Circostanze e argomentazione dell’Epistola agli Ebrei, di Giancarlo Biguzzi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /02 /2013 - 16:27 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo per gentile concessione dell'autore dalla rivista "Liber Annuus" 60 (2010) 155-172 un articolo scritto da Giancarlo Biguzzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti e per altri testi di Giancarlo Biguzzi, vedi la sezione Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (17/2/2013)

Indice

Introduzione

Nel paludato periodo d’apertura, ritenuto da C. Spicq la frase greca più perfetta di tutto il Nuovo Testamento[1], l’Epistola agli Ebrei lascia trasparire qualcosa del dissenso che l’ha provocata. I commentatori parlano di esordio[2], ma dell’esordio Eb 1,1-4 ha solo l’anticipazione dei temi[3]. Manca infatti ogni tratto personale: l’autore non accenna né a volersi ingraziare gli interlocutori né a dichiarare inadeguatezza o particolare competenza circa l’argomento che tratterà.

Tutto è concentrato sui contenuti che, tutti, sembrano di tono positivo ed entusiastico, ma la puntigliosa dimostrazione che seguirà deve far pensare che fin dal principio non manchino le avvisaglie dei temi controversi[4], anche se velate sia dalla solennità dell’eloquio[5] sia dall’eleganza delle allitterazioni[6].

I. Homologoumena e antilegomena in Ebr 1,1-4

1. Homologoumena o punti condivisi

L’autore non si sente in difficoltà a prendere il via con affermazioni di grande portata su Dio e di portata ancora più grande sul Figlio. Di Dio dice che ha parlato in due epoche diverse, circa le quali mette a confronto e contrasto i tempi (in antico, oggi), i destinatari (i padri, noi), e i mediatori (i profeti, il Figlio)[7].

Del Figlio l’autore dice che sarà erede di tutta la creazione (escatologia), che di essa fu mediatore (protologia) (v. 2b), che è splendore della gloria e impronta della sostanza di Dio (natura divina) e, infine, che sostiene tutto ciò che esiste con la potenza della sua parola (provvidenza, governo cosmico) (v. 3a). Pochi testi neotestamentari hanno una concentrazione cristologica come la trentina di parole di questi versetti. E bisogna subito dire che questa fede è condivisibile non da parte di destinatari ebrei o inclini a tornare all’ebraismo, ma solo da destinatari cristiani, che cristiani si sentono e intendono restare.

Ciò che qui con più enfasi l’autore afferma del Figlio è che in lui Dio ha parlato, così che la cristologia di questi versetti è dunque in primis cristologia profetica. Il verbo che ricorre due volte avendo Dio come soggetto grammaticale è laleō il quale di per sé nel greco classico significa «cianciare», «chiacchierare», tanto è vero che lalē, lalia, lalēma significano «cicaleccio», «ciarla», mentre lalos significa «garrulo», «chiacchierone», debolezza che Platone attribuisce agli Ateniesi[8]. Non è certo questo lo spessore di laleō nell’Epistola, dove il verbo ha per soggetto esplicito o implicito Dio (1,1.2; 4,8; 5,5; 11,18), Gesù (7,14 e 7,19) il cui sangue ha una voce più forte di quella del sangue di Abele (12,14), e poi ancora gli angeli come mediatori della Legge (2,2) e Mosè sia come autore biblico sia come mediatore della alleanza al Sinai (7,14; 9,19). Nell’Epistola laleō serve infine a parlare dell’annuncio evangelico profetizzato da Mosè (3,5) o diffuso fra i destinatari dell’Epistola dai fondatori della loro comunità (13,7)[9].

Di tutto questo l’autore non si preoccuperà di dare dimostrazione, e deve trattarsi dunque di ciò che gli interlocutori non avevano bisogno di essere persuasi da alcuno. Si potrebbero evidentemente elencare altri punti condivisi tra autore e destinatari, come l’autorità delle Scritture e i metodi di interpretazioni di esse, ma qui è utile concentrare l’attenzione sulla cristologia profetica, sottolineando come in tutta l’Epistola il vocabolario della profezia sia scarsissimo. Mancano completamente i termini neotestamentari prophēteia, prophēteuō, prophētikos, prophētis e ricorre due volte soltanto prophētes: oltre che in 1,1 («Dio ha parlato in antico per mezzo dei prophetai»), il termine ricorre poi soltanto in 11,32, nella rassegna storica dei grandi credenti antico-testamentari: «Mi mancherebbe il tempo se volessi parlare di Gedeone (…) di Davide, di Samuele e dei prophētai».

Insomma, l’autore dell’Epistola mette Gesù al vertice della profezia ma, proprio a motivo della discussione che deve sostenere, non ritiene produttivo insistere sulla dimensione profetica del Cristo. Anzi, anche per tutta la tradizione profetica dell’Antico Testamento egli preferisce, come s’è visto, il vocabolario della lalia, nonostante fosse sgradevole per il fine orecchio dei greci.

2. Antilegomena o punti controversi

L’esordio va verso la sua conclusione dicendo che il Figlio è asceso alla gloria del cielo: lo fa con le parole del Salmo 109, cui ricorre qui per la prima di una lunga serie di citazioni e argomentazioni: «… sedette alla destra della Maestà nelle altezze» (v. 3b). Da questo innalzamento alla destra di Dio per l’autore deriva l’affermazione finale dell’esordio secondo la quale Gesù ha ereditato un nome più grande che non quello degli angeli.

Con questa nota di gloria l’autore in parte continua a cercare terreno d’incontro con coloro cui scrive e tuttavia, sia in questo contesto sia nella grande argomentazione dei capitoli centrali, l’anabasi al cielo è il punto d’arrivo della precedente opera di Gesù, della quale parla la frase participiale katharismon tōn hamartiōn poiēsamenos: ed è la purificazione dai peccati ciò su cui verte la discussione di tutta l’Epistola[10]. In 9,13-14 l’autore ricorrerà ancora alla terminologia del katharismos concedendo che il sangue animale e la cenere di una giovenca purifichino (pros katharotēta) la carne di chi è impuro per trasgressioni di inavvertenza, poi, argomentando a fortiori esclama: «Quanto più il sangue del Cristo purificherà (kathariei) la nostra coscienza dalle cattive opere per servire il Dio vivente». Allo stesso modo nella primissima esortazione, in 2,2, l’autore contrapponeva la parola detta dagli angeli (di’aggelōn lalētheis logos) e cioè la Legge, alla sōtēria detta da Gesù (sōtērias hētis archēn labousa laleisthai dià tou kyriou). Da una parte dunque la profezia su cui i destinatari convenivano, circa la quale all’autore conviene invece essere reticente come sì è visto, e dall’altra la sōtēria su cui invece i suoi interlocutori non convenivano.

Di qui vengono anzitutto le affermazioni per le quali Gesù è causa di sōtēria eterna (aitios sōtērias aiōniou, Eb 5,9), al servizio della quale sono gli stessi angeli (1,14), e alla quale il Cristo conduce come condottiero di tutti gli esseri umani (… ton archēgon tēs sōtērias, 2,10). Di qui viene in secondo luogo la grande insistenza sullo haima di Gesù, sangue che egli offrì al posto del sangue altrui (9,25), quello di tori e capri (9,12). Di qui viene l’invito a entrare nel santuario in forza di quel sangue (10,19), che è il sangue del grande pastore (13,20), ormai più eloquente che quello di Abele (12,24). Di qui vengono, di conseguenza, le accorate messe in guardia dal crocifiggere di nuovo il Figlio di Dio esponendolo al dileggio (6,6), e dal ritenere impuro (koinon) il sangue suo di Gesù, che equivale a calpestare il Figlio di Dio.

Sembra dunque di poter dire che i destinatari dell’Epistola professassero una cristologia alta, soprattutto in chiave profetica, per cui Gesù come profeta aveva superato tutti i profeti antichi nel comunicare agli esseri umani la lalia divina: noi diremmo la rivelazione. Il loro Gesù era dunque il Rivelatore, ma non era il Salvatore, né il Sacerdote che aveva purificato gli esseri umani con il suo sangue.

II. La soteriologia nell’argomentazione dell’Epistola

Nell’esordio, dunque, il molto miele (cristologia profetica, rafforzata dalla cristologia teo-logica, protologica, economica ed escatologica) deve aiutare i destinatari a inghiottire la medicina amara della soteriologia. L’autore si dà ad illustrare la cristologia soteriologica anche subito dopo l’esordio, e lo fa con grande finezza, perché ricomincia dai temi, condivisi dai destinatari, della glorificazione di Gesù alla destra della maestà nei cieli e del nome più grande di quello degli angeli. Ma il tema della soteriologia sarà un basso continuo, anzi ostinato, nell’argomentazione dell’intera Epistola, dall’inizio alla fine: è il suo tema unificante. Per questo motivo, anche se in termini sintetici, saranno qui riprese e come parafrasate le argomentazioni soprattutto dottrinali dell’Epistola.

Nei primi due archi argomentativi (Eb 1,5-2,18 e 3,1-5,10) l’autore procede con ritmo binario, e procede invece con ritmo ternario negli ultimi due (Eb 5,11-10,18 e 10,19-13-24).

1. La premessa: vicino a Dio e vicino agli uomini

Le prime due sezioni sono quelle in cui l’autore mostra come il Figlio abbia un nome, e cioè una identità, più grande di quello degli angeli, essendo più di essi vicino sia a Dio che agli uomini[11].

La vicinanza a Dio del Figlio è detta con una catena di prove bibliche secondo le quali egli, a differenza degli angeli: è appunto Figlio (1,5) e non semplice ministro (1,7), dagli angeli deve essere adorato (1,6), è Dio (1,8.9), è re, con trono eterno e scettro di giustizia, re unto con olio di esultanza (1,8-9), è kyrios creatore della terra e del cielo (1,10), è re eterno i cui anni non avranno fine, mentre cielo e terra saranno da lui avvoltolati come un mantello (1,11-12) e, infine, siede alla destra di Dio e i suoi nemici saranno posti sotto i suoi piedi (1,13).

Dopo l’esortazione, la prima fra molte nell’Epistola, a non trascurare la sōtēria annunciata da Gesù (2,1-4), l’autore ha facile gioco a mostrare che Gesù è anche più vicino agli esseri umani che non gli angeli. Infatti, poiché voleva condurre a salvezza «molti figli» (2,10), Dio rese il Figlio per poco tempo (o di poco) inferiore agli angeli secondo le parole del Salmo 8. La disponibilità del Figlio è stata piena: ha partecipato al sangue e alla carne degli umani (2,14) e ha esperimentato la sofferenza (2,10) e il passaggio buio della morte (2,9.14) per liberare «coloro che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (2,15).

 In tutto questo il Figlio è stato bensì reso inferiore (ēlattōmenon) agli angeli, ma quell’abbassamento non è stata una degradazione. È stato invece la via che Dio ha scelto per rendere perfetto il Figlio quale guida alla salvezza: «Conveniva infatti che Dio rendesse perfetto (teleiōsai) per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza (ton archēgon tēs sōtērias)» (2,10; cf. 5,9). La sofferenza e la morte lo hanno fatto solidale con gli uomini più che gli angeli e lo hanno reso perfetto quanto al sacerdozio (archiereus). Il nostro autore scriveva in greco e il termine che ha dovuto usare qui e altre sedici volte[12] non è di aiuto come, in lingua latina, lo sarebbe stato il termine pontifex[13]. Uno dei filologi romani più antichi, Marco Terenzio Varrone, faceva derivare pontifex da «pontem + facere (= costruire ponti)», e la sua etimologia, dopo proposte alternative sia antiche sia moderne, è stata ripresa nel Novecento e resta la migliore[14]. Il sacerdote deve, dunque, fare da ponte tra gli uomini e Dio, ed è significativo che, nei primi due capitoli, l’autore di Ebrei si attardi a chiarire chi mai possa ricongiungere l’umanità a Dio e che solamente in 2,17 definisca Gesù come «sommo sacerdote», dopo avere mostrato che è lui a trovarsi in quella condizione.

2. Profeta degno di fede - Sacerdote capace di com-patire

Nella terza e quarta argomentazione l’autore infatti mostrerà come Gesù sia da un lato «degno di fede» e, dall’altro, «misericordioso», che sono le qualità indispensabili a ogni mediatore o «pontefice»[15]. Il tema della sōteria riaffiora subito, prima che la illustrazione dei due aggettivi cominci: «… diventò sommo sacerdote allo scopo di espiare i peccati del popolo («eis to hilaskesthai tas hamartias tou laou»). Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto di quelli che subiscono la prova» (2,18). Davvero l’autore non dà tregua a chi apprezza la profezia di Gesù e non la sua umanità segnata dalla sofferenza, che è sofferenza salvifica.

Dopo il confronto con gli angeli l’autore confronta Gesù con Mosè. Anche Mosè fu pistos - dice l’autore. Lo fu però come servitore (hōs therapōn) nella casa di Dio (en tōi oikōi autou), mentre il Cristo fu pistos in qualità di figlio (hōs huios) sopra la sua casa (epi ton oikon autou) (3,2.5). Affermata dapprima e brevemente la credibilità del Cristo in rapporto a Dio («… è pistos per colui che lo ha costituito [apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo]», 3,1), l’autore illustra poi la credibilità del Cristo nei confronti della «casa di Dio, che siamo noi» (3,6b). Lo fa molto diffusamente in 3,6b-4,12, attualizzando il Salmo 95 per l’«oggi» delle generazioni venute dopo quella dell’esodo, che nel deserto fu ribelle. Si tratta di un’ulteriore concessione all’entusiasmo dei destinatari circa la cristologia profetica, ma l’autore precisa che quella parola è una parola purificatrice e non solo rivelatrice, perché discerne i sentimenti e i pensieri del cuore penetrando fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito (4,12-13)

Oltre che degno di fede, Gesù è poi sacerdote «capace di compatire». Nei giorni della sua carne, da ciò che patì Gesù fu reso perfetto (teleiōtheis), evidentemente quanto a vicinanza agli uomini, e divenne causa di salvezza eterna (aitios sōtērias aiōniou). Anche qui, dopo la concessione alla cristologia profetica che s’è visto (la voce degna di fede più di quella di Mosè), è affermata massicciamente la cristologia soteriologica: nella menzione dei giorni «della carne» di Gesù, nella teleiōsis da lui conquistata attraverso la sofferenza, e soprattutto nell’avere egli procurato una sōtēria non passeggera, ma eterna.[16]

3. Un sacerdozio alternativo all’inefficace sacerdozio aronitico

In Eb 7 l’autore riesce poi a dimostrare che, pur provenendo dalla tribù non-sacerdotale di Giuda (7,14), Gesù è proclamato sacerdote dalle stesse Scritture. Riesce nell’impresa, combinando Gen 14,18-21 e il Salmo 110, gli unici due testi dell’AT in cui compaiono la figura e il nome di Melchisedek. Il primo testo gli consente di affermare che le Scritture parlano di un sacerdozio alternativo e più grande di quello aronitico[17], dal momento che Abramo, «il patriarca»! (ho patriarchēs, in posizione enfatica; 7,4), pagò la decima a Melchisedek, definito dalla Scrittura «sacerdote del Dio altissimo». Il Salmo 110, poi, attribuisce quel sacerdozio, il sacerdozio di Melchisedek, al kyrios di Davide, il Messia, e dunque alla persona di Gesù: «Ha detto il kyrios al mio kyrios: (…) “Tu sei sacerdote in eterno secondo la taxis di Melchisedek» (Sal 110,1.4). In secondo luogo, parlando di taxis, il Salmo evoca non una singola persona che ha la carica sacerdotale, ma tutto un ordinamento,[18] con un proprio sacerdozio, un tempio, una legislazione (cf. Eb 7,12), ministri, propri riti e sacrifici.

In Eb 7 l’autore innesca una seconda linea argomentativa: quella dell’inefficacia del sacerdozio e dei sacrifici giudaici che risalta in tutta la sua evidenza nel confronto con ciò che è migliore, kreitton: «… a causa della sua [= dell’ordinamento aronitico] debolezza e inutilità si ha l’introduzione di una speranza migliore (kreittonos elpidos), grazie alla quale noi ci avviciniamo a Dio» (7,18-19). Nell’Epistola il comparativo kreittōn ricorre 13 volte, sulle 19 del NT, e costantemente vi qualifica le realtà cristiano-messianiche[19], e anch’esso parla di soteriologia: in 6,9 ta kreittōna ha infatti come sinonimo «cose che portano alla salvezza, echomena sōtērias». Il discorso sulla sōtēria è qui proposto, non in quanto complementare nei confronti della profezia, come nell’esordio, ma in quanto è superiore alla salvezza che poteva essere raggiunta nel ordinamento sacrificale giudaico.

4. Sangue suo, non di capri e di vitelli - Riti non ripetitivi e deprimenti

Insistendo sul confronto finalizzato a mostrare come le realtà giudaiche siano inefficaci, l’autore afferma che nell’antica economia l’accesso a Dio era difficile a causa di limitazioni sia spaziali che temporali: solo il sommo sacerdote e solo una volta all’anno entrava nel Santo dei santi per la purificazione propria e del popolo. Il commento dell’autore è tagliente: «Lo Spirito Santo intendeva così mostrare che non era stata ancora manifestata la via del santuario» (9,8). E la sua contrapposizione è esplicita: «Se la prima [diathēkē] fosse stata perfetta, non sarebbe stato il caso di stabilirne un’altra (deuteras (8,7)

Anche qui, dal discorso sulla inferiorità-superiorità l’autore torna qui più che mai al suo tema, quello del peccato, della sōtēria, e del sangue redentore di Gesù, quando parla dei riti sacrificali: il Cristo infatti ha procurato una redenzione eterna (aiōnian lytrōsin), offrendo non sangue di capri e di vitelli, ma il suo proprio sangue (dia tou idiou haimatos). Quanto ai tempi, il Cristo non ha fatto la sua offerta ripetute volte, come è necessario che faccia il sommo sacerdote gerosolimitano, ma «una volta sola – [ep]hapax[20], annullando il peccato (eis athetēsin hamartias) mediante il sacrificio di sé stesso» (9,25-26).

5. Non solo versamento del sangue ma obbedienza

Il tema della sōtēria domina, poi, tutto l’approfondimento del tema del sacrificio di Gesù (10,1-18). Dapprima l’autore lo mette ancora a confronto con i sacrifici del giudaismo dei quali afferma l’inefficacia frustrante in quattro lucidissimi versetti (10,1-4), e poi ne definisce la natura e l’efficacia, portando l’Epistola al suo vertice nei vv. 10,5-10.

Quanto alla sōteria, i sacrifici giudaici anzitutto sono inefficaci («Non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che gli offerenti, purificati una volta per tutte, non avrebbero più alcuna coscienza dei peccati?», 10,2), in secondo luogo sono deprimenti («In quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccati», 10,3), e infine sono essenzialmente inadeguati («È impossibile che il sangue di tori e di capri elimini i peccati», 10,4). Dopotutto è la Scrittura stessa che ne dichiara l’insufficienza e ne annuncia la sostituzione. Secondo il Salmo 40, infatti Dio li ha ripudiati e sostituiti: «Non hai voluto né sacrificio né offerta […], né olocausti né sacrifici per il peccato» (10,5-6). Abolendo il primo sacrificio, Dio costituisce quello nuovo (10,9), e il nuovo è il sacrificio della propria volontà che Gesù ha fatto per compiere la volontà di Dio: «Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà (tou poiēsai to thelēma sou)» (10,9). Quella volontà è stata salvifica una volta per tutte: «Mediante quella volontà siamo stati santificati (…) una volta per sempre (ephapax)» (10,10).

L’autore non trovava nel Salmo 40 il termine «sangue» che lo aiutasse a parlare della sostituzione dei sacrifici cruenti giudaici con il sangue di Gesù, e quella felix absentia lo ha portato a scandagliare sino in fondo la natura e l’essenza di ogni sacrificio e soprattutto del sacrificio di Gesù e della sua efficacia. Gesù aveva bensì offerto il suo proprio sangue e non il sangue di capri e vitelli, e tuttavia anche il sacrificio del proprio sangue non è al riparo da ciò che può pregiudicarne l’eroicità e nobiltà. Dopotutto, Paolo diceva che distribuire in cibo i propri beni e persino dare il proprio corpo, a nulla servono se non sono ispirati dall’agapē (1Cor 13,3). Commentando quel testo, R. Kieffer può parlare di eroismo «malsano» e H. Schlier può scrivere: «L’uomo a volte si dona per sfuggire all’amore»[21].

Mentre Paolo chiede che a motivare il sacrificio della propria vita sia l’agapē, pena la sterilità del gesto, l’autore dell’Epistola afferma che l’autenticità dell’offerta del proprio sangue da parte di Gesù è venuta dall’obbedienza, lui che «imparò l’obbedienza (tēn hypakoēn) da ciò che patì» (5,8). Ancora più che con 1Cor 13, il contatto di Ebr 10,10 è allora con Rm 5 dove l’obbedienza di Gesù ha vinto la disobbedienza di Adamo e ha riconciliato la famiglia umana con Dio: «Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza (dia tēs hypakoēs) di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).

Non tanto il sangue ma l’obbedienza di Gesù, dunque, ha risanato ephapax le relazioni degli uomini con Dio perché, una volta riportato nell’obbedienza a Dio, l’essere umano non ha bisogno più di alcuna purificazione, essendo santificato in permanenza (10,10). È a ragione, dunque, che l’autore nei capitoli precedenti aveva parlato di disobbedienza per la generazione dell’esodo (apeitheia, apeitheō; 4,6.11; 3,18), e di obbedienza per Gesù e per quelli che a lui si sottomettono (hypakoē, hypakouō; 5,8.9)[22].

Con ciò l’Epistola è giunta al suo vertice dogmatico, ma non è terminata, perché altro è il vertice dogmatico, e altro è il vertice retorico. Per questo, all’autore resta ancora la parte più difficile, quella di portare alla giusta decisione i suoi interlocutori. Egli tenterà l’ardua impresa nei capitoli restanti i quali, nella strutturazione dell’Epistola proposta da A. Vanhoye, hanno invece uno statuto in parte minore (Eb 11-12) e in parte minimo (Eb 13). Sia riguardo ai temi dogmatici dell’Epistola, sia riguardo alle preoccupazioni ecclesiali dell’autore, porta molto fuori strada soprattutto il titolo dato da Vanhoye all’ultima parte: «Vie diritte verso il frutto pacifico della giustizia»[23]. La giustizia e il suo frutto hanno infatti poco a che fare dal punto di vista tematico con il sacerdozio e con il sangue del Cristo, ma ancora meno con la situazione dei destinatari dell’Epistola, come si deve vedere ora, nella grande esortazione di Eb 11-13. D’altra parte è ovvio che questi ultimi capitoli sono preziosi, non tanto per ulteriori spunti di soteriologia che pure non mancano, ma per le indicazioni che contengono circa i destinatari e circa le scelte di tipo religioso che hanno in animo di fare.

6. Prima esortazione: con la pistis dei Padri…

Anche l’esortazione finale è ritmata triadicamente ed è preannunciata in 10,35-39, dove ai destinatari dell’Epistola è detto che hanno bisogno di perseveranza-hypomonē (i) e di pistis-fede (ii) per potere raggiungere la epaggelia-promessa (ii): «Avete bisogno di hypomonē, affinché (…) possiate raggiungere la epaggelia (…). Noi non siamo quelli della hypostolē che porta alla rovina, ma quelli della pistis per la conquista della vita» (10,36-39).

La prima delle tre esortazioni a essere svolta è quella della fede: l’autore vi propone una lunga serie di exempla introdotti anaforicamente con le formule kata pistin (11,7.13), dia pisteōs (11,33.39), chōris pisteōs (11,6) e pistei (17 volte), senza contare quelle composte con il pronome. La pistis non è la fede quae creditur, ma quā creditur. È quella per la quale, di fronte ad un’alternativa, si sa scegliere la parte migliore, anche se comporta ostilità e martirio. In una digressione di sapore teologico e non narrativo-evocativo l’autore dice che tutti gli eroi della fede non conseguirono i beni promessi, ma che solo li videro e li salutarono da lontano (11,13), restando alla ricerca della città per loro preparata da Dio (11,14-16).

In questa prima esortazione finale anzitutto l’autore mostra ai suoi interlocutori che l’esempio dei padri li contesta radicalmente nelle loro incertezze, nella hypostolē (10,38-39) che progettavano. Il vocabolario della hypostolē nasconde una metafora nautica, perché (hypo)stellein è l’azione per cui si abbassano le vele[24], si desiste, ci si ritira impauriti di fronte a una difficoltà. In secondo luogo con l’esortazione di Eb 11 l’autore invita invece i suoi interlocutori a vivere protesi in avanti con la fede dei padri verso il futuro e verso le promesse divine. Le statistiche sono eloquenti: pistis e pisteuein ricorrono 25 volte, cinque volte ricorre il vocabolario della visione o non-visione, e sette volte il vocabolario della epaggelia (vv. 9bis.11.13.17.33.39). In terzo luogo, a sorpresa, negli ultimi due versetti l’autore dice che i protagonisti della storia biblica, da Abele ai martiri più recenti, non hanno raggiunto ciò in cui hanno creduto e sperato, perché Dio ha concesso perfezione e pienezza non ai grandi credenti del passato, ma alla generazione di cui fanno parte lui e i suoi corrispondenti: «Tutti costoro, nonostante la loro fede non hanno conseguito la promessa, avendo Dio preordinato per noi il kreitton, affinché non ottenessero la perfezione (hina mē teleiōthōsin) senza di noi (chōris hēmōn)» (11,39-40). C. Spicq descrive lapidariamente le due situazioni scrivendo: «Gli Israeliti hanno atteso. I cristiani possiedono»[25].

7. Seconda esortazione: con la hypomonē di cui Gesù è archetipo…

Se è vero che «possediamo», abbiamo però bisogno di hypomonē. Infatti, come i padri furono protesi in avanti verso il futuro e verso le promesse, allo stesso modo «… anche noi dobbiamo correre con hypomonē la corsa che ci sta davanti». In questa metafora sportiva l’esempio proposto è quello di una sola persona, di Gesù: «Corriamo (…) tenendo lo sguardo fisso su Gesù, archegos e teleiōtēs della fede» (12,1-2). Con la prima persona plurale (kai hēmeis), l’autore sembra mettersi nella massa dei credenti e sembra rivolgersi dunque a tutti indistintamente. In realtà, anche questa seconda esortazione è per i destinatari dell’Epistola perché, prolungando il tema della esemplare hypomonē di Gesù, subito l’autore passa alla seconda persona plurale e dice: «Pensate attentamente (analogisasthe) a colui che è stato perseverante (hypomemenēkota) sotto il peso di una grande ostilità» (12,3). Dell’esempio di Gesù e della sua perseveranza essi hanno bisogno per non stancarsi, e per non perdersi d’animo (12,3) e resistere, invece, fino al sangue (12,4). «Siate perseveranti[26] per la vostra paideia» (12,7) - dice loro poco più sotto l’autore -, perché la sofferenza è educativa (12,4-11) e porta frutti di pace e giustizia a chi con essa si addestra.[27]

Altre due metafore sportive, questa volta tratte dalla Scrittura (Is 35,3; Prov 4,26), completano l’immagine della corsa del v. 1: i destinatari devono tirare su le braccia cascanti e le ginocchia rammollite (12,12), perché per dare il meglio di sé l’atleta deve coordinare arti e movimenti. E devono raddrizzare le tortuosità della loro linea di corsa perché in sentieri traversi si farebbero del male: «Raddrizzate le vostre storte trochiai (da trechō, «correre») perché ciò che in voi zoppica non abbia a storpiarsi e abbiate invece a guarire» (12,13).

Coloro cui è indirizzata l’Epistola sembrano dunque essere sotto il tiro di qualche gruppo ostile per cui, stanchi e demotivati, già hanno preso una direzione che per l’autore è apostasia.

8. Terza esortazione: … muovere verso la città futura

Sul finire dell’Epistola l’autore giunge come ad un ingorgo e vuole dire di nuovo tutto e moltiplica le immagini e i riferimenti. Una cosa sola tuttavia gli preme: che i suoi interlocutori non perdano di vista la meta, la vera meta della grande corsa, il raggiungimento della promessa. Lo dice bene K. Backhaus che scrive: «I nomi dei luoghi e le immagini cambiano: il riposo, il santuario, la tenda, la terra, la città, il regno. Ma il tema dell’epaggelia non cambia ed è invece come il cantus firmus dell’intera composizione»[28].

Anzitutto l’autore invita a una triplice vigilanza: che non si disperda la grazia di Dio, che non si avveleni la comunità con un influsso negativo (12,15) e che non si ripeta tra loro il peccato di Esaù il quale, per un vile cibo (brōma), svendette la primogenitura (prōtotokia) (12,16-17). Poi, per dare più forza agli ultimi imperativi, richiama per i destinatari dapprima i capisaldi della loro identità, e poi l’opera purificatrice e santificatrice del Cristo.

Anzitutto, la grazia di Dio che essi rischiano di svendere è proprio la loro identità, segnata e conformata non dalla terrificante teofania del Sinai (12,18-21), ma dalla partecipazione all’assemblea dei primogeniti (prōtotokōn) sul Sion, nella città del Dio vivente. In secondo luogo, quella città, la Gerusalemme celeste, è meta di coloro che vengono portati alla perfezione da colui il cui sangue purifica (haimati rhantismou) e parla con una parola ben più eloquente (kreitton lalounti) che non quella del sangue di Abele. E subito aggiunge un’ulteriore, minaccioso imperativo: «Guardatevi perciò di non rifiutare colui che parla dai cieli (ton lalounta […] ap’ouranōn, perché già gli Israeliti non trovarono scampo per avere rifiutato colui che promulgava decreti semplicemente sulla terra (12,25). Per definire l’identità propria e dei destinatari l’autore torna dunque ai temi della lalia e della sōtēria le quali, invece di escludersi, si sovrappongono (12,22-24).

Poi l’autore scende al concreto, esortando i suoi interlocutori a non lasciarsi portare fuori strada o fuori dal porto (mē parapheresthe, 13,9; cf. l’analogo mēpote pararuōmen di 2,1)[29] circa dottrine varie ed estranee[30] e circa cibi «che non sono mai sati di giovamento». Quanto alle dottrine estranee, l’autore le ha combattute in tutta l’Epistola, e quanto ai cibi (brōmasin), non può non venire in mente il brōma per il quale Esaù perdette la primogenitura, e non può non trattarsi che di cibi legati al culto perché poi l’autore parla di un thysiastērion cui non possono mangiare i giudei («quelli che prestano servizio, o adorazione, alla Tenda», 13,10).

La motivazione di quel divieto è tratta (gar) da Lv 16,27 ed è illustrata con significativa precisione: le carni del giovenco e del capro che venivano immolati nel giorno del kippur, essendo cariche dei peccati di tutto il popolo, non potevano né essere mangiate, né essere bruciate sull’altare, e invece incenerire «fuori del campo», in luogo non puro, mentre il sangue era portato dal sommo sacerdote nel santuario per l’espiazione dei peccati (13,11). Non così Gesù, - dice l’autore -, perché egli ha santificato il popolo (hina hagiasēi ton laon) con il suo sangue patendo fuori dalla porta cittadina (exō tēs pylēs; 13,12). Ancora il sangue di Gesù e la sua sōtēria, dunque! E ancora un imperativo il quale, poiché il sangue di Gesù santifica il popolo fuori città, invita a uscire dall’accampamento per andare verso di lui, anche se c’è da portare il suo obbrobrio (13,13)[31]. Uscire dalla Gerusalemme del kippur andando verso di lui è confessare che non si ha qui una città stabile ed è sentirsi in cammino verso la città futura (13,14), verso la Gerusalemme celeste (cf. 12,22), verso il regno che non crolla (12,28), dove Gesù é sempre vivo per intercedere a nostro favore (cf. 7,25).

Tutto questo era stato anticipato nell’esordio secondo il quale, dopo avere compiuto la purificazione dei peccati, il Figlio si è assiso alla destra della Maestà con un nome (e cioè, con un ruolo di mediatore tra Dio e gli uomini) più eccellente che non il nome degli angeli. È così che, dall’inizio dell’Epistola alla fine, i destinatari sono invitati ad accogliere la sōtēria di Gesù, e non solo la sua profezia.

III. La situazione dei destinatari

Dalla complessa risposta dell’autore svolta in tutta l’Epistola e dalle indicazioni circa i destinatari che da essa si possono trarre, si può ora tentare una ricostruzione delle circostanze che richiesero la stesura dell’Epistola, la quale elabora non una dottrina fine a se stessa, ma che è finalizzata a esortare chi era in difficoltà e in bilico.

1. Parte di una comunità e non una comunità intera

La prima, importante deduzione è da trarre dall’ultimo versetto. In 13,24 l’autore chiede a coloro cui scrive di salutare i loro capi e tutti i santi: la richiesta di salutare i capi dice che l’autore non si rivolge ad essi (cf. anche 13,17)[32], mentre la richiesta di salutare «tutti i santi» dice che i destinatari non sono l’intera comunità, bensì solo una sua porzione[33].

Anzi, coloro cui l’autore si rivolge sembrano essere causa di profonda preoccupazione per i capi: «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi: essi vegliano per le vostre anime!, come chi ha da renderne conto. Obbedite perché facciano questo con gioia e non gemendo (stenazontes. Il verbo stenazō descrive lo stato d’animo di chi è fortemente scosso: in Euripide il verbo ha come complemento oggetto addirittura parole di maledizione (stenazein aras)[34]. Il motivo del grave disagio provato dai capi potrebbe essere il pericolo che quel gruppetto, come la radice velenosa di cui parla il v. 12,15, eserciti un influsso negativo su molti (polloi) della comunità. S’è fatta addirittura l’ipotesi che i capi, non sapendo più come regolarsi a riguardo di quel gruppo, si siano rivolti all’autore, il quale sarebbe stato un concittadino illustre, preparato, stimato da coloro cui scrive, e che, non potendo andare di persona, avrebbe scritto[35].

2. Appartenenza religiosa e pratiche cultuali

All’epoca dei fatti sembra che la rottura tra giudei messianici e giudei non messianici si fosse già consumata, e non da poco tempo: lo fa pensare la separazione degli altari e l’impossibilità per chi adora nella Tenda di mangiare all’altare cui mangiano l’autore e i suoi lettori (13,10). Più difficile è fare ipotesi sulla precisa collocazione religioso-confessionale da cui i destinatari venivano, circa quella in cui si trovano al momento della stesura dell’Epistola, e quella verso la quale si stavano forse muovendo.

È troppo poco dire che il documento è indirizzato a cristiani interessati al rapporto tra Antico e Nuovo Testamento senza che la loro provenienza giudaica o pagana sia rilevante[36]. L’opinione secondo cui l’Epistola è destinata a giudeo-cristiani è sostenuta ancora oggi dalla maggioranza dei commentatori,[37] e ci sono buone ragioni per farlo, come: la non comune conoscenza dell’AT che l’Epistola presuppone; l’acuto interesse al culto, ai sacrifici, al tempio e al sacerdozio, e l’insistenza sul carattere imperfetto e transitorio del culto giudaico, che difficilmente poteva interessare un cristiano proveniente dal paganesimo. A titolo di esempio, per i destinatari sembra esserci solo il sacerdozio di Aronne e dei Leviti, mentre per l’autore è dimostrabile in base alle Scritture l’esistenza di un sacerdozio alternativo e più perfetto: quello secondo l’ordine di Melchisedek. Tutti i confronti istituiti dall’autore, poi, affermano con molta monotonia la superiorità di Gesù sugli angeli come mediatore e su Mosè quanto a credibilità sulla casa di Dio, e sottolineano la superiorità del sacerdozio secondo Melchisedek sul sacerdozio secondo Aronne, del sacrificio di Gesù sui sacrifici del giudaismo, del Sion sul Sinai e sulla sua terrificante teofania che mise nel panico lo stesso Mosè.

Se dunque è giusto supporre che i destinatari dell’Epistola siano di provenienza giudaica, probabilmente si deve invece escludere che ora essi siano intenzionati a tornare alle pratiche giudaiche in cui erano cresciuti. Per Ceslas Spicq, invece, i destinatari erano alcuni di quei sacerdoti che secondo At 6,7 avevano aderito alla fede in Gesù[38]. B. Lindars non accetta l’ipotesi degli «ex-sacerdoti» di Spicq perché la lettera non accenna neppure una volta alla possibilità che i lettori stessi abbiano officiato nel tempio, e tuttavia parla anche lui di nostalgia del giudaismo, anche se chiama in causa semplici fedeli: «I lettori non sono dei ribelli, pervicaci e insolenti, ma hanno la coscienza profondamente turbata e sono fortemente tentati di ricorrere all’aiuto della comunità giudaica».[39] A Lindars si può contro-obiettare che l’autore non accenna mai neanche alla loro presente volontà di tornare a offrire sacrifici a Gerusalemme. In base a 12,4 si può al contrario ipotizzare che l’ostilità esperimentata dai destinatari dell’Epistola nel presente venga proprio dagli antichi correligionari. La lotta contro il peccato (hamartia) nella quale essi non hanno ancora «resistito fino al sangue» e che è per loro occasione di paideia da parte di Dio (12,5-11), non può riguardare i loro peccati personali per i quali non si vede chi possa osteggiare «fino al sangue», né può riguardare la difesa della cristologia soteriologica che essi ormai non condividono più con l’autore. E allora l’ulteriore possibilità è che essi siano incalzati e osteggiati dalla sinagoga di provenienza a motivo della cristo-logia profetica, che per i giudei non messianici era una hamartia inaccettabile, e che essi invece, come s’è visto, assolutizzavano.

Per ricostruire la loro posizione, anzitutto è decisivo dunque il loro disaccordo con l’autore dell’Epistola circa la dottrina soteriologica. Per loro il sangue di Gesù non è affatto eloquente più di quello di Abele e non purifica né santifica. Nulla ha da dire poi né il sacerdozio di Gesù che invece per l’autore, come un ponte, colma l’abisso tra Dio e l’uomo, né il suo sacrificio che per l’autore ha annullato una volte per tutte la disobbedienza umana a Dio, né, infine la presenza di Gesù alla destra di Dio, sempre vivo a intercedere per gli uomini.

Invece che i riti gerosolimitani, ciò che sembra attrarre i destinatari sono cibi (brōmata) che per l’autore, come il piatto di lenticchie (brōma) di Esaù, fanno perdere la primogenitura (ta prōtotokia, 12,16): e cioè l’appartenenza all’assemblea (cristiana) dei primogeniti (prōtotokōn) i cui nomi sono scritti nei cieli (12,23). Fra l’altro, Esaù è qualificato con i due aggettivi pornos e bebēlos i quali ambedue, significativamente non presenti nel testo biblico, parlano di idolatria e di irreligiosità. Bebēlos è ciò che profano, ciò su cui tutti possono muoversi (dalla radice: bainō), mentre il luogo sacro è a-baton, «inaccessibile, sacro, vietato, inviolabile» (ancora dalla radice: bainō). Anche pornos ha qui il valore di «macchiato di idolatria», più che di «scostumato in campo sessuale», perché non fu la scostumatezza sessuale a fargli perdere la primogenitura. Non per nulla, pur essendo ampia e dettagliata, la critica dell’Epistola alle realtà giudaiche non riguarda mai e in nessun modo la trasgressione del primo comandamento, che per un giudeo era invece il maggiore peccato dei non-giudei. Con la figura di Esaù, che per un brōma svende la primogenitura, l’autore vuole dunque bollare i destinatari in quanto stanno inclinando verso pratiche religiose dell’ambiente ellenistico-romano, per giudei e cristiani impregnate di idolatria e di irreligiosità.

In estrema sintesi: la posizione o la tendenza religiosa di coloro cui fu indirizzata l’Epistola sembra essere fatta: (i) di provenienza dal giudaismo, (ii) di componenti di fede giudaiche, e anzitutto di fede nelle Scritture, (iii) di componenti di fede cristiana, e anzitutto di una cristologia alta di stampo profetico, (iv) ma contemporaneamente di freddezza nei confronti della dimensione soteriologica della cristologia, e infine (iv) di alcune pratiche alimentari ellenistico-romane, più che giudaiche. Questo significa che destinatari dell’Epistola erano probabilmente persone tentate di aderire ad una corrente sincretistica la cui dottrina teneva insieme elementi giudaici, elementi cristiani, ed elementi della religione ambientale.

3. Scontro tra cristologia soteriologica e profetica tra sec. I e sec. II

Dottrine sincretistiche analoghe saranno molto diffuse nel secondo secolo. Di esse si ha qualche sentore già negli scritti del Nuovo Testamento e in particolare nelle lettere giovannee, che con l’Epistola hanno in comune almeno quattro decisivi temi soteriologici: la venuta nella carne, il sangue, il peccato e la sua espiazione, la sottolineatura della salvezza a scapito della rivelazione.

La prima e seconda lettera, come è noto, anzitutto prendono ferma posizione contro chi nega la venuta del Cristo nella carne: «Molti ingannatori sono usciti nel mondo i quali non professano la fede in Gesù Cristo venuto nella carne (erchomenon en sarki). Questo è l’ingannatore e l’anticristo» (2Gv 7); «Discernete gli spiriti (…). Ogni spirito che professa Gesù Cristo venuto nella carne (en sarki elēlythota) è da Dio, mentre ogni spirito che non professa [un tale] Gesù non è da Dio. Lui è invece l’anticristo…» (1Gv 4,1-3). In secondo luogo, la Prima Lettera aggiunge con sorprendente insistenza che la venuta nella carne fu caratterizzata dal sangue: «Chi è che vince il mondo se non chi crede che (…) Gesù Cristo è venuto attraverso l’acqua e il sangue (dia haimatos)? Non nell’acqua soltanto, ma nell’acqua e nel sangue (kai tōi haimati)» (1Gv 5,5-6). Comunque si interpreti l’insistenza sull’indispensabilità dello haima per la retta fede cristologica, quel sangue è certamente il sangue redentore della croce. In terzo luogo, la Prima Lettera ha in comune con l’Epistola agli Ebrei la stessa insistenza sia sui peccati (7 ricorrenze di hamartia), sia sulla purificazione e sull’espiazione (katharizō, airō/aphiēmi hamartias - hilasmos), di cui è detto che vengono da Gesù, o dal suo sangue (haima), o dal suo nome (onoma).[40] In quarto luogo, questo martellante magistero delle Lettere sull’incarnazione e sul valore salvifico della morte di Gesù sembra volere ridurre lo spazio che il quarto vangelo riservava alla sua missione di rivelatore. Nelle lettere si riprende bensì il titolo cristologico di Logos, ma lo si storicizza in senso incarnazionistico con i verbi della percezione visiva, auditiva e perfino tattile che di lui si è avuto (1Gv 1,1), e con l’insistenza sui tradenti di quanto fu all’inizio, dai quali non si può prescindere per avere la retta fede nel Figlio e per avere, attraverso di lui, accesso al Padre (cf. 1Gv 1,3 e passim)[41].

Lo scontro tra cristologia profetico-rivelatoria e cristologia soteriologica si accentuerà ulteriormente nei decenni seguenti. Secondo Ireneo di Lione, al tempo di Traiano (98-117 d.C.), Cerinto affermava che il Cristo (= la messianità) abitò in Gesù solo transitoriamente a partire dal battesimo[42], abbandonandolo già prima della passione[43], per cui la morte di croce non avrebbe valore salvifico. Riferisce Ireneo: «Alla fine il Cristo se ne andò via da Gesù, e Gesù sopportò la passione, e risuscitò, mentre il Cristo, essere spirituale, continuò a essere impassibile»[44]. Dai maestri gnostici del secondo secolo Ireneo cita molto altro circa il caposaldo della loro fede nel Rivelatore che salva trasmettendo gnōsis-conoscenza, e sul risoluto rigetto del crocifisso e della morte di croce: «Il Salvatore non si sarebbe incarnato né avrebbe patito: sarebbe soltanto disceso in forma di colomba nel Gesù dell’economia e, dopo avere annunciato il Padre inconoscibile, sarebbe risalito nel Pleroma»; «Se qualcuno riconosce il crocifisso è ancora schiavo (…), chi lo rinnega invece è liberato (…)»[45]. A metà del secolo secondo, anche Policarpo di Smirne scriveva ad esempio: «Chi non confessa che Gesù è venuto nella carne è anticristo», aggiungendo: «Chi non confessa la testimonianza della croce è dalla parte del diavolo»[46].

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In conclusione, per il ragionevole presupposto che dottrine analoghe siano da ambientare in tempi vicini e, in particolare, a motivo della analoga tendenza a contrapporre il Cristo rivelatore al Cristo redentore, non si dovrebbe sbagliare di molto se si dice che ai tempi della stesura dell’Epistola agli Ebrei e delle Lettere giovannee lo gnosticismo era alle porte.

Note al testo

[1] C. Spicq, L’épitre aux Hébreux (Sources bibliques), Gabalda, Paris 1977, 56: «… une seule période, qui constitue sans doute la phrase grecque la plus parfaite du Nouveau Testament». Cf. poi B. Heininger, «Sündenreinigung (Hebr 1,3). Christologische Anmerkungen zum Exordium des Hebräerbriefs», in Biblische Zeitschrift 41 (1997), 54: «Die vier Eingangsverse (…) gehören sprachlich und stilistisch zum Besten, was das Neues Testament zu bieten hat».

[2] A titolo di esempio, parlano di «esordio» W.G. Übelacker, Der Hebräerbrief als Appel. I. Untersuchungen zu Exordium, Narratio und Postscriptum (Hebr 1-2 und 13,22-25) (Coniectanea Biblica, New Testament Series, 21), Almquist und Wicksel International, Stockholm 1989, 106-139; e B. Heininger, «Sündenreinigung (Hebr 1,3), 54-56.

[3] F. Laub, Hebräerbrief (SKK.NT 14), Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1988, 22: «… als Einleitungsstuck einer Rede (…) ein gewaltiges Portal, an dem man schon etwas von dahinter sich erhebenden Architektur ahnen kann»; B. Heininger, «Sündenreinigung (Hebr 1,3)», 56: «Eine erste Intonation der Theologischen Grundgedanken».

[4] Qui sotto i punti condivisi saranno chiamati homologoumena e quelli invece su cui l’autore e i suoi interlocutori non convenivano saranno chiamati antilegomena. I due termini sono appaiati in Eschine (de Falsa Legatione 44,12), Isocrate (Antidosis 84,5), ma, a titolo di esempio, per homologoumena cf. Polibio, Historiae 11,29,8 («… addurrò un argomento accettato da tutti gli uomini [ta para pasin anthrōpois homologoumena], che cioè ogni folla si lascia facilmente convincere e trascinare), e invece per antilegomena cf. Lc 2,34 per Gesù come sēmeion antilegomenon.

[5] Come F. Laub parla di «gewaltiges Portal», così H. Windisch, Der Hebräerbrief (HNT 14), J.C.B. Mohr, Tübingen 21931, 3, parla di «gewaltige Ouvertüre».

[6] Quanto alla allitterazione, se si eccettuano ho theos e lalēsas, nel primo versetto tutte le parole iniziano con la lettera « π » (polymerōs, polytropōs, palai, patrasi, prophetais): l’allitterazione era uno «standard device in oratory, particularly with the letter π »: così W.L. Lane, Hebrews 1-8 (Word Biblical Commentary, 47A), Word Books, Dallas 1991, 31.

[7] Così B. Heininger, «Sündenreinigung (Hebr 1,3)», 54.

[8] Platone, Gorgia 515.e.5. Cf. poi il comico Eupoli (sec V a.C.) che contrapponeva in un oratore le chiacchiere ai veri discorsi (lalein aristos, adynatōtatos legein - chiacchierone sommo, oratore nullo), e cf. Luciano di Samosata che, sei secoli più tardi, proponeva lo stereotipo delle donne lalisterai - loquaci (Rhetorum praeceptor 23,17).

[9] Solo in 2 delle 16 ricorrenze il verbo è usato dall’autore, con significato debole, per il suo proprio discorso (3,5; 6,9). Come nell’Epistola, allo stesso modo laleō ha frequentemente senso forte negli scritti di Filone di Alessandria e, circa 300 volte, nella Septuaginta ha come soggetto Dio.

[10] B. Heininger, «Sündenreinigung (Hebr 1,3)», 56: «Das Sätzchen von der Sündenreinigung kann (…) geradezu als “Schlüsselvers” des Hebräerbriefes gelten, weil das Thema des Schreibens, eben die Reinigung von den Sünden, ausschlägt». È meno condivisibile quanto scrive B. Lindars, «The Rhetorical Structure of Hebrews», in New Testament Studies 35 (1989), 382: «If we look at the opening of the epistle, with its solemn and measured periodic structure, we shall not suppose that anything is wrong at all».

[11] A. Vanhoye ha visto qui un’unica sezione, puntando evidentemente sull’unicità del «nome» di Gesù, trascurando però il fatto che quel nome era per un verso da Gesù già posseduto nella preesistenza (1,8-10) essendo da sempre superiore agli angeli quanto a vicinanza a Dio, e per l’altro è stato invece da lui conquistato nel farsi vicino agli uomini più che gli angeli, quando ha partecipato al loro sangue e alla loro carne (2,14).

[12] Alle 17 ricorrenze del composto archiereus sono da aggiungere le 14 di hiereus, per un totale di 31.

[13] Il termine sacerdos invece, che sembra derivare dalla composizione del latino sacer (= sacro) con la radice sanscrita dhe (= porre, fare), allo stesso modo che (arch)iereus, parla un po’ genericamente e paganamente di chi è addetto al sacro.

[14] Marco Terenzio Varrone, De lingua latina, V, 83. - Varrone (116-27 a.C.) nacque probabilmente a Rieti e fu discepolo del primo filologo latino, L. Elio Stilone. - Per la storia dell’etimologia di pontefice cf. M. Cortellazzo – P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, vol. 4, Zanichelli, Bologna 1992 (11985).

[15] Mentre il primo dittico era annunciato in 1,4 con l’evocazione del nome del Figlio «più grande di quello degli angeli», il secondo dittico è annunciato in 2,17: «Egli doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso (eleēmōn) e degno di fede (pistos)».

[16] M. Ciccarelli, La sofferenza di Cristo nella Lettera agli Ebrei. Analisi di una duplice dimensione della sofferenza: soffrire-consoffrire con gli uomini e soffrire-offrire a Dio (Supplementi alla Rivista Biblica, 49), Dehoniane, Bologna 2008, 303: «È con questa umanità, perfezionata mediante le sofferenze e presentata a Dio come offerta, che Cristo diventa sommo sacerdote misericordioso e ha “compassione” per le nostre debolezze».

[17] Dell’alternativa l’autore è lucidamente consapevole perché a commento di Gen 14 scrive: «Se la perfezione era stata raggiunta per mezzo del sacerdozio levitico, che bisogno c’era che sorgesse un altro (heteron) sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek e non invece secondo l’ordine di Aronne?» (Eb 7,11); «…dal momento che sorge, a somiglianza di Melchisedek, un sacerdote differente (heteros)» (7,15).

[18] Secondo i dizionari, taxis ha i significati di «ordine, ordinamento, disposizione delle schiere, costituzione politica» (Rocci), «arranging, arrangement, order, ordinance, political order, constitution» (Liddell-Scott-Jones).

[19] Di fatto kreittōn o kreitton sono: il nome di Gesù a confronto con quello degli angeli (Eb 1,4), la sua mediazione che è mediazione di un’alleanza migliore (8,6bis), il suo sangue a confronto con quello di Abele (12,24), e poi la speranza (7,19), l’alleanza (7,22), i sacrifici (9,23), e i beni di cui noi disponiamo (10,34; 11,40) e di cui invece non poterono godere i padri, da Abele fino ai martiri di cui parla 2Mac 6-7, essi che, pur protesi non poterono raggiungere una patria e una risurrezione migliori (11,16.36). In 7,7 è Melchisedek a essere più grande di Abramo, ma anche questo in fondo parla del sacerdozio più grande di Gesù.

[20] Le ricorrenza di [ep]hapax sono 11 in Eb, e solo altre sette in tutto il NT.

[21] R. Kieffer, Le primat de l’amour (LD 85), Cerf, Paris 1975, 104; H. Schlier, «Sull’amore», in Il tempo della Chiesa, EDB, Bologna 41981 (Freiburg i.B. 11956) 301.

[22] Questi temi soteriologici saranno evocati un’ultima volta nella dossologia di Eb 13,20-21: in virtù del sangue (haima) dell’alleanza eterna, il Dio della pace ricompone ora nell’armonia (katartisai) con sé i credenti, e quella perfezione consiste nel fare la sua volontà (thelēma), sull’esempio di Gesù e mediante lui (dia Iēsou Christou).

[23] ---

[24] Omero, Iliade 1,433 (histia steilanto); Odissea 3,10 (histia steilan); 16,353 (histia stellontas); Pindaro, Istmica 2,40 («histion ypesteil[e]») e Plutarco; Theseus 17,4.5 (ypostellein). – Al contrario, «issare le vele» in greco è «histia stellein»; Aristotele, Mechanica 851.f.1; Plutarco, De tuenda sanitate praecepta 128.f.1; Dione Crisostomo, Orationes 3,65,3).

[25] C. Spicq, L’épitre aux Hébreux, 198-199: «Les Israelites attendaient. Les chrétiens possèdent».

[26] Il verbo nell’espressione «eis paideian hypomenete», è solitamente inteso come indicativo, ma può essere invece inteso come imperativo: dopotutto, si trova in una serie di imperativi, dei quali due precedono (trechōmen, v. 1; analogisasthe, v. 3) e due seguono (anorthōsate, v. 12; orthas poieite, v. 13).

[27] È questa l’affermazione che, tematicamente del tutto periferica nell’Epistola, è presa da Vanhoye come titolo della quinta, ultima sua parte dell’Epistola. - Se in Eb 8-10 c’è il centro dogmatico del documento, il vertice retorico con tutti i suoi risvolti dolenti e drammatici si trova qui. E se questo è vero, allora Eb 12-13 non è una finale debole e fiacca di un testo dogmatico di grandissima levatura, ma è il punto d’arrivo di tutta l’argomentazione. Cf. in G. Violi, “Usciamo dall’accampamento verso di lui”. Eb 13,13 e le parenesi della Lettera, Cittadella Editrice, Assisi 2008, la discussione circa l’intento dottrinale o esortativo dell’autore (p. 243-252), e la sua presa di posizione: le parenesi della lettera sono «collocate a coronamento d[elle] esposizioni dottrinali» (p. 349), e «la cura retorico-stilistica delle esortazioni (…) non registra cali di tensione fino alla fine del documento», mentre B. Lindars «ritiene che dopo il cap. 12 il cammino sia solo discesa» (p. 352, testo e nota 336).

[28] K. Backhaus, «Das Land der Verheißung: Die Heimat der Glaubenden im Hebräerbrief», in New Testament Studies 46 (2001), 171-188, (citazione a p.185). Sulla importanza dell’epaggelia in Eb cf. anche C. Rose, «Verheißung und Erfüllung: Zum Verständnis von epaggelia im Hebräerbrief», in Biblische Zeitschrift 33 (1989), 60-80; 178-191; 179-180.

[29] J.W. Thompson, «Outside the Camp: A Study of Heb 13,9-14», in The Catholic Biblical Quarterly 40 (1978), 55-56: «Parapheresthe suggests the image of one without an anchor (6,19), who is “carried away” by the winds».

[30] Poikilos può aver valore neutro (vario), positivo (piacevole perché variopinto, cf. il porticato Pecile di Atene, dipinto da Polignoto), e negativo (complesso, oscuro, equivoco). Xenos di per sé significa «non del proprio paese» e, quindi, «estraneo» a ciò che è proprio.

[31] Circa l’importanza questo versetto (e del contesto) cf. J.W. Thompson, «Outside the Camp: A Study of Heb 13,9-14» («… 13,9-14 is the lens through which the rest of the book is viewed», p. 54), e soprattutto G. Violi, Eb 13,13 e le parenesi della Lettera.

[32] Scrive O. Kuss, Lettera agli Ebrei (Il Nuovo Testamento commentato, VIII/1), Morcelliana, Brescia 1966 (Regensburg 1966), 248: «Si noti come l’Autore non dica una sola parola ai capi; piuttosto - si direbbe - egli parla mettendosi dal loro punto di vista».

[33] B. Lindars, «The Rhetorical Structure of Hebrews», 386: «This verse [= 13,17] has persuaded many commentators that the addressees are a dissident group within the church».

[34] Euripide, Phoenissae 334: «stenazōn aras teknois».

[35] B. Lindars, «The Rhetorical Structure of Hebrews», 386 e 390 («The efforts of the leaders have not been successful, and he has been approached as a last resort»).

[36] Sono sostenitori di questa opinione von Soden, Dibelius, Moffatt, von Harnack, Lagrange, Kuss, Kümmel, Vanhoye ecc. Per tutti si può citare E. Grässer, An die Hebräer, I-III, Zürich-Neukirchen Vluyn 1990-1997, I vol., 1990, il quale, dopo avere scritto a p. 23: «Hebr gib für die Adressatenfrage kaum etwas her», a p. 24-25 aggiunge: «Daher wird es wohl richtiger sein, in den Adressaten Christen ohne Rücksicht auf ihre Herkunft zu sehen, die in der zweiten christlichen Generation leben (2,3) und nicht von einer bestimmten Irrlehre, sondern von der typischen Glaubensmüdigkeit ernstlich bedroht sind. Die Verfasser blickt also bei seiner Mahnung nicht auf eine Gemeinde, deren besonderes Schicksal ihm am Herzen läge; er blickt auf das, was alle oder die meisten Gemeinden regelmäßig erleben: er blickt auf die Kirche».

 24-25: «Daher wird es wohl richtiger sein, in den Adressaten Christen ohne Rücksicht auf ihre Herkunft zu sehen, die in der zweiten christlichen Generation leben (2,3) und nicht von einer bestimmten Irrlehre, sondern von der typischen Glaubensmüdigkeit ernstlich bedroht sind. Die Verfasser blickt also bei seiner Mahnung nicht auf eine Gemeinde, deren besonderes Schicksal ihm am Herzen läge; er blickt auf das, was alle oder die meisten Gemeinden regelmäßig erleben: er blickt auf die Kirche».

[37] Così fanno Spicq, Montefiore, Bonsirven; Lindars ecc.

[38] C. Spicq, L’épitre aux Hébreux, 9-13: «Colpiti dall’ostracismo giudaico, sono stati spogliati dei loro averi (10,34); anzi, costretti ad abbandonare Gerusalemme, si sono rifugiati per esempio a Cesarea Marittima o ad Antiochia di Siria, e hanno la psicologia degli sradicati, degli emigrati, dei senza-patria (cf. Eb 11; 13,14)». Ricostruiti a questo modo gli antefatti, Spicq conclude: «Abituati agli splendori del culto levitico e ridotti allo stato laicale, sono tentati di ritornare alla liturgia mosaica».

[39] B. Lindars, La teologia, 18, e 61-62; Idem, «The Rhetorical Structure of Hebrews», 388 e 390. Su tutta la discussione cf. lo status quaestionis di C. Marcheselli-Casale, Milano 2005, 29-36 (destinatari per l’autore sono giudeo-cristiani che «correvano il rischio di velare la loro fede cristiana con un ritorno al giudaismo», p. 31-32).

[40] «… affinché egli togliesse da noi i peccati (hina aphēi hamartias) e ci purificasse da ogni iniquità (hina katharisēi apo pasēs adikias)» (1Gv 1,9); «Lui è espiazione per i nostri peccati (hilasmos peri tōn hamartiōn)» (1Gv 2,2); «Dio ha mandato il figlio suo come espiazione per i nostri peccati (hilasmos peri tōn hamartiōn)» (1Gv 4,10); «… egli fu manifestato al fine di togliere i peccati (hina tas hamartias arēi)» (1Gv 3,5); «Il sangue (haima) di Gesù (…) ci purifica dai nostri peccati (katharizei apo pasēs hamartias)» (1Gv 1,7); «I nostri peccati sono rimessi (apheontai hamartiai) attraverso il suo nome (dia to onoma autou)» (1Gv 2,2).

[41] Ciò che differenzia l’Epistola agli Ebrei dalle Lettere giovannee sono l’assenza di polemica e la speranza che l’autore nutre di fermare in tempo i suoi interlocutori. Nelle comunità giovannee invece la spaccatura si è già drammaticamente consumata (1Gv 2,19; 2Gv 10-11). Preso dalla polemica, l’estensore di 1Gv vorrebbe perfino annullare il passato vissuto insieme: «Non erano dei nostri. Se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi» (1Gv 2,19).

[42] Cf. l’affermazione di 1Gv 5,6: «Venne solo con acqua».

[43] Cf. ibidem: «Venne solo con acqua, e non anche con il sangue».

[44] Ireneo di Lione, Adversus haereses I, 26,1. La dottrina docetistica o gnostica dell’impassibilità del Salvatore è combattuta da Ireneo ad ogni passo.

[45] Ireneo di Lione, Adversus haereses III, 11,3 (prima citazione; dottrina attribuita ai Valentiniani); I, 24,4 (seconda citazione; dottrina attribuita a Basilide).

[46] Policarpo di Smirne, Ad Philippenses 7,1.