Munch. Quel «Grido» verso Dio per esorcizzare la morte, di Michele Dolz
Riprendiamo da Avvenire del 17/2/2013 un articolo scritto da Michele Dolz. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (24/2/2013)
«La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza potere scegliere». Così scrive Edvard Munch in una delle molte note autobiografiche che sono chiave importante per la comprensione della sua opera. Se c’è un artista in cui non si possa dividere la vicenda personale dall’opera, questo è Munch.
Basta un’occhiata a un qualsiasi libro illustrato su di lui per comprendere che tutta la sua produzione è piena di figure isolate (anche quando sono in gruppo), ferme, pensose e spesso tristi. E in tutte serpeggia la morte. Una donna balla con uno scheletro che l’avvinghia nei passi di danza. Famigliari e amici, perfettamente isolati, vegliano nella camera del morto. L’abbraccio di una donna dalla lunga capigliatura rossa è il morso del vampiro che sprizza sangue.
O La morte di Marat, parafrasi del famoso dipinto ma con la donna assassina inebetita in piedi affianco al letto. L’elenco è lungo e si potrebbero aggiungere anche i molti dipinti malinconici.
Non sono frutto di emozioni del momento, Munch riprese queste immagini molte volte lungo il suo percorso, apportando variazioni sempre sentite. Della serie, il capolavoro è Bambina malata (1886), che egli ricorda così: «Nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora [...]. Così vissi coi morti». Sua madre morì quando egli aveva quattro anni, una sorella diventò matta e un’altra morì di tubercolosi a soli quindici anni (la bambina malata). «Credo che nessun pittore abbia vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto La bambina malata [...]. Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte venne a prenderli».
Edvard fu spesso malato fisicamente e mentalmente e trascorse lunghi periodi in sanatori. La sua vita sentimentale fu disastrosa. Il suo rapporto con le donne, non risolto, e si vede in certi dipinti che accennano a un vago erotismo come a una minaccia. Anni di ansia, vita irrequieta e alcool lo portarono al crollo del 1908 e al lungo ricovero in una clinica per malattie mentali a Copenhagen.
Eppure Munch non fu un disperato, partecipò alla vita intellettuale di Christiania, fu amico di scrittori e poeti, e fu acclamato come il più grande artista, principalmente in Germania, conobbe la filosofia di Nietzsche (che ritrasse) e più tardi s’imbatté in quella di Kierkegaard. Al periodo di salute dopo quel ricovero appartengono peraltro opere piene di vitalità come quelle dipinte per l’aula magna dell’Università di Oslo. Ma perfino in quelle c’è la solitudine, magari di corpi possenti e luminosi, l’incomunicabilità. Tra il 1920 e il 1930 si ritirò solo nello studio di Ekely. Di quel periodo sono i suoi autoritratti da vecchio, di una drammaticità senza precedenti. Siamo di fronte a uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, certamente della modernità. Ma quale enigma si serra ancora nelle sue tele!
Edvard nacque nel seno di una famiglia protestante e praticante. Ma il contatto con la vita bohémien lo allontanò dalla fede paterna. Tuttavia fu interessato allo spiritualismo, di moda allo svoltare del secolo e soprattutto esplorava l’animo umano attraverso la propria introspezione. Un lumicino di fede rimaneva. Nel 1929 scrisse: «Si potrebbe dire che sono stato uno scettico, ma che non ha mai negato né preso in giro la religione. Il mio dubbio era più un attacco al superpietismo che ha dominato la mia educazione». E nel 1934: «La mia dichiarazione di fede: Mi inchino di fronte a qualcosa che, se si vuole, si potrebbe chiamare Dio; l’insegnamento di Cristo mi sembra il più bello che c’è, e Cristo stesso è molto vicino al divino, se si può usare questa espressione».
È il dipinto più esplicitamente religioso di Munch, Golgotha (1900) a fare da manifesto al suo confuso credere: un povero uomo nudo crocifisso, egli stesso, vede scorrere intorno una folla irriverente e beffarda. Manifesto anche della sua tecnica e della sua arte, dove il 'che cosa' conta ben più del 'come'.
Spesso è stato definito panteista, con qualche scampolo di ragione. Certamente si sentiva parte dello scorrere della vita, dell’alternarsi di vita e morte in un ciclo fatale. «Sentì una sorta di rapimento al pensiero di diventare un tutt’uno con questa terra che era sempre in fermentazione, sempre sotto la luce del sole, e che stava vivendo, e dal mio corpo in decomposizione piante e alberi sarebbero cresciute, e piante e fiori riscaldate dal sole. Nulla sarebbe finito, questa è l’eternità».
A quel Dio ancora visibile scrive: «Tu sei una cosa inconcepibile che si trova in profondità all’interno del protoplasma, in cui sei come una testa infinitamente grande dipinta nel firmamento, Dio, l’inconcepibile, oltre il pensiero, il grande segreto, la giustizia. Se ho peccato sarò tormentato per sempre. Non l’ho chiesto io, questo mondo […] e ho sentito una voce dentro di me: Uomo, nessuno è cattivo, goditi il sole come le piante, che girano le foglie verso la luce, amatevi gli uni gli altri, siate tolleranti gli uni con gli altri. E quando verrà il tempo di morire, quando raggiungerai il sospirato traguardo, allora lascia te stesso volentieri all’aria e alla terra, e gioisci».
Il grido (o L’urlo), nelle sue varie versioni, non è solo l’opera più famosa di Munch ma anche l’icona del suo modo di fare arte. Racconta che durante una passeggiata, solo e malato, fu colpito dai colori del tramonto sul fiordo. «Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando».