte, e Paolo non si aspetta che nessun altro lo sia fino alla Parusìa. Ho il sospetto che altre idee si siano furtivamente inserite molti secoli più tardi, non ultimo quando la Chiesa medievale perse la sua comprensione della risurrezione stessa e ritornò a quello che era sostanzialmente un antico schema pagano di un paradiso beato e disincarnato e di un inferno terribile. Questo è un tema per un’altra volta. Per Paolo però è Gesù stesso che è nostro contemporaneo, Gesù che governa già e che pianifica di ritornare a completare il suo regno sulla terra come nel cielo.
Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti; e noi che lo celebriamo come nostro contemporaneo siamo incaricati di lavorare con lui al suo progetto per il Regno nel tempo presente. 1Cor 15 è un capitolo spettacolare, ma uno dei suoi versetti più rilevanti è l’ultimo (v. 58), dove Paolo non dice “perciò godetevi la presenza di Cristo”, anche se avrebbe potuto farlo, o “perciò guardiamo alla nostra gloria futura”, anche se avrebbe altrettanto potuto dirlo. Egli dice “perciò … rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore perché la vostra fatica non è vana nel Signore”. Questo è al cuore del significato della risurrezione. Poiché Dio sta già operando la sua nuova creazione, tutto ciò che tu fai in Cristo e mediante lo Spirito è parte di quel nuovo mondo. Ogni bicchiere di acqua fresca, ogni minuscola preghiera, ogni confronto con i prepotenti che opprimono i poveri, ogni canto di lode o danza di gioia, ogni opera d’arte e musica – niente va sprecato. La risurrezione lo riaffermerà, in un modo che non possiamo immaginare, come parte del nuovo mondo di Dio. La risurrezione non riguarda soltanto un futuro glorioso, riguarda un presente pieno di significato. Questo è il significato del fatto che Gesù, nostro contemporaneo, è risorto dai morti come primizia di coloro che sono morti.
4. Conclusione: risurrezione e vocazione
Ho detto quel che volevo dire, però non posso fermarmi proprio qui. Tornate con me, come conclusione, al vangelo di Giovanni, a quei due capitoli finali in cui vediamo Gesù risorto che incontra tre persone chiave: Maria, Tommaso e poi Pietro. Conoscere Gesù risorto come nostro contemporaneo è conoscerlo in questo modo sempre misterioso, sempre radicalmente provocatorio. Se ne potrebbe dire molto di più, ma spero che queste brevi riflessioni servano per fissare e focalizzare il nostro intero tema.
In primo luogo, Maria Maddalena. Lei è la prima a vedere il Signore risorto, e lo scambia per il giardiniere. A ragione, del resto: poiché, per Giovanni, questo è l’inizio della nuova creazione, con la luce che fa breccia nelle tenebre di un giardino sul far del giorno. Gesù e Maria non sono esattamente il nuovo Adamo e la nuova Eva, ma il richiamo del primo giardino e della guarigione della sua antica ferita è fortemente presente. Quando Maria guarda attraverso le proprie lacrime e vede prima gli angeli e poi Gesù stesso, riconosciamo non solo una nuova realtà ma un nuovo modo di conoscere quella realtà: una nuova creazione che deve essere conosciuta attraverso coloro che sono in lutto, coloro che piangono per la loro perdita, per la perdita del mondo. E la risposta di Gesù alla sua domanda titubante è più potente di quanto possano riconoscere le nostre traduzioni. Fino a quel momento, in molti testi, Maria è stata chiamata con il suo nome greco, Maria; ma ora, in molti manoscritti, Gesù la chiama col suo nome aramaico, Mariam: il suo nome originale, il nome con cui la chiamavano i suoi genitori, il nome di sua madre. E in quel modo nuovo di chiamarla c’è anche un mandato: Maria, Miriam, deve essere apostola per gli apostoli, la prima ad annunciare a chiunque altro che egli è risorto, che sta per essere intronizzato come Signore del mondo. C’è qui un mare di riflessione vocazionale in cui possiamo nuotare a nostro piacere.
Secondo, Tommaso. Tommaso è abbastanza differente da Maria: niente lacrime, piuttosto una resistenza ostinata. Egli richiede prove: vuole vedere, toccare. Tommaso rappresenta i molti, nella nostra cultura, che ancora chiedono con l’illuminismo (sebbene naturalmente la tendenza sia molto più antica): “Ma è vero?”. Egli non vuole vivere in un mondo fantastico immaginato nella storia di qualcun altro. O realtà o niente, per lui – e a buon titolo, poiché il Dio di Israele è il creatore e la speranza di Israele riguarda il rinnovamento della creazione, non una fuga dalla creazione in un mondo fantastico. E Gesù incontra Tommaso a carte scoperte. Non dice, come alcuni teologi oggigiorno direbbero: “No, Tommaso, la stai prendendo in modo sbagliato; qui non parliamo di prove scientifiche, hai bisogno di un’epistemologia differente”. C’è un rimprovero gentile ma fermo: beati coloro che anche senza vedere, crederanno. Questo però avviene solo dopo che Gesù abbia prima offerto le sue mani e il suo fianco a Tommaso. Vuoi prove? E prove avrai. Non ci viene detto, comunque, che Tommaso abbia allungato veramente la propria mano per toccare. Al contrario, egli spicca un balzo ben oltre ciò che gli altri avevano già detto. Talora è il dubbioso che, una volta convinto, diviene il più penetrante. “Mio Signore e mio Dio!” È il culmine del vangelo; e vi invito a riflettere sul fatto che non sarebbe accaduto in questo modo se Tommaso non avesse posto la sua domanda. Vedo qui come minimo gli inizi di una parabola sulla natura della conoscenza, di ogni conoscenza, ai giorni nostri.
E da ultimo Pietro. Conoscete bene, naturalmente, la storia della colazione in riva al lago, e sono sicuro che siate consapevoli che il fuoco della brace in Gv 21,9 vuole fare tornare in mente a noi lettori il terribile momento, nell’atrio della casa del sommo sacerdote, con un altro fuoco di brace (Gv 18,18), quando Pietro per tre volte negò persino di conoscere Gesù. Non c’è dubbio che il suo profumo abbia fatto tornare in mente a Pietro anche quel momento. Se questa piccola storia è l’inizio del vero ministro petrino, come alcuni hanno suggerito, allora dobbiamo notare che questo ministero inizia con un confronto e un pentimento. “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?”
È una domanda con cui tutti noi dobbiamo confrontarci, forse in modo particolare quelli tra noi chiamati al ministero e alla guida nella Chiesa. Se conosciamo il nostro cuore – e male ne incolga a una Chiesa che è guidata da persone che non lo conoscono – sappiamo che noi tutti abbiamo abbandonato Gesù, che i nostri cuori e le nostre menti sono pieni di memorie dei nostri personali fuochi di brace, delle volte in cui mediante le nostre azioni e le nostre parole abbiamo di fatto negato persino di conoscere Gesù. Tuttavia Gesù viene ancora, e viene di nuovo, e ci pone la stessa domanda: “Mi ami tu?”
Il testo greco mostra molto chiaramente che la risposta di Pietro usa una parola diversa. Non riesce a dire la parola agapao, la parola per l’amore che dona se stesso completamente che Gesù stesso ha mostrato sulla croce. Pietro usa il termine phileo: “Sì, Signore” dice, “Tu sai che io ti voglio bene”. È il massimo che riesce a fare. Qualunque altra cosa sarebbe sembrata un ritorno a quando faceva lo smargiasso, a quando si vantava: “Sì, Signore, ce la posso fare, posso fare tutto per te”. È quel che aveva detto nella stanza del cenacolo (cfr Gv 13,36-37). Pietro sta per ripartire da molto più indietro.
Poi però il miracolo: “Bene, allora,” risponde Gesù, “pasci i miei agnelli”. È il momento che noi, come pastori e capi nella Chiesa, dobbiamo notare più da vicino, il momento in cui Gesù risorto diviene ancora una volta il nostro scomodo contemporaneo. Ci aspettiamo, forse, una nota di rimprovero: “Perché mi hai abbandonato?” Spereremmo in una parola di perdono: “Pietro, tu mi hai abbandonato, ma io ti perdono”.
Quel che non ci aspettiamo è una nuova parola di mandato: “Pasci i mie agnelli”. Questo è il miracolo della risurrezione applicato direttamente alla vocazione. Ogni vocazione a essere pastore nella Chiesa di Gesù risorto avviene nella forma del perdono. Il perdono e il mandato si rivelano essere la stessa cosa. Il perdono non ci porta mai semplicemente indietro a una posizione neutrale; e il mandato non può mai basarsi sul fatto che siamo brave persone, qualificate e ben preparate per quel che abbiamo da fare. Questo era il problema di Pietro prima. Ora egli inizia di nuovo in un modo più appropriato: con pentimento, perdono e nuovo mandato. Questo è il regalo di Gesù risorto a Pietro, e grazie a Dio anche a noi.
La cosa però non si ferma qui. Gesù pone la stessa domanda una seconda volta e ottiene la stessa risposta, ribattendo questa volta con “pasci le mie pecorelle”. Poi però, alla terza occasione, Gesù cambia la domanda. Pietro aveva detto, “Sì, Signore, tu sai che io ti voglio bene”. Ora Gesù chiede, “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” Giovanni, raccontando la storia, indica che Pietro fu turbato che in questa terza occasione Gesù usasse quelle parole. Egli pensò forse che Gesù non gli credeva, che stava mettendo in discussione anche l’ultima affermazione che aveva fatto.
Io non la vedo così. Penso che Gesù stia dicendo, in effetti: “Molto bene, Pietro: se è questo il punto in cui tu sei, questo è il punto da cui partiremo. Se puoi dire che mi vuoi bene, cominceremo a costruire su questo. Adesso pasci le mie pecorelle”. E poi, naturalmente, passa ad avvisare Pietro su quanto lo aspetta; questo impegno nel pascere il gregge gli costerà niente di meno che tutto, come è costato al Pastore capo in persona.
Questo però, per me, sta al cuore del messaggio di Gesù nostro contemporaneo, colui che è risorto dai morti come primizia di coloro che sono morti. Con la risurrezione, ha visto l’alba una nuova creazione, e in questa nuova creazione si sono aperte davanti a noi nuove possibilità. La risurrezione non è la fine della storia; è l’inizio di una nuova storia, precisamente perché Gesù è la primizia e la pienezza del raccolto deve ancora venire. E noi che siamo stati chiamati a lavorare all’interno di questa nuova creazione, dal ministero petrino fino a tutti gli altri ministeri, troviamo questi ministeri non in dichiarazioni grandiose o nella fiducia roboante che Pietro aveva mostrato il giorno prima della morte di Gesù. Troviamo i nostri ministeri di nuovo dati a noi giorno per giorno, man mano che confessiamo le nostre colpe e ancora veniamo, umili, e diciamo “Sì, Signore, ti voglio bene”.
La risurrezione e il perdono sono, dopo tutto, due lati della stessa medaglia; se si crede nell’una, bisogna credere nell’altro. Come disse Ludwig Wittgenstein, è l’amore che crede alla risurrezione. Qui nel vangelo di Giovanni, in Maria, in Tommaso, e soprattutto in Pietro, scopriamo che cosa significhi conoscere Gesù risorto come nostro contemporaneo, colui che asciuga le nostre lacrime, che risponde alle nostre domande difficili, ma che soprattutto ci invita a venire con umiltà e amore, l’amore attraverso cui il potere della sua vita risorta, il suo essere pastore del suo gregge, può arrivare a lavorare di nuovo nel nostro tempo. Questo significa riconoscere Gesù risorto come nostro contemporaneo. “Sì, Signore”, diciamo, “Tu lo sai”. “Bene, allora,” risponde Gesù, “pasci le mie pecorelle”.
Note al testo
[1] Maggiori dettagli, più o meno su tutti gli aspetti di quel che seguirà, possono essere trovati in N. T. Wright, The Resurrection of the Son of God (SPCK e Fortress Press, London e Minneapolis 2003), tr. it. Risurrezione, Claudiana, Torino 2006; o Surprised by Hope (SPCK e Harper-San Francisco, London e San Francisco 2007).
[2] In ogni caso, anche “spirito”, nel mondo di Paolo e dei suoi uditori, sarebbe stato più verosimilmente compreso in un senso quasi-fisico, in linea con la filosofia stoica; ma questa è un’altra questione.